«Bisogna vedere com'è stretta la strada, dalla Ricevitoria al Niscioree! Tu non ci passi di sicuro.» Donna Eugenia protestò con sdegno. «L'è minga el Cors de Porta Renza», disse il marchese, «ma l'è poeu nanca, disgraziatamente, le chemin du Paradis!»

«Quell no! Propi no! Ghe l'assicuri mi!», esclamò il Viscontini riscaldato, per disgrazia, da troppi bicchieri di Ghemme. Tutti gli occhi si volsero a lui e il Paolin gli disse qualche cosa sottovoce. «Se son matto?», rispose l'ometto acceso in faccia. «Nient del tütt! Le dico che ona bolgira compagna non la mi è mai più toccata in vita mia.» E qui raccontò che la mattina, venendo da Lugano e avendo preso un po' di freddo in barca, era disceso al Niscioree per proseguire il viaggio a piedi; che tra quei due muri, dove non si potrebbe voltare un asino, aveva incontrato le guardie di finanza, le quali lo avevano insultato perché non era disceso allo sbarco della Ricevitoria; che l'avevano condotto alla maledetta Ricevitoria; che portava in mano un rotolo di musica manoscritta e che l'animale del Ricevitore, pigliando le crome e le biscrome per corrispondenze politiche segrete, gliel'aveva trattenuto.

Silenzio profondo. Dopo qualche momento la marchesa sentenziò che il signor Viscontini aveva torto marcio. Non doveva sbarcare al Niscioree, ciò era proibito. Quanto al signor Ricevitore egli era una persona rispettabilissima. Pasotti confermò, con una faccia severa. «Ottimo funzionario», diss'egli. «Ottima canaglia», mormorò il prefetto fra i denti. Franco, che sulle prime pareva pensare a tutt'altro, si scosse e lanciò a Pasotti un'occhiata sprezzante.

«Dopo tutto», soggiunse la marchesa, «trovo che col pretesto della musica manoscritta si potrebbe benissimo… »

«Certo!», disse il Paolin, austriacante per paura, mentre la padrona di casa lo era per convinzione.

Il marchese, che nel 1815 aveva spezzata la spada per non servire gli Austriaci, sorrise e disse solo:

«Là! C'est un peu fort!».

«Ma se tutti sanno ch'è una bestia, quel Ricevitore!», esclamò Franco.

«Scusi, don Franco… », fece Pasotti.

«Ma che scusi!», interruppe l'altro. «È un bestione!»

«È un uomo coscienzioso», disse la marchesa, «un impiegato che fa il proprio dovere.»

«Allora le bestie saranno i suoi padroni!», ribatté Franco.

«Caro Franco», replicò la voce flemmatica, «questi discorsi in casa mia non si fanno. Grazie a Dio non siamo mica in Piemonte, qui.» Pasotti fece una sghignazzata d'approvazione. Allora Franco, preso furiosamente il proprio piatto a due mani lo spezzò d'un colpo sulla tavola. «Jesüsmaria!», esclamò il Viscontini, e il Paolon, interrotto nelle sue laboriose operazioni di mangiatore sdentato: «Euh!». «Sì, sì», disse Franco alzandosi con la faccia stravolta, «è meglio che me ne vada!» E uscì dal salotto. Subito donna Eugenia si sentì male, bisognò accompagnarla fuori. Tutte le signore, meno la Pasotti, le andaron dietro da una parte mentre il domestico entrava dall'altra portando un pasticcio di risotto. Il Puria guardò Pasotti con un riso trionfante, ma Pasotti finse di non avvedersene. Tutti erano in piedi. Il Viscontini, reo apparente, continuava a dire: «Mi capissi nagott, mi capissi nagott», e il Paolin, seccatissimo del pranzo guastato, gli brontolò: «Cossa l'ha mai de capì Lü?». Il marchese, molto scuro, taceva. Finalmente il Pasotti, reo di fatto, presa un'aria d'affettuosa tristezza, disse come tra sé: «Peccato! Povero don Franco! Un cuor d'oro, una buona testa, e un temperamento così! Proprio peccato!».

«Ma!», fece il Paolin. E il Puria, tutto contrito: «Sono gran dispiaceri!».

Aspetta e aspetta, le signore non ritornavano. Allora qualcuno cominciò a muoversi. Il Paolin e il Puria si accostarono lentamente, con le mani dietro la schiena, alla credenza, contemplarono il pasticcio di risotto. Il Puria chiamò dolcemente Pasotti, ma Pasotti non si mosse. «Volevo solo dirle», fece il curatone, coprendo il suo trionfo in modo da lasciarlo e non lasciarlo vedere, «che ci sono i tartufi bianchi.»

«Direi che qui non mancano neppure i tartufi neri», osservò il marchese pigiando un poco sulle due ultime parole.

2. Sulla soglia d'un'altra vita

«Canaglia!», fremeva don Franco salendo la scala che conduceva alla sua camera. «Pezzo d'asino d'un austriaco!». Si vendicava su Pasotti di non poter insultar la nonna e le stesse consonanti della parola austriaco gli servivano tanto bene per stritolarsi fra i denti la propria collera e spremerne, gustarne il sapore. Quando fu in camera la collera gli svampò.

Si gittò in una poltrona, in faccia alla finestra spalancata, guardando il lago triste nel pomeriggio nebbioso, e, al di là del lago, i monti deserti.