Ma di punto in bianco le venne in mente la solenne invocazione alla fine della lettera della signora Vanderlyn: « Se hai mai avuto un debito di cortesia con me, su ciò che hai di più sacro, non devi dire una sola parola di tutto questo a nessuno, nemmeno a Nick… ».

Era, ovviamente, proprio ciò che nessuno aveva il diritto di chiederle, se pure era possibile impiegare l’espressione « diritto » in qualsiasi connessione con quell’insieme di cose sbagliate. Rimaneva comunque il fatto che sotto il profilo della cortesia lei a Ellie doveva molto; e che questa era la prima volta che la sua amica le chiedeva qualcosa in cambio. Insomma, si trovava esattamente nella stessa posizione di quando Ursula Gillow, usando lo stesso argomento, l’aveva pregata di rinunciare a Nick Lansing. Già, certo, rifletté; del resto, però, anche Nelson Vanderlyn era stato cortese con lei; e i soldi con cui Ellie si comportava con tanta liberalità erano di Nelson… Il bizzarro edificio dei suoi parametri traballava alle fondamenta… in mezzo a tanta fallacia non sapeva francamente dire dove risiedesse il giusto.

L’intensità del suo sconcerto la rendeva perplessa. Le era già capitato di trovarsi « alle strette »; anzi, a dire il vero le era capitato ben di rado di trovarsi in situazioni che non la mettessero in uno stato di obbligo! Ripensando al proprio passato non vedeva davanti a sé che un reticolo di continui compromessi ed espedienti. Ma non le era mai capitato di avere la sensazione che le fosse stato fatto lo sgambetto, di sentirsi strozzata, inchiodata. La piccola meschinità dei sigari l’amareggiava ancora, e adesso sulla ferita aperta era andata a cadere anche questa grossa umiliazione. Decisamente, il secondo mese della loro luna di miele stava cominciando in un clima rannuvolato…

Gettò un’occhiata all’orologio da viaggio in smalto posato sulla toeletta – uno dei pochi regali di nozze di quel tipo che aveva acconsentito ad accettare – e si stupì di quanto fosse tardi. Di lì a un attimo sarebbe arrivato Nick; una sensazione sgradevole in gola l’avvertì che per pura e semplice agitazione ed esasperazione sarebbe potuto sfuggirle qualcosa di malaccorto. Era pallida e stravolta in viso; accresciutane ulteriormente l’aria affaticata con una rapida e abile applicazione di cosmetici, attraversò la stanza e aprì silenziosamente la porta di quella del marito.

Era seduto anche lui accanto a una lampada, a leggere una lettera che al suo entrare posò. Aveva un’espressione grave, tanto da convincerla che stesse ancora pensando ai sigari.

« Sono molto stanca, carissimo, e ho un mal di testa così orribile che sono venuta ad augurarti la buona notte. » E chinatasi sullo schienale della sua poltrona gli posò le mani sulle spalle. Lui le strinse tra le sue, ma, quando gettò la testa all’indietro per sorriderle, lei si accorse che la sua espressione continuava a essere seria, quasi distante. Le parve che per la prima volta fra i loro sguardi si frapponesse un lievissimo velo.

«Mi spiace davvero; hai avuto una giornata molto lunga», disse Nick in tono assente, premendole le labbra sulle mani.

Lei avvertì un orribile pizzicorino in gola.

«Nick! » sbottò, aumentando l’intensità del suo abbraccio, « prima che io torni di là devi giurarmi sul tuo onore che sai che non avrei mai preso quei sigari per me! »

Lui la fissò un attimo e lei ricambiò lo sguardo con uguale gravità; quindi si sentirono pervadere entrambi dalla stessa allegria, e la contrizione di Susy venne spazzata via da un’esplosione di risa.

Il mattino, seguente, al risveglio, il sole entrava a fiotti attraverso le tende di vecchio broccato, la sua rifrazione dalle increspature del canale tracciava un reticolo di scaglie dorate sul soffitto a volta. La cameriera aveva appena posato il vassoio accanto al letto su un esile tavolino intarsiato; sopra il bordo del vassoio vide spuntare il visino serio serio di Clarissa Vanderlyn. Alla vista della bambina tutti gli scrupoli dormienti nel suo intimo si risvegliarono.

Clarissa aveva soltanto otto anni ed era piccola per la sua età: il suo mento minuto e rotondo arrivava appena all’altezza del servizio da tè; i suoi occhi castano chiaro fissavano Susy attraverso le nervature del contenitore del pane tostato e l’unica rosa Tea infilata in un vaso antico di vetro di Murano. Erano due anni che Susy non la vedeva, e nel frattempo sembrava essere passata da un’infanzia pensosa alla completa maturità dell’esperienza femminile. Stava guardando l’ospite della madre con un tono di approvazione.

« Sono molto contenta che tu sia venuta », disse con una vocina dolce. «Mi piaci moltissimo. So che non staremo spesso insieme, ma almeno mi terrai un po’ d’occhio, vero? »

« Un po’ d’occhio? Se mi dici cose così gentili, non te lo toglierò mai di dosso! » E Susy rise, chinandosi dai cuscini per attirarla accanto a sé.

Clarissa sorrise e si mise comoda sulla coperta di seta. « Oh, lo so che non starò sempre con te, perché ti sei appena sposata. Ma potresti fare in modo che i pasti mi vengano serviti regolarmente? »

« Come, povero tesoro? Non è sempre così? »

« No, quando mia madre è via per queste cure. La servitù non mi ubbidisce sempre: sai, per la mia età sono molto piccola. Certo, fra qualche anno dovranno farlo… anche se non crescerò molto », aggiunse giudiziosamente la bambina. Quindi allungò la mano a sfiorare la collana di perle che Susy aveva al collo. « Sono piccole, ma molto belle. Immagino che quando viaggi non ti porti dietro le altre. »

«Le altre? Santo cielo! Non ne ho altre… e probabilmente non ne avrò mai. »

« Non hai altre perle? »

« Non ho nessun altro gioiello. »

Clarissa le puntò in viso due occhi spalancati.