Ne l’àgora sedea, curvo a la terra

Il capo venerando; e parea Giove

Quando ne l’arëopago discende

Da la reggia d’olimpo. Erangli intorno

In su l’aste di lunga ombra appoggiati

I prenci figli de gli eroi: diverso

E d’infanti e di femmine e di vegli

E di chiomati giovinetti un vulgo

Addensato co gli omeri attendea.

Stavan presenti i patrii numi: il cielo

Patrio rideva in suo diffuso lume

Allegrato del sol: riscintillando

In vista ardea la ionia onda famosa,

E biancheggiavan lunge i traci monti.

Ed Omero cantò. Cantò di un nume

Che in nube argentea chiuso ognora il petto

Assecura de’ giusti; e come il divo

Senno di Palla per cotanto mare

Di perigli e di morte al caro amplesso

Radducea di Penelope e a la vista

De la sua cilestrina isola Ulisse.

Anche, su ’l capo a gli empi assidua l’ira

Minacciando ed il fato, a l’alme leggi

De l’umano consorzio e a la vendetta

Le deità d’averno addusse il vate

Proteggitrici forze: onde solenne

La ruina di Troia, e spirò il duolo

Dal tragico terrore e il miserando

Edippo da le attèe scene ed Oreste

Esagitaron l’anime cruente.

Ecco! gl’immoti e spenti occhi levando

Nel cielo e desïando il sol che vide

Le guerre sotto il sacro Ilio pugnate,

Di tutto il capo alzasi il veglio; e Grecia,

Senza moto e respiro, in lui riguarda.

Ecco! la man su l’apollinea cetera

Rapidissima batte, orride stridono

Le ionie corde, i volti impallidiscono.

E cantò del Tidide a tutta corsa

Disfrenante su’ Dardani la biga,

Dritto ei nel mezzo, e mena l’asta in volta:

Caggiono i corpi: infuriano nel sangue

I corridor fumanti: urla la morte

Dietro l’eroe: corron le furie innanzi

Lo spavento, la fuga. E te piantato

In su la nave, o re Telamoníde,

Cantò; come e del gran corpo e de l’asta

Grande e ben ventidue cubiti lunga

Reggei lo sforzo de la pugna, ed eri

Solo tu contro mille: a fronte urlavano,

Accorrenti, irrompenti, risplendenti

D’armi e di faci i Teucri: Ettor crollava

Con man la poppa: sovra èrati Apollo

E l’egida scotea: tonava il padre

Da l’olimpo su’ greci: affaticato

A te cadeva il braccio, e ti battea

Alto anelito i fianchi. — Oh viva, oh viva! —

Gridan l’anime achive asta con asta

Percotendo, e il clamor levan di guerra.

Balza il poeta; e la canizie santa

Scote e la fronte ampia serena, in vista

Nume veracemente. — Udite, o figli:

La gloria udite de la lega ellèna,

Achille ftio sangue di Giove. — E disse

Come d’un grido (gli splendea dal capo

Di Pallade la luce) isbigottí

Le dàrdane caterve; impauriti

Ricalcitraro orribili i cavalli,

Ed annitrendo sbaragliati i cocchi

Rapivano a le mura: e qual con Csanto

Fiume di Giove ei contrastasse; e come

Dopo la biga, a le difese mura

Intorno, egli il divin corpo di Ettorre

Tre volte orribilmente istrascicasse

Entro l’iliaca polve. Armi fremendo

E prenci e vulgo gridano il peàna:

Marte spiran gli sguardi: e tutti in cuore

Già calcavan nemici, e a le paterne

Are affiggean le belle armi votate.

Ma pio davan le argèe vergini un pianto

Su la morte di Ettorre: e chi a la cara

Patria e a le spose e a’ pargoletti imbelli

E a’ templi santi il suo sangue fea sacro,

Gioia avea de la morte: onde nel giorno

De le battaglie infurïò tra’ Medi

La virtú greca, e il nome Atene e l’ire

Commise del potente Eschilo al canto.

LX.

DANTE

Forti sembianze di novella vita

Circondâr la tua cuna,

O re del canto che piú alto mira.

Gentil virago ardita,

Quale non vider mai le argive sponde

Né le latine, e d’amor balda e d’ira,

A te venía la bella

Toscana libertade; e il pargoletto

Già magnanimo petto

Ti confortava de la sua mammella.

Tutta accesa ne’ raggi di sua sfera,

Mite insieme ed austera,

Venne la fede; e per un popoloso

Di visïoni e d’ombre oscuro lito

La porta ti mostrò de l’infinito.

Gemebondo e pensoso, e pur di rose

Ad altr’aura fiorite il crin splendente,

Con te si stette amore

Lunga stagione; e sí soavi cose

Ti parlò con le labbra vereconde,

E sí dolce ti entrò le vie del core,

Che niuno al par di te sentìo d’amore.

Ma spesso ancor dal meditar solingo,

O giovinetto schivo,

Te scuotevan clamor fiero e tumulto

E furor di fratelli

Duellanti ad uccidersi. Stridenti

Per le vicine mura

Civili fiamme udisti; e donne udisti

Ferire a grida il ciel, che l’are e i letti

E i fuochi almi e le cune,

E tutto ciò che bello

Fe’ a gli occhi loro il maritale ostello,

Tutto scorgeano in ampio ardore involto,

E ruinare in armi esso marito

Da gli amplessi erompendo, e i giovinetti

Armi gridar, sdegno anelando e stragi.

E tu vedesti un furïar di spade

Cercanti a morte i petti,

E nel guerrier che cade

Minacciar viva la bestemmia e l’ira,

E in gran sangue confuse

Bionde teste e canute, e a libertade

Spettacolo di umane ostie esecrate

Dar le furie, e crollar la morte

Le immani torri e le ferrate porte.

Crebbe tra i feri obietti

L’italo ardito spirto;

E, al lungo odio civil pregando fine,

D’amor sì pure imagini e sì nove

Vide e ritrasse a l’ombra

D’un mirto giovinetto

Che le inchina adorando ogni intelletto.

Lui dal soave inganno

Destò voce di pianto

Sonando amara su ’l materno fiume.

Ahi, dal turbine infranto

Giacque il bel mirto, e con aperte piume

La colomba d’amore ahi se n’è gita

Impetrando al suo volo aura piú pura.

Ei per entro l’oscura

Caligine de’ secoli ondeggiante

Rifuggí tra le antiche ombre famose,

Ch’ebbe sé in odio e le presenti cose,

Ed uscí, nel crepuscolo, gigante.

Ed ombra apparve ei stesso; ombra crucciosa,

Che ad una ad una interroga le tombe

Nel deserto, e le abbraccia ad una ad una;

Fin che dinanzi a lui tra le ruine

Barbariche e la polve

Fumò il vigor de le virtú latine,

E tutto quel che una ruina involve

Ferì l’aura silente

Di un grido alto e possente.

Ne l’alta visïone

Divin surse il poeta; e disdegnando

La triste Italia e per mancar d’obietto

Pargoleggiante il gran vigor natio,

Te salutò in desio,

Alma Italia novella,

Una d’armi di leggi e di favella.