LVIII.
PROMETEO
Fama è che allor Prometeo, fuggendo
Le sedi auree d’olimpo e de le sfere
L’immortal suono, al nostro mondo errasse
Peregrino divin. Muto correa
Il sole almo e la luce
Per l’infinito oceano, e del mondo
L’ignota solitudine tacea:
Deserta s’accogliea
La greggia umana a l’ombra
De la gran selva de la terra: ed egli
Seco recava nel fatal cammino
Il rapito dal ciel fuoco divino.
Se non che dura a tergo
Gli si premea la Forza e la ferrata
Necessità: scuotea l’una i legami
De l’adamante eterno, e l’altra i chiovi
Con la imminente mano
Su la fronte stendea del gran Titano:
Mentre il Saturnio ne la rupe infame
Instigava del negro augel la fame.
Ma rinfiammò in Orfeo
L’inestinguibil foco, ed egli mosse
Il duro sasso de le umane menti
Citareggiando e le foreste aurite;
Fin che pittore de l’uman pensiero
Pari a’ numi ed al fato alzossi Omero.
LIX.
OMERO
… … Tra le morti e l’alte
Ruine de gli umani e lo sgomento
Viaggiando la Parca, il ferreo carro
Agitava la Forza; e lei reina
La Vittoria seguía con il compianto
De la terra e del cielo. Al doloroso
Genere allora sovvenian le Muse,
Care tra tutte gl’immortali e pie
Divinità. Correvate la terra
Imaginando e ricordando, e tempio
V’era l’uman pensiero, o pellegrine;
Quando voi nel sonante etra, ne l’ampio
De la luce splendor, ne la procella
Che divina scoscende e i cori prostra,
Prima Omero sentí. La mano ei porse
A la cetra, e lo sguardo al mar di molte
Isole verdi popolato, al cielo
Almo su la beata Eubèa raggiante,
E a voi tessali monti esercitati
Dal piè de gl’immortali. Ardea, fremea,
Trasumanato, il giovinetto; e mille
Di numi ombre e d’eroi nel faticato
Petto surgeano a domandargli il canto.
Ed ei pregò, la genitrice Terra
Molto adorando e il Cielo antico; e a’ suoi
Vóti secondo te chiamò che in alto
Hai sede e regni l’invernal Dodona,
Giove pelasgo. E voi spesso invocando,
Voi già prodotti in piú sereno giorno
Eroi figli de’ numi e di tiranni
Domatori e di mostri, e quei che forti
Furo e co’ forti combatteano, venne
Del re Pelide al tumulo. E sedeva [20]
Inneggiando, e chiamava — O crollatore
Terribile de l’asta, o d’immortali
Cavalli agitator, mòstrati al vate,
Uom nato de la diva. Un fatal canto,
Ecco, io medito a te; che n’abbian gloria
Ellade e Ftia regale e d’Eaco i figli,
Incremento di Giove. E, deh m’assenta
Questo voto la Parca! io ne la gloria
Tua de gli elleni il bel nome disperso
20 La venuta di Omero al tumulo di Achille e l’apparizione dell’eroe e l’acciecamento del poeta furono prima immaginati da A. Poliziano nell’ Ambra, v. 260 e segg.; ma d’altra guisa.
Raccoglierò poeta. Odo, la diva
Odo: e di te la grave ira mi canta.
O re Pelide, al tuo poeta mòstrati. —
Disse. E l’udia l’eroe; che da le belle
Isole fortunate, ove i concenti
De’ vati ascolta e quanto a’ numi è caro
Chi a la patria versò l’anima grande,
Venne; ed in sue divine armi lucente
Isfolgorava deïforme. Un sole
Eran armi e sembiante; e, come stella
Di Giove che in sereno aere declina,
Pioveagli su le spalle ampie il cimiero
Flutto di chiome equine. E Omero il vide
Attonito; né piú gli occhi d’Omero
Vider ne i campi d’Argo il dolce sole.
Né se ’n pianse il poeta. Errò mendico
(E avea ne gli occhi la stupenda forma)
Il suol de i forti elleni; e le cittadi,
Opra di numi, ei non vedea; sí tutte
Di lor sedi erompean le achee cittadi
A l’incontro del vate. Un drappelletto
Di garzoni e fanciulle (avevan bianco
Il vestimento e lauri in pugno avvolti
De la mistica lana) intorno al vate
Stringeasi con amor: — Vieni, o poeta,
A i nostri numi; e i nostri avi ne canta —
E l’adducean per mano. Egli passava:
Gli ondeggiavan di popolo le strade;
E le madri accorreano, i pargoletti
Protendendo al poeta. Orava a’ numi
Ne l’entrar de le porte — O dii paterni
E o dee che avete la cittade in cura,
Deh guardatela molti anni a’ nepoti.
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