Te in luce aperta qui l’eteree menti
Consolâr prima di letizia arcana,
Poi te beata salutâr le genti,
Alma Dïana.
Onde a te dotta de l’uman dolore
Il nostro canto e prece d’inni ascende,
E, pieno l’anno, di votivo onore
L’ara ti splende.
A te l’industre opera cessa: posa
A te il travaglio de la vita e l’egra
Noia: si spande per le vie festosa
Turba e s’allegra.
Disciolto il bove mormora un muggito,
Esulta il gregge ne l’erboso piano,
E su l’aratro ancor dal solco attrito
Canta il villano.
Deh, sii presente: il tuo terren natale
A te s’adorna, ed al tuo piede in tanto
Gigli sommette e rose e l’immortale
Fior d’amaranto.
Deh, sii presente: e ne’ concilii santi
Se nostra dirti, o buona, anco ti giova,
Del gener tristo e de gli infermi erranti
Amor ti mova.
Odi le caste vergini: il lamento
De la canuta etade odi: e su ’l pio
Vulgo com’aura di benigno vento
Spira da Dio.
Ruinan, vedi, a soffrir tutto audaci
Le menti umane in disperata guerra,
E de le furie le sanguigne faci
Corron la terra:
Odio e furore i torvi animi avvampa
E ciechi mena con la sua rapina
Ove pietade è in bando, ove s’accampa
L’ira divina:
Erra in ombra di morte e le vitali
Fiamme rifugge la mortal ragione,
E di pensieri ferve e di pugnali
Bieca tenzone.
Ma noi pio gregge a te su ’l puro altare
Vóti mandiamo a cui pietà risponde:
Ragguarda, o buona, a’ figli, ed abbi care
Le nostre sponde.
Volgi sereno a questi campi il sole,
Benigna assisti a’ focolari aviti:
Multiplicata invochi te la prole
Co’ patrii riti.
Qui de le caste menti ama il governo:
Qui santa e madre al popol tuo ti mostra:
Né a danno irrompa qui possa d’inferno,
Te duce nostra. [15]
15 È una santa proteggitrice, come chi dicesse una indigete, della terra di Santa Maria a monte nel Valdarno inferiore; ove nacque nel 1187 da un Giuntini cavaliere e da una Ghisilieri di Bologna e morí nel 1231.
XXXIV.
A GIULIO
Non sempre aquario verna, né assidue
Nubi si addensano, piogge si versano
Malinconicamente
Sovra il piano squallente:
Non sempre l’arida chioma a le roveri
I torbid’impeti d’euro affaticano,
Né dura artico ghiaccio
A industri legni impaccio:
Ma tu, o che vespero levi la rosea
Face sull’ampio del ciel silenzio
O fugga al sol d’avanti
Mal gradito a gli amanti,
Tu sempre in flebili modi elegiaci,
Lamenti, o Giulio, la cara vergine
Che il fren de’ tuoi pensieri
Reggea con gli occhi neri.
Oh non continue querele e gemiti
Commise a’ dorici metri Simonide;
Né ogn’or gemé in Valchiusa
Nostra piú dolce musa,
Sí fra le memori tombe romulee
Destò l’italica speme, e del lauro
Di Gracco ornò la chioma
Al tribuno di Roma;
E anch’oggi splendidi gli sdegni vivono
Ne’ tardi secoli, spirano i fremiti
De le genti latine,
Ne le armonie divine.
Deh, se pur prèmeti desio di piangere,
Mira la patria; grave d’obbrobrio
Il nome italo mira;
E qui piangi e ti adira.
Mira: di barbaro lusso le rigide
Torri si vestono, dove già gl’integri
Petti e le forze e i gravi
Senni crebber de gli avi.
Qui dove i trivii d’urli e domestico
Marte e di fiaccole notturni ardevano
E insanguinò le spade
Gelosa libertade,
Di specchi fulgido ecco e di lampade
È il luogo, e gli ozii molce di un popolo
A cui diè il cielo in sorte
Noia pallida e morte.
Torpe degenere la plebe, e lurida
Ammira gli aurei splendori, ed invida
E vil con mano impronta
I duri Cresi affronta;
Lieta se a’ nobili tetti d’obbrobrio
Saliron avide le plebee vergini
A ricomprar le fami
De’ genitori infami.
No, di quel valido sangue, che spiriti
Gentili e rapida virtú ne gli animi
De’ parenti fluiva,
L’onda ahi piú non è viva.
Sacri a la pubblica salute, estranee
Minacce ed impeti di re fiaccarono:
Plebe altera, de’ grandi
Prostrâr l’orgoglio e i brandi.
Discese il ferreo baron da l’orride
Castella, e al popol vincente aggiuntosi
Con mano usa al crudele
Cenno trattò le tele.
Da le patrizie magioni al popolo,
Premio d’industria, benigna copia
Calò; di languid’oro
Non custodian tesoro
L’arche difficili. Crebbe a la patria
Larga di pubblici doni e di gloria
Ogni studio piú degno
E di mano e d’ingegno.
E pompe sursero di fòri e portici
Ed are a l’unico signor de’ liberi.
Né a gli ozi allor de’ vili
Servian l’arti civili;
Ma del magnanimo voler, da’ semplici
Cuor de gli artefici, sfidando i secoli,
Balzò con franco volo
Su l’attonito suolo
Di Flora il tempio; dove tra i memori
Padri fremerono d’assenso i giovini
A l’ira e a’ carmi austeri
Del gran padre Alighieri. [16]
16 Per gli ultimi versi ognun ricorda che la Commedia di Dante fu alcuna volta letta al popolo in Santa Maria del fiore.
XXXV.
ALLA LIBERTÀ
RILEGGENDO LE OPERE DI VITTORIO ALFIERI
Te non il canto che di tenue vena
Lene a gli orecchi mormora e deriva
Né sottil arte di servil camena
Lusinga, o diva.
Te giova il grido che le turbe assorda
E a l’armi incalza a l’armi in cuor cessanti,
Te le civili su la ferrea corda
Ire sonanti:
E sol tra i casi de la pugna orrendi
E flutti d’aste e fulminose spade
Nel vasto sangue popolar discendi,
O libertade.
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