Tal t’invocava su la terra attèa

Trasibul duro ne’ dubbiosi affanni,

E cadean ostie a la cecropia dea

Trenta tiranni:

Tal, sollevato il parricida acciaro,

Teste di regi consecrando a Dite,

Bruto e Virginio un dí ti revocaro

Diva quirite.

Ma quale inermi a te le mani porge

Di tra una plebe che percossa giace

Non del tuo viso l’alma luce ei scorge;

Ma senza pace

Assidua larva tu lo premi: ei vola

Tra le tue pugne co ’l desio veloce,

E muto campo gli è il pensiero e sola

Arme la voce.

Tale il tuo nume nel gran cor portando

Correva Italia l’astigiano acerbo,

E trattò il verso come ferreo brando,

Vate superbo:

Te fra gli avelli sotto il ciel romano

Chiamava; e il nome giú per l’aer cieco

Cupo rendeva a lui dal vaticano

Vertice l’eco.

Tu l’implacato allór flutto d’Atlante

Rasserenavi de le die pupille:

Aspri deserti sotto le tue piante

Fiorian di ville.

Quindi crollando la corusca lancia

Saltasti in poppa a i legni di Luigi,

E ti scortaro i cavalier di Francia

Dentro Parigi.

Ma noi te in vano al tuo già sacro ostello

Desiderammo, triste itala prole:

Senza te mesto il cielo ed è men bello

Il nostro sole.

Torna, e ti splenda in man l’acciar tremendo

Quale tra i nembi ardente astro Orïone;

Deh torna, o dea, co ’l bianco piè premendo

Mitre e corone.

LIBRO III

XXXVI.

Passa la nave mia, sola, tra il pianto

De gli alcïon, per l’acqua procellosa;

E la involge e la batte, e mai non posa,

De l’onde il tuon, de i folgori lo schianto.

Volgono al lido, ormai perduto, in tanto

Le memorie la faccia lacrimosa;

E vinte le speranze in faticosa

Vista s’abbatton sovra il remo infranto.

Ma dritto su la poppa il genio mio

Guarda il cielo ed il mare, e canta forte

De’ venti e de le antenne al cigolio:

— Voghiam, voghiamo, o disperate scorte,

Al nubiloso porto de ’oblio,

A la scogliera bianca de la morte. —

XXXVII.

Che ti giovò su le fallaci carte

Sfiorar gli anni tuoi novi ed il natio

Vigore in su la cóte aspra de l’arte.

O troppo a questa amico e a te non pio?

Or qui te da la luce alma diparte

Dura quïete e sempiterno oblio:

O speranze d’onore al vento sparte!

O brama di saper che ti tradío!

Pèra chi al vero inesorato e a’ danni

Del vero addisse quella età migliore

Che piú pronta risponde a’ belli inganni!

Ch’ora non piangerei spento il fulgore

Gaio del tuo sembiante e i candidi anni

E de la cara vita il caro fiore.

XXXVIII.

A F. T.

Due voglie, anzi due furie, entro il cor mio

Seggon, Felice, e a me di me l’impero

E contendono e strappano: desio

Che di bellezza nacque, e vie piú altero

Di egregie cose amor. L’una con rio

Fuoco depreda il vinto petto: intero

Seco traggemi l’altra in parte ov’io

Fantasmi evoco e pur gràvami il vero.

Tale, schiavo di me, me ogn’or d’inganno

Nudro volente; e ’l venen suo m’instilla

La cura che diversa entro mi strugge;

E corre intanto il ventunesim’anno,

E il solitario spirito sfavilla,

Ed ombra lenta i dí sterili adugge.

XXXIX.

Poi che mal questa sonnacchiosa etade

Di forti esempi a’ vivi suoi provvede,

Posa, o spirito mio; né acquistin fede

Mie fiacche rime a la comun viltade.

Lunge, canti d’amore: altro richiede

Quel novo ardor che tutto entro m’invade:

Io voglio tra rumor d’ire e di spade

Atroci alme rapir d’Alceo co ’l piede.

Risorgerem poeti allor che sia

Scosso il torpore senza fine amaro,

E la patria virtú musa ne fia.

Tremante un re le attèe scene miraro

Ne’ carmi ancor, ma tinse Eschilo pria

Ne’ Medi fuggitivi il greco acciaro.

XL.

GIUSEPPE PARINI

Non io pe ’l verso onde sentia lo stuolo

De l’ignavi potenti il grave morso,

Né pe ’l canto superbo onde in suo corso

Tornasti la civil musa tu solo,

Non io fo vóti. Altera aquila al polo

Troppo ogni emulo ardire hai tu precorso;

Né da le forze mie spero soccorso,

Picciole forze a cosí largo volo.

Sol vuo’ di te la schiva anima, e il retto

Non domabile ingegno, e l’ira e il forte

Spregio pe’ vili, e la parola franca.

E voglio, e posso.