Ecco, presente Venere

Ne l’anima pudica

Regna, e il pensier virgineo

Con forza empia affatica.

Cotal forse aggiravasi

Ne la stanza odïosa Del

giovinetto Piramo

L’inaugurata sposa,

E in cor pensava i gaudii

Al fido orror commessi

Ed i furtivi talami

E i raddoppiati amplessi:

In tanto Amor gemeane,

De’ preparati lutti

Già fatalmente prèsago

E de’ mutati frutti.

Ma le dolenti imagini

Si portin gli euri in mare:

Diciam parole prospere:

Benigno Amor ne appare.

Oh sperar lungo e timido,

Oh d’angosciose notti

False quïeti, oh torbidi

Sogni dal pianto rotti!

Mercé, mercé! pur compiesi

Il dolce e fier desio,

Pur debbo al fine io stringerla

Su questo petto mio!

Ah no che sen piú candido

Endimïon non strinse

Quando notturna Venere

La schiva dea gli scinse!

Io ardo. Amore infuria

Nel fulminato petto;

E corro, e guardo, ed Espero

Gridando in cielo affretto.

Pietà, divino Apolline!

Spingi i destrier celesti,

Le inerti Ore sollecita;

Ruina… A che t’arresti?

E ancor rattieni il cocchio

In su l’estrema curva?

E ancor l’ancella undecima

Lenta su ’l fren s’incurva?

Male io sperai te facile

Al suon di mie querele,

Sempre a gli amanti infausto,

Sempre in amor crudele!

Clizia oceania vergine

Per te conversa in fiore

Ancor mutata sèrbati

Il non mutato amore.

Imprecò già Coronide

Per te al disciolto cinto:

Amícle un giorno e Táigeta

Pianser per te Giacinto.

Ma e tu d’amor gl’imperii,

Tu, petto immansueto,

Durasti; e i greggi a pascere

Pur ti ritenne Admeto.

Te solitari attesero

I templi ermi del cielo,

Né piú muggía da gli aditi

La religion di Delo.

Giacea de’ tori indocili

Dal vago piè calcato

L’arco divino argenteo

In abbandon su ’l prato.

Né bastò l’arte medica

Verso la cura nova:

Ahi, sol di furie e lacrime

Il nostro Iddio si giova.

Né tra le dita ambrosie

Piú ti splendea la lira,

Quella onde al padre caddero

Sovente i fuochi e l’ira.

E che? l’avena rustica

Dal labbro tuo risona,

O figlio de l’Egioco,

O figlio di Latona?

Tu d’amor gemi, ed orride

Co ’l muggito diverso

Rompon le vacche tessale

La dotta voce e il verso.

Fama è però che memore

Tu de l’incendio antico

A gli amorosi giovini

Nume ti porgi amico.

E i vóti a te salirono

Del buon Cerinto grati,

Quando immaturi pressero

L’egra Sulpizia i fati:

Tu al bel corpo le mediche

Mani applicar godesti,

Tu al giovinetto cupido

Integra lei rendesti.

E giorno fu che in trepida

Cura Tibullo ardea:

Varia di amori il candido

Vate Neera angea.

Gemeva egli le vigili

Piume stancando in vano:

Ma in piena luce videti

Il cavalier romano.

Pe ’l lungo collo eburneo

Intonsi i crin fluire

Vide e stillar la mirtea

Chioma rugiade assire.

Qual de la luna in placido

Sereno, era il candore:

Era nel corpo niveo

Di porpora il colore,

Come al settembre tingonsi

Bianche méle fragranti,

Come fanciulle intrecciano

I gigli a li amaranti.

— Soffri, dicesti: ad Albio

Serbata è pur Neera:

Tendi le braccia a i superi

Con molta prece, e spera. —

E anch’io pregai: di lacrime

Io gli abbracciati altari

Sparsi: e non furo i superi

A me di grazia avari.

Non io lamento perfida

La mia fanciulla, escluso

Non io gli aspri fastidii

De la superba accuso;

Né de le mense eteree

Vuo’ che ti prenda oblio,

Ed entri, almo Latoide,

Quest’umil tetto mio.

Mi dolgo io ben che tardisi

A le mie gioie l’ora

Dal corso tuo che a Nereo

Par non accenni ancora.

Dolgomi…. Ahi folle! inutili

Querele io spando: errore

Al cor m’induce il memore

Libetrico furore.

Te da le valli tessale,

Te da l’egea marina

Vedea de’ vati ellenici

La fantasia divina,

Giovine iddio bellissimo

Pe’ i cieli ermi sorgente:

Ignei tu avevi alipedi,

Carro di fiamma ardente;

E intorno ti danzavano

Ne la serena spera

Le ventiquattro vergini

Fósca e vermiglia schiera.

Né vivi tu? né giunseti

Del vecchio Omero il verso?

E Proclo in van chiamavati

Amor de l’universo?

Il vero inesorabile

Di fredda ombra covrío

Te larva d’altri secoli,

Nume de’ greci e mio.

Or dove il cocchio e l’aurea

Giovanil chioma e’ rai?

Tu bruta mole sfolgori

Di muto fuoco, e stai.

Ahi! da le terre ausonie

Tutti fuggîr li dèi:

In vasta solitudine,

O Musa mia, tu sei.

In vano, o ionia vergine,

Canti, ed evochi Omero:

Surge, e minaccia squallido

Da’ suoi deserti il vero.