Tu mi reggi e affranca:

Ché tu sai ben ch’io pe ’l tuo fiero petto

Aspro vivere eleggo e oscura morte.

XLI.

PIETRO METASTASIO

No, non morranno, in fin che tempra umana

Non sia dal vizio o da barbarie doma,

Il tuo nobile Cato e la sovrana

Virtú del prigionier consol di Roma.

Io ben tutti gli allori a la tua chioma,

O degna d’altri giorni alma romana,

Dar voglio e al canto che soave doma

Tutte ree volontadi e il cor risana.

Scuola è la scena or d’ogni cosa ria,

Dove scherza il delitto e dove ardito

L’adulterio in gentil vista passeggia:

E a questi esempi il gener suo nodrito

Vuole e te mastro di virtude oblia

Il secoletto vil che cristianeggia.

XLII.

CARLO GOLDONI

O Terenzio de l’Adria, al cui pennello

Diè Italia serva i vindici colori,

Onde si parve a quanti frutti e fiori

Surga latino ingegno in suol rubello,

Vedi: pur là dove piú il retto e ’l bello

Eccitar di sé dee pubblici amori,

Ivi ebra l’arte piú di rei furori

Tra sanguinose scede or va in bordello.

Riedi; e i goti ricaccia. A questa putta [17]

Strappa tu il culto oscen, rendi a le sparte

Chiome il tuo lauro che la fé sí bella.

Ma no; ch’oggi tu biasmo e onor la brutta

Schiera s’avrebbe. Oh per viltà novella

Quanto basso caduta italic’arte!

17 Accenna alle parole del Voltaire: Vorrei intitolare le vostre commedie L’Italia liberata dai Goti [lett. a C. G., 24 sett.

1760].

XLIII.

VITTORIO ALFIERI

— O de l’italo agon supremo atleta

Misurator, di questa setta imbelle,

Che stranïata il sacro allòr ti svelle,

Che vuol la santa bile irrequïeta?

E a qual miri sai tu splendida mèta

Ed a che fin drizzato abbian le stelle

Questa età che di ciance e di novelle

Per quanto ingozzi e piú e piú asseta? —

— Secolo ingrato, o figlio; e a viltà giunge,

Chi ben lo guardi senz’amore od ira,

Ogni passo che move per sua via:

E, dove al mal pensar viltà s’aggiunge,

Ivi non sente cor, mente non mira

Quant’alto salga la grandezza mia. —

XLIV.

VINCENZO MONTI

Quando fuor de la pronta anima scossa

Dal dio che per le vene a te fluía

T’usciva il canto rapido in sua possa

Come de l’Eridàn l’onda natia,

La sirena immortal, che guarda l’ossa

Di Maro, alzossi per l’equorea via,

E spirò da l’antica urna commossa

Di cetere e d’avene un’armonia.

Al lazio suon pe’ i curvi lidi errante

Come tuon rispondea che chiuso romba

Da Ravenna il toscan verso di Dante,

Rispondea di su ’l Po l’epica tromba.

Tacesti; e tacquer le melodi sante,

Tacque di Maro e d’Alighier la tomba.

XLV.

ANCORA VINCENZO MONTI

Te non il sacro verso e non la resa

A’ primi fonti e a la natia drittura

Itala poesia, vate, assecura

Da la rea pèste ond’è l’Italia offesa.

Mente che il bene e il male austera pesa

E possente co’ tempi si misura

Perché negaro a te culto e natura,

O buona a’ vari effetti anima accesa?

Ch’or non udrei de’ bordellier Catoni

Pronta pur contro te la facil gola,

Pronti e de’ cortigian Bruti i polmoni.

Tu moristi in vecchiezza oscura e sola,

O poeta di Gracco e Mascheroni:

Costoro ingrassa la servil parola.

XLVI.

GIOVAN BATTISTA NICCOLINI

Tempo verrà che questa madre antica

A gli esempli che fûr levi la fronte

E nostre terre per virtú già conte

Tenga una gente di virtude amica.

Or tra’ due mari e da Pachino al monte

Sola un’oblivione i petti implìca,

Né questo molle cielo alma nodrica

Che a’ suoi padri o con sé mai si raffronte.

Che te laudassim noi, plebi assonnate

Tra un fiottar lento d’incresciosi carmi,

A te saría vergogna ed a noi danno.

O beati i nepoti! in mezzo a l’armi

Te di giorni miglior ben degno vate

Con Dante e con Vittorio invocheranno.

XLVII.