LIBRO II
XXIV.
INVOCAZIONE
Se te già tolsi con incerta mano
Da latin ramo onde ancor Febo spira,
Caro a le Grazie or tu sonami, o lira,
Carme toscano.
Canora amica, o le falangi astate
Ferocemente confortasse in guerra,
O riposasse ne la franca terra,
Al lesbio vate
Tu gli dicevi e Cipride ed Amore
E giovin sempre di Semèle il figlio
E ’l crin di Lico e de l’arcato ciglio
L’ampio fulgore.
Or io ti scoto. A me sorride il puro
Genio di Flacco: a’ divinati allori
E de le ninfe a’ radïanti cori
Movo securo.
O cara a Giove ed a re Febo, insigne
Di cittadine mura adornamento,
Rispondi al vóto; e sperda il tuo concento
L’alme maligne.
XXV.
A O. T. T.
Caro a le vergini d’Ascra e di belle
Mortali vergini cura e diletto,
O a me di mutua fede costretto
Da eguali stelle,
Ottavio: i codici d’aurea favella
Dove il tuo spendesi tempo migliore,
Che da te chieggono novo splendore,
Vita piú bella,
Poni: ed i lirici metri, che apprese
A me la duplice musa di Flacco,
Qui tra le candide gioie di Bacco
Odi cortese.
Avvi cui ’l torbido Gradivo arride,
Ed ama il rapido baglior d’elmetti
Ne l’aer livida che da’ moschetti
Divisa stride,
E via tra l’orride membra che sparte
Incèstan d’ampia strage il sentiero
Urta il fulmineo baio destriero
Furia di Marte;
Poi lunge a’ fulgidi campi ed a’ valli,
Nel sen d’ingenua sposa che agogna
Notturni gaudii, feroce ei sogna
Trombe e timballi.
Con altri l’àlacre fame de l’oro
Ascende vigile la prora, e anela
Le infami insidie drizza e la vela
Al lido moro.
Per essa il nauta ride i furori
D’euro che gl’ispidi flutti cavalca,
E con la cupida mente egli calca
Rischi e terrori:
In vano l’orrido crin sanguinante
Infesto Orìone pe ’l ciel distende
Ed il terribile di fiamma accende
Brando strisciante:
Bianca di naufraghe ossa minaccia
La riva squallida: dal patrio lido
La figlia chiamalo con lungo strido
Pallida in faccia.
Ed altri docile guerrier d’amore
In tra le pafie rose vivaci
De le virginee lutte co’ baci
Desta il furore;
E sopra un niveo petto, di glorie
La fronte carica, stanco a le prove,
Depone; ed agita, posando, nove
Pugne e vittorie.
E me le libere Muse nel casto
Seno raccolgano, me loro amante
Le dee proteggano del vulgo errante
Dal vano fasto.
Me non contamini venduta lode,
Non premio sordido d’util perfidia:
Vinca io con semplice petto l’invidia,
Vinca la frode.
Ed oh se un tenue spirto l’argiva
Camena infondami! se a me ne’ lieti
Fantasmi lucidi de’ suoi poeti
Grecia riviva!
Non io l’Apolline cimbro inchinai,
Io tósco e memore de l’are attèe;
Né di barbariche tazze circèe
Ebro saltai.
Ottavio, al libero genio romano
Libiam noi liberi qui nel gentile
Terren d’Etruria: lunge il servile
Gregge profano.
XXVI.
CANTO DI PRIMAVERA
Qual sovra la profonda
Pace del glauco pelago
Uscì Venere, e l’onda
Accese e l’aer e l’isole,
Quando al ciel le divine
Luci alzò raccogliendo il molle crine;
Primavera beata
Su le pianure italiche
Sorride. Ogni creata
Cosa in vista rallegrasi:
Scherza con l’aura e il fiore
E vola nel sereno etere Amore.
Entro la chiusa stanza
Medita Amore, trovalo
In fragorosa danza
La giovinetta; ed íntegra
Cede a’ futuri affanni
L’inconsapevol cuore e i candidi anni.
D’ebrïetà possente
Sale dal suol che vegeta
Un senso: al cor fremente
Il mondo antico vestesi
Di novi incanti, e a’ petti
Novi palpiti chiede e novi affetti.
Transvolar le serene
Forme de’ sogni improvvido
L’uom ricontempla: arene
E deserto il ricingono:
La falsa imago anelo
Lui tragge ove piú stride il verno e il gelo.
Tal, se l’alta marina
Ara e l’insonne Atlantico,
Vede, allor che ruina
La notte solitaria,
L’elvezio infermo il rio
Alpin ne l’onde salse, e del natio
Monte le vacche quete
Pender da i verdi pascoli,
E tra l’ombre segrete
Un’aspettante vergine
Cantar, molle la guancia;
Vede, ed in contro a lei nel mar si lancia.
Che sopra gli si chiude
Muto. O soavi imagini,
Pur d’ogni senso nude;
O d’inconsulti palpiti
Desío profondo arcano;
Ultima gioventú del cuore umano!
Questa che deludete
Misera prole, o perfidi,
Quanto ha di voi pur sete!
E vi saluta reduci
Insieme al riso alterno
Onde s’attempa il vol de l’orbe eterno.
Culto tra i feri studi
Sacro un giorno a’ romulidi,
E di solenni ludi
Empiea sonante l’isola
Che il Tebro ad Ostia in faccia
Lieta di paschi e di roseti abbraccia.
Dal dí che il mese adduce
De la marina Venere
Sino a la terza luce
Già sorta a gl’incunabuli
Di Quirin, la gioconda
Festa correa per la fiorita sponda.
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