Se il suo disinganno
aveva qualche lieve conforto era nel contegno della signorina
Carabelli che mal celava la vivacità del proprio risentimento. ciò
non piaceva alla marchesa. Il prefetto della Caravina non aveva
torto se non forse un poco nella forma quando diceva sottovoce di
lei: «L'è on' Aüstria p… ». Come la vecchia Austria di quel tempo,
la vecchia marchesa non amava nel suo impero gli spiriti vivaci. La
sua volontà di ferro non ne tollerava altre vicino a sé. Le era già
di troppo un indocile Lombardo-Veneto come il signor Franco, e la
ragazza Carabelli, che aveva l'aria di sentire e volere per conto
proprio, sarebbe probabilmente riuscita in casa Maironi una suddita
incomoda, una torbida Ungheria.
Si annunciò il pranzo. Nella faccia rasa e
nell'abito grigio, mal tagliato, del domestico si riflettevano le
idee aristocratiche della marchesa, temperate di abitudini
econome.
«E questo signor Giacomo, Controllore?», disse ella,
senza muoversi.
«Temo, marchesa», rispose Pasotti. «L'ho incontrato
stamattina e gli ho detto: "Dunque, signor Giacomo, ci vediamo a
pranzo?". È parso che gli mettessi una biscia in corpo. Ha
cominciato a contorcersi e a soffiare: "Sì, credo, no so, forse, no
digo, apff, ecco, propramente, Controllore gentilissimo, no so,
insomma, e apff!". Non ne ho cavato altro.»
La marchesa chiamò a sé il domestico e gli disse
qualche cosa sottovoce. Quegli fece un inchino e si ritirò. Il
curato di Puria si dondolava in su e in giù accarezzandosi le
ginocchia nel desiderio del risotto; ma la marchesa pareva
petrificata sul canapè e perciò si petrificò anche lui. Gli altri
si guardavano, muti.
La povera signora Barborin, avendo visto il
domestico, meravigliata di quella immobilità, di quelle facce
sbalordite, inarcò le sopracciglia, interrogò con gli occhi ora suo
marito, ora il Puria, ora il prefetto, sino a che una fulminea
occhiata di Pasotti petrificò lei pure. "Se fosse bruciato il
pranzo!", pensava componendosi un viso indifferente. "Se ci
mandassero a casa! Che fortuna!". Dopo due minuti il domestico
ritornò e fece un inchino.
«Andiamo», disse la marchesa,
alzandosi.
La comitiva trovò in sala da pranzo un personaggio
nuovo, un vecchietto piccolo, curvo, con due occhietti buoni e un
lungo naso spiovente sul mento.
«Veramente, signora marchesa», disse costui tutto
timido e umile, «io avrei già pranzato.»
«Si accomodi, signor Viscontini», rispose la
marchesa che sapeva praticare l'arte insolente della sordità come
tutti coloro che assolutamente vogliono un mondo secondo il proprio
comodo e il proprio gusto.
L'ometto non osò replicare, ma neanche osava
sedere.
«Coraggio, signor Viscontini!», gli disse il Paolin
che gli era vicino. «Cosa fa?»
«Fa il quattordici di coppe», mormorò il prefetto.
Infatti l'ottimo signor Viscontini, accordatore di pianoforti,
venuto la mattina da Lugano per accordare il piano dei signori
Zelbi di Cima e quello di don Franco, aveva pranzato al tocco a
casa Zelbi, era quindi venuto a casa Maironi, e ora gli toccava di
sostituire il signor Giacomo perché altrimenti i commensali
sarebbero stati tredici.
Un liquido bruno fumava nella zuppiera
d'argento.
«Risotto no», sussurrò Pasotti al Puria passandogli
dietro. Il faccione dolce non diede segno di avere
udito.
I pranzi di casa Maironi erano sempre lugubri e
questo accennava ad esserlo anche più del solito. Per compenso era
pure molto più fino. Pasotti e il Puria si guardavano spesso,
mangiando, per esprimere ammirazione e quasi per congratularsi a
vicenda del godimento squisito, e se mai qualche occhiata di
Pasotti sfuggiva al Puria, la signora Barborin, vicina di
quest'ultimo, lo avvertiva con un timido tocco del
gomito.
Le voci che più si udivano erano quelle del marchese
e di donna Eugenia. Il grande naso aristocratico del Bianchi, il
suo fine sorriso di galante cavaliere si volgevano spesso alla
bellezza, languente ma non ancora spenta, della dama. Milanesi
ambedue del miglior sangue, si sentivano uniti in una certa
superiorità non solamente rispetto ai piccoli borghesi della mensa,
ma rispetto altresì ai padroni di casa, nobili provinciali. Il
marchese era l'affabilità stessa e avrebbe conversato amabilmente
anche col commensale più modesto; ma donna Eugenia, nell'amarezza
dell'animo suo, nel suo disgusto del luogo e delle persone,
s'attaccò a lui come al solo degno, marcatamente anche per far
dispetto agli altri. Ella lo imbarazzò dicendogli forte che non
capiva com'egli potesse essersi innamorato dell'orrida Valsolda. Il
marchese, che vi si era ritirato da molti anni a vita quieta e vi
aveva veduto nascere la sua unica figliuola, donna Ester, rimase
sulle prime un poco sconcertato da quel discorso insolente verso
parecchi dei convitati, ma poi fece una briosa difesa del paese. La
marchesa non mostrò turbarsi; il Paolin, il Paolon e il prefetto,
valsoldesi, tacevano con tanto di muso.
Pasotti recitò solennemente un ampolloso elogio del
«Niscioree», la villa Bianchi, presso Oria. Il Bianchi, leale uomo,
che in passato non aveva avuto troppo a lodarsi del Pasotti, non
parve gradir l'elogio. Egli invitò la Carabelli al Niscioree. «A
piedi no, tu, Eugenia», disse la marchesa, sapendo che l'amica sua
era tribolata dallo spavento d'ingrassare.
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