Ahi, le pupille che nel sen d’Omero

Arser di poesia cotanta face,

Che de’ dardi cissèi tra ’l nugol fero

Ridean superbe ad Eschilo pugnace!

Ahi, da la morte l’ultimo suggello

Ebber l’alme pupille! Altri deliro

Abbraccia il corpo ancor, gelido e bello:

Ne i secoli mutati ombra io m’aggiro,

E i novi templi guardo, e al vuoto ostello

De la ionica dea torno e sospiro.

LVI.

A N. F. P.

RISPOSTA [18]

Chi mi rimembra la speranza altera

Che giacque fulminata entro il mio core?

Te ragguardò con mite occhio d’amore

Su ’l nascer tuo Melpomene severa.

Canta; e de gl’inni tuoi l’ala guerriera

A vol segua il risorto italo onore:

Canta; ed infondi a’ cor di quel valore

Che gli rapisca a piú sublime sfera.

Male co’ dì novelli ahi mal s’accorda

Alma che da’ sepolcri anche s’ispira,

E a lei risponder la camena è sorda.

Veggo il suo vel fuggente: e a la mia lira

Rompon, amico, omai l’ultima corda

Increscioso dispetto e steril’ira.

18 È risposta per le stesse rime a un sonetto che mi fu indirizzato nel 1856 e che fu stampato in un volume di Liriche

[Pisa, Nistri, 1862], ove sono di bei pezzi poetici. Ecco il sonetto: Carducci, è suono d’armonia guerriera

Quel che ti freme ne l’ardente core,

Che pur le dolci fantasie d’amore

Veste di forma rigida e severa.

La tua forte e sdegnosa anima altera

Sprezza di schiavi e di liberti onore;

E d’acheo piena e di latin valore

Cerca nel ciel di Dante la sua sfera.

Che se ‘l tuo canto a l’età non s’accorda,

Pensa che il fiacco solo in lei s’ispira

Da che al verbo de’ forti è fatta sorda.

Di miglior tempo degno, a la tua lira

Non tôr, Carducci, non aggiunger corda,

Ma sii qual fosti; e rendi carmi ed ira.

Corde, d’allora in poi, alla mia lira, io non ne ho tolte; e, se alcuna ne ho aggiunta, è di quelle che Sparta non avrebbe comandato di togliere.

LIBRO IV

LVII.

LA SELVA PRIMITIVA

… … … . Fuggendo

Per la gran selva de la terra il nato

De la donna ululò già co’ leoni

A la preda cruenta; indi, con vitto

Ferin la vita propagando, incerti

Videsi intorno i figli; e lui, rendente

De la materia a le vicende eterne

L’immane salma, per lo gran deserto

Dilaceraro i lupi. E tu, febea

Lampade solitaria entro l’immenso

Radïante, non gemere le vite

Chine su l’opra del crescente pane,

Non danze d’imenei vedesti, e madri

Veglianti a studio de la culla, e curvi

De’ pii parenti a’ funerali i figli.

Ma quindi per lo pian stridea la roggia

Alluvïone de’ vulcani, intorno

Funereo lume coruscando; e sempre

Caligavan le cime ardue tonanti;

E l’oceàn muggiva; e in su l’azzurra

Alpe salian le nuvole fumanti

Da l’oceàno: päurosamente

Minacciavano al ciel roveri negre

Di vastissima ombra quinci; e a l’ombra

Con lupi urlanti e fere altre la prole

S’accogliea de gli umani. Al picciol uomo

E de la fulva leonessa a i parti

Uno era il nido: al fanciulletto atroce

Era sollazzo provocar li sdegni

De’ feri alunni, e le crescenti giube

E l’unghie e l’armi de la bocca orrende

Tentar con man pargoleggiante, e lieto

Via contendere a correre co’ pardi.

Ma de l’atro vulcan l’uomo e del fuoco,

De l’instancabil fuoco, egli temea;

E con rozzo stupor guatava il mare

Immenso. Anche fuggìa l’urlo de’ venti

Signoreggiante ne’ boschi; e del tuono,

Che pe’ monti da l’aere ermo rimbomba,

Chiuso ne le spelonche isbigottiva.

E al suon de la procella, e a l’esultante

Per li templi de l’etra ira de’ nembi,

E al fulmine stridente, un tremor gelido

Per l’ossa ime gli corse; e s’atterrava,

E gemea. Lieto del superbo sole

Era, e pensoso il verno äere ammirava:

Ma piú seduto a lungo in verde zolla

Si compiacea de le verginee stelle. [19]

19 Questi versi e gli altri intitolati Omero sono frammenti di un carme che ne’ primi anni meditavo su la poesia greca. E

li ristampo, sebbene frammenti, perché sovra essi si fermò piú benigno lo sguardo di F. D. Guerrazzi: i linguaioli mi motteggiavano, ed ei giudicò che in questi versi specialmente io mi mostrava sí alunno del Foscolo, ma come Achille che imparava a tender l’arco da Chirone ( Rivista contemporanea del 1858). So bene d’esser rimasto inferiore al paragone e al vóto:

Quamquam o! — sed superent quibus hoc, Neptune, dedisti.