Invece le
sedie, lo scrittoio, il piano erano tanto disordinatamente ingombri
che pareva esser passato per le due finestre della camera un
uragano di libri e di carte. Certi volumi di giurisprudenza
dormivano sotto un dito di polvere, e non una foglia della piccola
gardenia in vaso, sul davanzale della finestra di levante, ne aveva
un atomo solo. Questi eran già sufficienti indizi, là dentro, del
bizzarro governo d'un poeta. Un'occhiata ai libri e alle carte ne
avrebbe fornite le prove.
Franco aveva la passione della poesia ed era poeta
vero nelle squisite delicatezze del cuore; come scrittore di versi
non poteva dirsi che un buon dilettante senza originalità. I suoi
modelli prediletti erano il Foscolo e il Giusti; li adorava
veramente e li saccheggiava entrambi, perché l'ingegno suo,
entusiasta e satirico a un tempo, non era capace di crearsi una
forma propria, aveva bisogno d'imitare. Conviene anche dire, per
giustizia, che a quel tempo i giovani possedevano comunemente una
cultura classica fattasi rara di poi; e che dagli stessi classici
venivano educati a onorare l'imitazione come una pratica virtuosa e
lodevole. Frugando fra le sue carte per cercarvi non so cosa, gli
vennero alle mani i seguenti versi dedicati a un tale di sua
conoscenza e nostra conoscenza, che rilesse con piacere e ch'io
riferisco per saggio del suo stile satirico:
Falso occhio mobile,
Mento pelato,
Lingua di vipera,
Cor di castrato,
Brache policrome,
Bisunto saio,
Maiuscolissimo
Cappello a staio.
Ecco l'immagine
Del vil Tartufo
Che l'uman genere
E il cielo ha stufo.
Il Giusti e la passione d'imitarlo erano quasi soli
in colpa di tanta bile, perché davvero Franco non ne aveva nel
fegato una così gran dose. Aveva collere pronte, impetuose, fugaci;
non sapeva odiare e nemmanco risentirsi a lungo contro alcuno. Un
saggio dell'altra sua maniera poetica stava sul leggìo del piano,
in un foglietto tutto sgorbi e cancellature:
A Luisa
Ove l'aëreo tuo pensile nido
Una balza ventosa incoronando
Ride alla luna ed ai cadenti clivi
Ch'educan uve a la tua mensa e
rose
Al capo tuo, purpurëi ciclami
A me, sogni e fragranze, o mia
Luisa,
Da l'orror di quest'ombre ti
figura
L'amoroso mio cor. Tacita siedi
E da l'alto balcon già non rimiri
Le bianche plaghe d'occidente, i
chiari
Monti ed il lago vitrëo, sereno,
Riscintillante a l'astro; ma
quest'una
Tenebra esplori, l'aura
interrogando
Vocal che va tra i mobili oleandri
De la terrazza e freme il nome
mio.
Forse piaceva a Franco d'improvvisar sul piano con
questi suoi versi davanti agli occhi. Appassionato per la musica
più ancora che per la poesia, se l'era comperato lui, quel piano,
per centocinquanta svanziche, dall'organista di Loggio, perché il
mediocre piano viennese della nonna, intabarrato e rispettato come
un gottoso di famiglia, non gli poteva servire. Lo strumento
dell'organista, corso e pesto da due generazioni di zampe incallite
sulla marra, non mandava più che una comica vocina nasale sopra un
tintinnio sottile come d'infiniti bicchierini minuti e fitti. Ciò
era quasi indifferente, per Franco; egli aveva appena posato le
mani sullo strumento che la sua immaginazione si accendeva, l'estro
del compositore passava in lui e nel calore della passione
creatrice gli bastava un fil di suono per veder l'idea musicale e
inebbriarsene. Un Erard gli avrebbe dato soggezione, gli avrebbe
lasciato minor campo alla fantasia, gli sarebbe stato men caro,
insomma, della sua spinetta.
Franco aveva troppe diverse attitudini e
inclinazioni, troppa foga, troppo poca vanità e forse anche troppo
poca energia di volere per sobbarcarsi a quel noioso metodico
lavoro manuale che si richiede a diventar pianisti. Però il
Viscontini era entusiasta del suo modo di suonare; Luisa, la sua
fidanzata, non divideva interamente il gusto classico di lui ma ne
ammirava, senza fanatismi, il tocco; quando, pregato, egli faceva
mugghiare e gemere classicamente l'organo di Cressogno, il buon
popolo, intontito dalla musica e dall'onore, lo guardava come
avrebbe guardato un predicatore incomprensibile, con la bocca
aperta e gli occhi riverenti. Malgrado tutto questo, Franco non
avrebbe potuto cimentarsi, nei salotti cittadini, con tanti piccoli
dilettanti incapaci d'intendere e di amare la musica. Tutti o quasi
tutti lo avrebbero vinto di agilità e di precisione, avrebbero
ottenuto maggiori applausi, quand'anche non fosse riescito ad
alcuno di far cantare il piano, come lo faceva cantar lui, sopra
tutto negli adagi di Bellini e di Beethoven, suonando con l'anima
nella gola, negli occhi, nei muscoli del viso, nei nervi delle mani
che facevan tutt'uno con le corde del piano.
Un'altra passione di Franco erano i quadri antichi.
Le pareti della sua camera ne avevano parecchi, la più parte
croste. Scarso di esperienza perché non aveva viaggiato, pronto a
pigliar fuoco nella fantasia, costretto ad accordar i desideri
molti con i quattrini pochi, credeva facilmente le asserite fortune
di altri cercatori tapini, n'era spesso infocato, accecato e
precipitato su certi cenci sporchi, che, se costavano poco,
valevano meno. Non possedeva di passabile che una testa d'uomo
della maniera del Morone e una Madonna col Bambino della maniera
del Dolci. Egli battezzava, del resto, i due quadretti per Morone e
Dolci, senz'altro.
Com'ebbe rilette e rigustate le strofe ispirategli
dal Tartufo Pasotti, tornò a frugare nel caos dello scrittoio e ne
cavò un foglietto di carta Bath per scrivere a monsignor Benaglia,
la sola persona che gli potesse giovare in avvenire presso la
nonna. Gli parve doverlo mettere a parte dell'atto che stava per
compiere, delle ragioni che avevano consigliato la sua fidanzata e
lui di addivenirvi in questo modo penoso, della speranza che
avevano d'essere aiutati da lui quando venisse il momento d'aprir
tutto alla nonna. Stava ancora pensando con la penna in mano,
davanti alla carta bianca, quando la barca delle Carabelli passò
sotto la sua finestra. Poco dopo udì partire la gondola del
marchese e la barca del Pin. Suppose che la nonna, rimasta sola, lo
facesse chiamare, ma non ne fu nulla. Passato un po' di tempo in
quest'aspettazione, si rimise a pensare alla sua lettera e ci pensò
tanto, rifece l'esordio tante volte e procedette anche poi tanto
adagio, con tanti pentimenti, che la lettera non era ancora finita
quando gli convenne accendere il lume.
La chiusa gli riuscì più facile. Egli vi
raccomandava la sua Luisa e sé alle preghiere del vecchio vescovo e
vi esprimeva una fiducia in Dio così candida e piena che avrebbe
toccato il cuore più incredulo.
Focoso e impetuoso com'era, Franco aveva tuttavia la
semplice tranquilla fede d'un bambino. Punto orgoglioso, alieno
dalle meditazioni filosofiche, ignorava la sete di libertà
intellettuale che tormenta i giovani quando la loro ragione ed i
loro sensi cominciano a trovarsi a disagio nel duro freno di una
credenza positiva. Non aveva dubitato un istante della sua
religione, ne eseguiva scrupolosamente le pratiche senza domandarsi
mai se fosse ragionevole di credere e di operare così. Non teneva
però affatto del mistico né dell'asceta. Spirito caldo e poetico,
ma nello stesso tempo chiaro ed esatto, appassionato per la natura
e per l'arte, preso da tutti gli aspetti piacevoli della vita,
rifuggiva naturalmente dal misticismo.
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