Sí crudelmente fero è quel flagello

Onde me già del breve correr lasso

Il disinganno sferza a ciascun passo,

Che fine io chiamo al reo cammin l’avello;

E tra forme gentili e nel piú bello

Aprir de’ floridi anni io l’occhio abbasso,

Quasi cercando oltre la terra il passo

A l’inamabil cieco ultimo ostello.

Ma di speme atteggiato e di dolore

Mi sofferma un sembiante; e lacrimoso

Pur in me guarda, e pio tace. Furore

Quinci ed amor nel petto procelloso

Surgono a gran tenzone; e vince amore:

Ond’io fremendo e sospirando poso.

VI.

Questa è l’altera giovinetta bella

Che tragge seco onesta leggiadria:

Beltade orna di gloria la sua via,

E l’addimostra per propria angiolella.

I’ ho veduto Amor che la servia

Umilemente de le sue quadrella;

Sentit’ho gire per salute ad ella

L’alma ferita che dal cor si svia.

E chiama pur pietà nel suo conspetto,

Fin che quel riso onde s’allegra amore

Benignamente l’umile raccoglia.

Allor la vita esulta entro nel core,

E il cor si leva e la tristezza spoglia

Illuminato nel sereno aspetto. [6]

6 A imitazione delle rime dei secoli XIII e XIV.

VII.

O nova angela mia senz’ala a fianco,

Certo dal loco ove bellezza è pura

L’intelligenza tua vestì figura

Di pargoletta donna in velo bianco;

E qui venisti al secol rio, che stanco

Del bello adoperar piú nel mar dura,

Per drizzar me fuor de la vita scura

Voglioso dietro le tue scorte e franco.

E ben forse avverrà ch’agile e scarco

Io prema ancor le tue vestigia sante

Con l’alma teco in un desio congiunta;

Se di tanto mi degna il Primo Amante,

Che, mentre io tenga del mortale incarco,

L’ale tue d’òr non mettan fuor la punta. [7]

7 Come il precedente. Il Primo Amante del v. 12 è detto platonicamente, come già dal Tasso nella canzone alla Pietà: Ei accesa di zelo

Scaldi gli alati amori

Di nuovo e dolce foco e ‘l primo amante.

VIII.

Profonda, solitaria, immensa notte;

Visibil sonno del divin creato

Su le montagne già dal fulmin rotte,

Su le terre che l’uomo ha seminato;

Alte da i casti lumi ombre interrotte;

Cielo vasto, pacifico, stellato;

Lucide forme belle, al vostro fato,

Equabilmente, arcanamente, addotte;

Luna, e tu che i sereni e freddi argenti

Antica peregrina a i petti mesti

Ed a’ lieti dispensi indifferenti;

Che misteri, che orror, dite, son questi?

Che siam, povera razza de i viventi?…

Ma tu, bruta quïete, immobil resti.

IX.

Candidi soli e riso di tramonti,

Mormoreggiar di selve brune a’ venti

Con sussurrio di fredde acque cadenti

Giú per li verdi tramiti de’ monti,

Ed Espero che roseo sormonti

Nel profondo seren de’ firmamenti,

E chiara luna che i sentier tacenti

Inalbi e scherzi entro laghetti e fonti,

Questo m’era ne’ vóti. Or miei desiri

Pace ebber qui tra fiumi e tra montagne

De le secure muse in compagnia:

Pace: se non che te ne’ miei sospiri

Chiamo, te che da noi ti discompagne,

E il caro aspetto de la donna mia.

X.

Bella è la donna mia se volge i neri

Di soave languore occhi lucenti,

E, ricercando il vinto cor, le ardenti

Vi rinforza d’amor voglie e pensieri.

Piú bella è la mia donna allor che alteri

Gli leva o gira nel conceder lenti,

E, minacciando pur, chiede ch’io tenti

La dolce guerra e la vittoria speri.

Cosa di cielo è la mia donna allora

Che il roseo collo piega e il vago riso

A i baci porge e quei d’ambrosia irrora.

Oh, che d’ogni mortal cura diviso,

Sopra quel sen, tra quegli amplessi io mora!

Né v’invidio, o beati, il paradiso.

XI.

A questi dí prima io la vidi. Uscía

A pena il fior di sua stagion novella,

E la persona pargoletta e bella

Era tutta d’amore un’armonia.

Vereconda su ’l labro la fiorìa

L’ingenua grazia e la gentil favella:

Come in chiare acque albor lontan di stella

Ridea l’alma ne gli occhi e trasparìa.

Tale io la vidi.