Ebbene, pazienza, la morte, a cui nessuna casa, per quanto lontana e nascosta, può restare ignota! Ma come mai, partita da mille e mille miglia lontano, sospinta, o trascinata, sbattuta qua e là dal turbine di tante vicende misteriose, poté trovar la via di quella casetta schiva, lì rannicchiata dietro il poggio verde, una donna, a cui la pace e gli affetti, che quivi regnavano dovevano essere, nonché incomprensibili, ma neppur concepibili? Io non ho le tracce, né forse le ha nessuno, del cammino seguìto da questa donna per arrivare alla dolce casetta di campagna, presso Sorrento. Lì, proprio lì, davanti al pilastrino del cancello, da cui nonno Carlo da gran tempo aveva fatto strappare la targhetta, ella non arrivò da sé, veramente; non alzò lei la mano, la prima volta, a sonare la campanella per farsi aprire il cancello. Ma non molto lontano di lì ella si fermò ad aspettare, che un giovanetto, fin allora custodito con l'anima e col fiato da due vecchi nonni, bello, ingenuo, fervido, con l'anima tutta alata di sogni, da quel cancello uscisse fiducioso verso la vita. O nonna Rosa, e voi lo chiamate ancora dal giardinetto, perché egli vi ajuti a cogliere con la cannuccia i vostri gelsomini di bella notte? - Giorgio! Giorgio! Ho ancora negli orecchi, nonna Rosa, la vostra voce. E provo una dolcezza accorata, che non so dire, nell'immaginarvi ancora lì, nella vostra casetta, che rivedo come se vi fossi tuttora e tuttora ne respirassi l'alito che vi cova, d'antica vita; nell'immaginarvi ignara di quanto è accaduto, com'eravate prima, quand'io, nelle vacanze estive, venivo da Sorrento ogni mattina a preparare per gli esami d'ottobre il vostro nipote Giorgio, che non voleva sapere né di latino né di greco, e imbrattava invece tutti i pezzi di carta che gli capitavano sotto mano, i margini dei libri, il piano del tavolino da studio, di schizzi a penna e a matita, di caricature. Ci dev'essere anche la mia, ancora, sul piano di quel tavolino tutto scombiccherato. - Eh, signor Serafino, - sospirate voi, nonna Rosa, porgendomi in una tazza antica il solito caffè con l'essenza di cannella, come quello che offrono le zie monache nelle badìe, - eh, signor Serafino, Giorgio ha comprato i colori; ci vuol lasciare; vuol farsi pittore... E dietro le vostre spalle sgrana i dolci, limpidi occhi cilestri e si fa rossa rossa Lidiuccia, la vostra nipote; Duccella, come voi la chiamate. Perché? Ah, perché... È venuto già tre volte da Napoli un signorino, un bel signorino tutto profumato, col panciotto di velluto, i guanti canarini scamosciati, la caramella a l'occhio destro e lo stemma baronale nel fazzoletto e nel portafogli. L'ha mandato il nonno, barone Nuti, amico di nonno Carlo, amico da fratello, prima che nonno Carlo, stanco del mondo, si ritirasse da Napoli, qua, nella villetta sorrentina. Voi lo sapete, nonna Rosa. Ma non sapete che il signorino di Napoli incoraggia fervorosamente Giorgio a darsi all'arte e ad andarsene a Napoli con lui. Lo sa Duccella, perché il signorino Aldo Nuti (che stranezza!), con tanto fervore dell'arte, non guarda mica Giorgio, guarda lei, negli occhi, come se dovesse incoraggiare lei e non Giorgio; sì, sì, lei a venirsene a Napoli per star sempre sempre accanto a lui. Ecco perché Duccella si fa rossa rossa, dietro le vostre spalle, nonna Rosa, appena vi sente dire che Giorgio vuol fare il pittore. Anche lui, il signorino di Napoli, se il nonno permettesse... No, pittore no... Vorrebbe darsi al teatro, lui, far l'attore. Quanto gli piacerebbe! Ma il nonno non vuole... Scommettiamo, nonna Rosa, che non vuole neanche Duccella?
II
I fatti che seguirono a questa tenue, ingenua vita d'idillio, circa quattr'anni dopo, io li conosco sommariamente. Facevo a Giorgio Mirelli da ripetitore, ma ero anch'io studente, un povero studente invecchiato nell'attesa di proseguir gli studii e a cui i sacrifizi durati dai parenti per mantenerlo alle scuole avevano spontaneamente persuaso il massimo zelo, la massima diligenza, una timida umiltà accorata, una soggezione che tuttavia non si stancava, benché quell'attesa si prolungasse ormai da molti e molti anni. Ma forse non fu tempo perduto. Studiai da me e meditai, in quell'attesa, molto più e con profitto di gran lunga maggiore, che non avessi fatto negli anni di scuola; e da me imparai il latino e il greco, per tentare il passaggio dagli studii tecnici a cui ero stato avviato, ai classici, con la speranza che mi fosse più facile entrare per questa via all'Università. Certo, questo genere di studii si confaceva assai più alla mia intelligenza. M'affondai in essi con passione così intensa e viva, che, a ventisei anni, quando per una insperata modestissima eredità di uno zio prete (morto nelle Puglie e da un pezzo quasi dimenticato dalla mia famiglia) potei finalmente entrare all'Università, rimasi a lungo perplesso, se non mi convenisse lasciar lì nel cassetto, ove da tant'anni dormiva, il diploma di licenza dall'istituto tecnico, e di procurarmi quella dal liceo, per iscrivermi nella facoltà di filosofia e lettere. Prevalsero i consigli dei parenti, e partii per Liegi, dove, con questo baco in corpo della filosofia, feci intima e tormentosa conoscenza con tutte le macchine inventate dall'uomo per la sua felicità. Ne ho cavato, come si vede, un gran profitto. Mi sono allontanato con orrore istintivo dalla realtà, quale gli altri la vedono e la toccano, senza tuttavia poterne affermare una mia, dentro e attorno a me, poiché i miei sentimenti distratti e fuorviati non riescono a dare né valore né senso a questa mia vita inetta e senz'amore. Guardo ormai tutto, e anche me stesso, come da lontano; e da nessuna cosa mai mi viene un cenno amoroso ad accostarmi con fiducia o con speranza d'averne qualche conforto. Cenni, sì, pietosi, mi sembra di scorgere negli occhi di tanta gente, negli aspetti di tanti luoghi che mi spingono non a ricevere né a dare conforto, che non può darne chi non può riceverne; ma pietà.
1 comment