Non vedo via d’uscita, trad. di D. Buonassisi e M. Gardella, Chiarelettere, Milano 2011.
Nota del traduttore
Bernard Shaw, progressista fabiano, celebra la «sdialettizzazione». Ritiene, in altre parole, che smettere di parlare in dialetto equivalga ipso facto ad accedere alla «cultura», diventare borghesi e, successivamente, «socialisti».
Resta però di fatto che nella sua visione deve andare perduta l’enorme ricchezza del dialetto. Il quale è idiosincrasico, certo; con il dialetto non si gira il mondo, non lo si conquista, il dialetto è tribale, il dialetto non permette la rivoluzione industriale ma nemmeno le avventure coloniali, e d’altro canto non è neppure certo che escluda la fratellanza universale, come invece vorrebbero le concezioni riformistiche. Chissà, forse erano più fratelli i selvaggi delle tribù sperdute nell’oblio, e, a quanto risulta da Shaw stesso, fratellanza esiste più tra i poveri che si esprimono in cockney, lo strano miscuglio di idiomi dell’area londinese, che non tra i borghesi tanto più sofisticati, almeno quali appaiono in Pigmalione.
Tant’è che è assai più difficile «tradurre» un dialetto, con le sue molteplici sfumature, che non una lingua, in parte almeno inevitabilmente basic una volta che sia costituita e istituzionalizzata. Ho risolto il problema ricorrendo a un «orribile» impasto linguistico: un misto di dialetti padani, tra l’altro, in quanto di matrice latino-celtica, i più vicini alle sonorità, astruse e pregnanti, del cockney, nel quale convergono elementi anglosassoni accanto alle influenze più disparate, «coloniali» e preanglofone. La lingua ufficiale è certo più comunicante, più universale, più colta, più scolastica, meno idiosincrasica; il dialetto comunica meno, ma sottintende di più. La prima è più rigida, più aderente ai principi della istruzione scolastica per tutti e, nel caso specifico, più vittoriana, più imbustata; il dialetto risulta più impreciso, sfuggente, spesso più ricco per lo meno di suoni «inammissibili», come del resto lo sono, tanto spesso, i comportamenti del «popolo».
Sicché, Eliza, suo padre, gli spettatori che assistono alle esibizioni del linguista-Pigmalione sotto la pioggia parlano, nella mia versione, un misto di veneto, piemontese, lombardo, persino ligure, con prevalenza della favella che ha corso (una favella «inquinatissima») nell’area milanese.
Francesco Saba Sardi
Prefazione
Un professore di fonetica
Come si vedrà più avanti, Pigmalione ha bisogno non già di una prefazione, bensì di una conclusione, alla quale ho provveduto al debito luogo.
Gli inglesi non hanno rispetto per la propria lingua, e non vogliono insegnare a parlarla ai loro bambini. Non sono in grado di sillabarla perché non hanno da sillabare altro che un vecchio alfabeto straniero di cui soltanto le consonanti – e neppure tutte – hanno un qualche valore fonetico definito. Di conseguenza, non c’è nessuno in grado di stabilire la pronuncia basandosi sulla scorta della lettura; ed è impossibile per un inglese aprir bocca senza che qualche altro inglese ne resti disgustato. Al giorno d’oggi, gran parte delle lingue europee sono accessibili, nero su bianco, agli stranieri, ma non altrettanto lo sono l’inglese e il francese agli inglesi e ai francesi. Il riformatore di cui oggi sentiamo più bisogno, in Gran Bretagna, è un efficiente appassionato di fonetica: ecco la ragione per cui ho fatto appunto di un personaggio del genere il protagonista di una commedia popolare.
In passato, ci sono stati profeti del genere «gridanti» nel deserto. Quando, verso la fine del decennio 1870-1880, ho incominciato a interessarmi a questa tematica, l’illustre Alexander Melville Bell, l’inventore della Parola Visibile, era già emigrato in Canada, dove suo figlio ha inventato il telefono; ma Alexander J. Ellis contava ancora tra i patriarchi londinesi, con la sua magnifica testa sempre coperta da una papalina di velluto per la quale era solito umilmente scusarsi quando appariva in pubblico. Non si poteva non amare lui e Tito Pagliardini, altro veterano della fonetica. Henry Sweet, invece, allora un giovanotto, non aveva un carattere altrettanto mite: nei confronti dei comuni mortali non si mostrava certo più conciliante di Ibsen o di Samuel Butler. Il suo straordinario talento di studioso di fonetica (era, a mio giudizio, il migliore di tutti in questo campo) gli avrebbe meritato alti riconoscimenti ufficiali, e forse permesso di rendere popolare l’argomento, non fosse stato per il suo implacabile disprezzo verso i tromboni accademici e in generale coloro che si interessavano più di greco che di fonetica. Una volta, all’epoca in cui sorgeva in South Kensington l’Imperial Institute e Joseph Chamberlain ingrandiva l’impero, convinsi il direttore di un diffuso mensile a commissionare a Sweet un articolo sull’importanza che aveva, per l’Inghilterra e possedimenti, la sua materia di studio. Ma lo scritto presentato da Sweet era null’altro che un attacco, pesantemente sarcastico, contro un professore di lingua e letteratura inglese, la cui cattedra egli riteneva adatta solo a un esperto di fonetica. E poiché l’articolo era diffamatorio, e quindi impubblicabile, venne respinto, e io dovetti rinunciare al mio sogno di trascinarne l’autore alle luci della ribalta. Quando lo rividi, dopo molti anni, scopersi con stupore che lui, un tempo un giovane nient’affatto ripugnante, era riuscito, grazie al puro disprezzo, a divenire anche fisicamente una specie di ambulante rifiuto di Oxford e di tutte le sue tradizioni. E deve essere stato con suo grande dispetto che vi si ritrovò, inserito in quel qualcosa che era detto lettorato di fonetica. Il futuro della fonetica dipenderà probabilmente dai suoi discepoli, tutti pronti a giurare per lui; ma nulla poteva convincere lui stesso a una qualsiasi condiscendenza verso l’università, alla quale tuttavia restava attaccato come per diritto divino, con atteggiamento assolutamente oxoniano. Sono quasi certo che le sue carte, ammesso che ne abbia lasciate, contengono anche qualche satira che potrebbe essere pubblicata senza danni eccessivi, essendo ormai trascorsi da allora cinquant’anni. Penso che, dopo tutto, non avesse un cattivo carattere: proprio il contrario, anzi. Solo che non riusciva a sopportare gli stupidi, e ai suoi occhi tutti gli studiosi che non fossero maniaci di fonetica erano dei poveri scemi.
Coloro che l’hanno conosciuto troveranno, nel terzo atto della sua commedia, l’allusione alla Stenografia Corrente nella quale soleva scrivere cartoline. La si può apprendere da un manuale pubblicato dalla Clarendon Press, del costo di quattro sterline e sei pence. Le cartoline di cui parla Higgins sono tali e quali a quelle che mi mandava Sweet.
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