Mise un gran respiro. Ah come
stava bene lì, solo, ah che pace, ah che aria diversa da quella del
salotto, che aria cara, piena de' suoi pensieri e de' suoi amori!
Aveva un gran bisogno di abbandonarsi ad essi ed essi lo ripresero
subito, gli cacciaron di mente le Carabelli, il Pasotti, la nonna,
il bestione del Ricevitore. Essi? No, era un pensiero solo, un
pensiero fatto di amore e di ragione, di ansia e di gioia, di tanti
dolci ricordi e insieme di trepida aspettazione, perché qualche
cosa di solenne si avvicinava e sarebbe giunto nelle ombre della
notte. Franco guardò l'orologio. Erano le quattro meno un quarto.
Ancora sette ore. Si alzò, si buttò a braccia conserte sul
davanzale della finestra.
Ancora sette ore e comincerebbe per lui un'altra
vita. Fuori delle pochissime persone che dovevano prender parte
all'avvenimento, nemmanco l'aria sapeva che quella sera stessa,
verso le undici, don Franco Maironi avrebbe sposato la signorina
Luisa Rigey.
La signora Teresa Rigey, madre di Luisa, aveva un
tempo lealmente pregato Franco di piegare al volere della nonna, di
astenersi dal visitar la sua casa, di non pensare più a Luisa, la
quale, dal canto suo, era stata contenta che per la dignità della
famiglia, per il decoro di sua madre, si troncassero le relazioni
ufficiali, ma non dubitava della fede di Franco né d'essergli già
legata per sempre. Egli studiava ora leggi, privatamente,
all'insaputa della nonna, per dedicarsi a una professione e aver
modo di bastare a sé. Ma la signora Teresa contrasse da tante
agitazioni una malattia di cuore che nel 1851, in fine d'agosto, si
aggravò subitamente. Franco le scrisse chiedendole almeno il
permesso di vederla poiché non poteva compiere «il suo dovere
d'assisterla». La signora non credette di consentire e il giovine
se ne disperò, le fece intendere che considerava Luisa come sua
fidanzata davanti a Dio e che sarebbe morto prima di abbandonarla.
Allora la povera donna, sentendosi mancar la vita ogni giorno,
accorandosi di veder la sua cara figliuola in uno stato così
incerto e considerando la ferma volontà del giovine, concepì il
desiderio intenso che le nozze, poiché dovevan seguire, seguissero
al più presto. Tutto fu combinato frettolosamente con l'aiuto del
curato di Castello e del fratello della signora Rigey, l'ingegnere
Ribera di Oria, addetto all'Imperiale R. Ufficio delle Pubbliche
Costruzioni in Como. Le intelligenze furono queste. Le nozze si
farebbero segretamente; Franco resterebbe presso la nonna e Luisa
presso la madre, sino a che venisse il momento opportuno di
confessar tutto alla marchesa. Franco sperava nell'appoggio di
monsignor Benaglia, vescovo di Lodi, vecchio amico della famiglia,
ma occorreva il fatto compiuto. Se il cuore della marchesa si
indurisse, com'era probabile, gli sposi e la signora Teresa
prenderebbero stanza nella casa che l'ingegnere Ribera possedeva in
Oria. Il Ribera, celibe, manteneva ora del proprio la famiglia di
sua sorella; terrebbe poi anche Franco in luogo di
figliuolo.
Fra sette ore, dunque.
La finestra guardava sulla lista di giardino che
fronteggiava la villa verso il lago, e sulla riva di approdo. Nei
primi tempi del suo amore Franco stava lì a spiar il venire e
l'approdare d'una certa barca, l'uscirne d'una personcina snella,
leggere come l'aria, che mai mai non guardava su alla finestra. Ma
poi un giorno egli era disceso ad incontrarla ed ella aveva
aspettato un momento ad uscire per accettare l'aiuto, ben inutile,
della sua mano. Lì sotto, nel giardino, egli le aveva dato per la
prima volta un fiore, un profumato fiore di
mandevilia
suaveolens. Lì sotto si era un'altra
volta ferito con un temperino, abbastanza seriamente, tagliando per
lei un ramoscello di rosaio, ed ella gli aveva dato col suo
turbamento un delizioso segno del suo amore. Quante gite con lei e
altri amici, prima che la nonna sapesse, alle rive solitarie del
monte Bisgnago là in faccia, quante colazioni e merende a quella
cantina del Doi! Con quanta dolcezza viva nel cuore di sguardi
incontrati Franco tornava a casa e si chiudeva nella sua stanza a
richiamarseli, a esaltarsene nella memoria! Queste prime emozioni
dell'amore gli ritornavano adesso in mente, non ad una ad una ma
tutte insieme, dalle acque e dalle rive tristi dove gli occhi suoi
fisi parevano smarrirsi piuttosto nelle ombre del passato che nelle
nebbie del presente. Vicino alla mèta, egli pensava i primi passi
della lunga via, le vicende inattese, l'aspetto della sospirata
unione così diverso nel vero da quel ch'era apparso nei sogni, al
tempo della mandevilia e delle rose, delle gite sul lago e sui
monti. Non sospettava certo, allora, di dovervi arrivare così, di
nascosto, fra tante difficoltà, fra tante angustie. Pure, pensava
adesso, se il matrimonio si fosse fatto pubblicamente,
pacificamente, col solito proemio di cerimonie ufficiali, di
contratti, di congratulazioni, di visite, di pranzi, tanto tedio
sarebbe riuscito più ripugnante all'amore che questi
contrasti.
Lo scosse la voce del prefetto che lo chiamava dal
giardino per annunciargli la partenza delle Carabelli. Franco pensò
che se scendeva avrebbe dovuto fare delle scuse e preferì non
lasciarsi vedere. «Doveva romperglielo sulla faccia il piatto!»,
gli stridette su il prefetto tra le mani accostate alle guance.
«Doveva romperglielo sulla faccia!»
Poi se n'andò e Franco vide il barcaiuolo delle
Carabelli scendere ad apparecchiar la barca. Lasciò allora la
finestra e seguendo i pensieri di prima, aperse il cassettone,
stette lì a contemplare, come distratto, uno sparato di camicia
ricamata, dove lucevano già certi bottoncini di brillanti che suo
padre aveva portati alle nozze proprie. Gli dispiaceva andar
all'altare senza un segno di festa, ma questo segno, si capisce
bene, non doveva essere facilmente visibile.
Nel cassettone profumato d'ireos tutto era disposto
con la particolare eleganza dell'ordine fatto da uno spirito
intelligente, e nessuno vi metteva le mani tranne lui.
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