« Davvero? » chiese, come davanti a un fatto senza precedenti.
« È orribilmente vero », confessò Susy. « Però credo che riuscirò ugualmente a farmi ubbidire dalla servitù. »
Ma l’argomento sembrava avere perso di interesse per Clarissa, che stava ancora scrutandola con espressione grave. Dopo qualche istante, infatti, le pose un’altra domanda.
« Hai dovuto rinunciare a tutti i tuoi gioielli quando hai divorziato? »
«Divorziato?…» Susy lasciò ricadere la testa sui cuscini, scoppiando a ridere. « Ma che cosa ti viene in mente? Non ricordi che l’ultima volta che mi hai visto non ero nemmeno sposata? »
« Sì, certo. Ma è successo due anni fa. » E la bambina le strinse le braccia al collo, abbandonandosi teneramente su di lei. « Lo farai presto, allora? Ti prometto che, se non vuoi, non lo dico a nessuno. »
«Divorziare? No di certo! Che cosa diamine te lo fa pensare? »
« Il fatto che mi sembri incredibilmente felice », rispose semplicemente Clarissa Vanderlyn.
5.
Era un segnale abbastanza irrilevante, ma le era rimasto in mente: il primo mattino a Venezia Nick era uscito senza prima venirla a trovare. Lei era rimasta a letto fino a tardi, a chiacchierare con Clarissa, aspettando di vedere la porta che si apriva facendo passare suo marito; e quando finalmente la bambina se n’era andata era saltata fuori dal letto per guardare in camera di Nick, ma l’aveva trovata vuota: un biglietto di una sola riga sul mobile da toeletta la informava che era uscito a spedire un telegramma.
Era un atteggiamento da persona innamorata, persino infantile, che avesse ritenuto necessario spiegarle la sua assenza; ma perché non era semplicemente andato di là a dirglielo? Istintivamente aveva collegato l’insignificante evento con l’ombra di preoccupazione che gli aveva colto in viso la sera prima, quando era andata in camera sua trovandolo assorto nella lettura di una lettera; quindi, mentre si vestiva, si era chiesta ripetute volte quale potesse esserne il contenuto, e se il telegramma che si era precipitato a spedire fosse la risposta.
Non lo aveva mai scoperto. Quando era ricomparso, bello e felice come la stessa mattinata, Nick non le aveva dato nessuna spiegazione; e d’altra parte per lei rientrava nell’atteggiamento di tutta una vita non porre domande non richieste. E ciò non dipendeva soltanto dal fatto che la gelosa considerazione che aveva della propria libertà trovava riscontro in un corrispondente rispetto per quella altrui; era troppo tempo che navigava con perizia tra gli scogli e le secche della vita di società per non sapere quanto angusto fosse il passaggio che porta alla quiete mentale, ed era ben determinata a mantenere la sua barchetta su una rotta esattamente equidistante tra le due sponde. Ma l’incidente le si era ficcato a fondo nella memoria acquisendo una sorta di significato simbolico, quasi di punto di svolta nei rapporti tra lei e il marito. Non che fossero meno felici di prima, ma ormai, come sempre faceva con simili piaceri, li considerava alla stregua di un’isoletta instabile in un mare in tempesta. La sua felicità era completa, come sempre, ma circondata dalla perenne minaccia di tutto ciò che sapeva di nascondere a Nick; e di tutto ciò che sospettava le nascondesse lui…
Stava appunto pensando a queste cose un pomeriggio, circa tre settimane dopo il loro arrivo a Venezia. Era quasi il tramonto ed era seduta da sola sul terrazzo a guardare le strisce di luce sull’acqua intrecciare il loro disegno sopra l’agitato riflesso delle antiche fondamenta dei palazzi. A quell’ora era quasi sempre sola. Di pomeriggio Nick aveva cominciato a scrivere – era stato di parola, ed evidentemente lo era stata anche la Musa –, per cui era ormai sua abitudine raggiungerla soltanto al tramonto, per una remata vespertina in laguna. Come al solito lei aveva portato Clarissa ai Giardini pubblici, dove la docile bambina aveva « giocato » con cortese indifferenza – ai diversivi propri della sua età si adeguava come se li considerasse conformi a una tradizione ormai obsoleta –, e l’aveva riportata a casa per una lezione di musica i cui echi in quel momento arrivavano fino a lei da una finestra lontana.
Susy era pervenuta a nutrire una profonda gratitudine nei suoi confronti. Se non fosse stato per la bambina, l’orgoglio che provava per l’attività del marito si sarebbe potuta colorare di un vago senso di essere a volte messa in disparte e dimenticata; ma siccome tale attività costituiva il motivo più completo del fatto che si trovassero lì e che lei avesse fatto ciò che aveva fatto, era grata a Clarissa che l’aiutava a sentirsi meno sola. E per converso la bambina rappresentava l’altra metà della sua giustificazione: era per lei, allo stesso titolo che per suo marito, che aveva tenuto a freno la lingua, rimanendo a Venezia e scappando furtivamente di casa una volta alla settimana per imbucare una delle lettere numerate di Ellie. Una sola giornata vissuta a palazzo Vanderlyn era bastata a convincerla dell’impossibilità di abbandonare Clarissa. Una lunga esperienza le aveva fatto capire che le residenze più affollate comprendono spesso le nursery più solitarie e che i bambini ricchi sono esposti a mali sconosciuti e a un’infanzia meno vezzeggiata; ma, fino ad allora, ai suoi occhi simili fatti erano semplicemente apparsi come le briciole meno belle del grande e torbido disegno della vita. Ora però si trovava a provare, laddove in precedenza aveva soltanto giudicato: la sua precaria felicità ora le appariva carica di un fardello di pietà mai conosciuto prima.
Stava dunque pensando a simili cose, oltre che all’approssimarsi della data del ritorno di Ellie Vanderlyn e alle inquisitorie verità che stava raccogliendo per il suo orecchio privato, quando notò una gondola che virava verso i gradini sottostanti al balcone. Si sporse e vide un signore alto, in abiti trasandati, che, alzando gli occhi a guardarla mentre smontava, agitava un logoro panama a rivolgerle un saluto gioioso.
« Streffy! » esclamò con uguale gioia, ed era già a metà della scala quando lui, salendo seguito dal gondoliere carico di bagagli, la raggiunse.
« Non c’è nessun problema, spero… Ellie ha detto che potevo senz’altro venire », le spiegò con voce acuta e allegra. « E naturalmente mi pertocca la solita stanza verde con i pappagalli sulla tappezzeria, perché i mobili sono già irrimediabilmente macchiati del mio shampoo. »
Susy lo guardava felice, con il profondo senso di piacere che la presenza di Streffy produceva sempre sui suoi amici. Non c’era nessuno al mondo, convenivano tutti, che fosse brutto e trasandato ma al tempo stesso delizioso anche soltanto la metà di quanto lo fosse lui; nessuno che combinasse un così esplicito egoismo con un tanto imperturbabile buon umore; nessuno che sapesse così bene convincere l’interlocutore che si stava comportando in maniera squisita con lui, mentre era esattamente il contrario.
In aggiunta a tutti questi seducenti tratti, di cui nessuno apprezzava il valore più a fondo di colui che li possedeva, Strefford aveva per Susy un’altra attrattiva, di cui era probabilmente ignaro. Ovvero quella di essere l’unica presenza radicata e stabile tra le figure fluttuanti ed evanescenti che componevano il suo mondo. Susy era sempre vissuta tra gente così priva di un’identità nazionale che i personaggi presi per russi di norma si rivelavano americani, e quelli che si sarebbe teso ad ascrivere a New York si scopriva invece che erano originari di Roma o di Bucarest.
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