Digli solamente questo.

E, dalla bocca del re d’Inghilterra,
aggiungi che nessun prete italiano
potrà riscuotere balzelli e decime
nei territori di nostro dominio;
e come noi, soggetti solo a Dio,
siamo qui la suprema autorità,
così intendiamo solo a Lui rispondere
del potere laddove noi regniamo,
senza assistenza di mano mortale.
Questo riporta al papa, ogni riguardo
messo da parte per la sua persona
e l’usurpata sua autorità.

FILIPPO - Fratello Inghilterra, tu bestemmi

a parlare così.

GIOVANNI - Fratello Francia,

se tu e tutti gli altri re cristiani
vi lasciate guidar sì rozzamente
da questo prete subdolo e intrigante
per il timore d’un suo anatema
che il denaro può sempre ricomprare,
ed acquistate, a suon di vil moneta,
polvere, scorie, corrotte indulgenze
da un personaggio che con quelle vendite
vende un perdono che vien sol da lui;
se tu e tutti gli altri re cristiani,
sì grossolanamente infinocchiati
intrattenete col vostro denaro
questa stregoneria da gabbamondo,
io, per quanto è per me,
da oggi in poi, da solo, io, Giovanni,
mi metto contro il papa,
e terrò miei nemici i suoi amici.

PANDOLFO - E allora dal legittimo potere

di cui sono investito, ti dichiaro
maledetto e colpito da scomunica;
e benedetto sia da oggi in poi
chiunque neghi propria sudditanza
ad un eretico; e meritoria,
canonizzata e venerata santa,
sarà la mano che in qualsiasi modo,
anche il più subdolo,
sopprimerà l’obbrobriosa tua vita.

COSTANZA - Ah, sia legittimo anche per me

associarmi con Roma a maledire!
E tu rispondi alto il tuo ”amen
alle violente mie maledizioni,
buon padre cardinale, ché nessuno
che non abbia sofferto i torti miei
ha lingua ch’abbia pari buon diritto
a maledirlo con tutta la forza.

PANDOLFO - Signora, per la mia maledizione

c’è la legge canonica e un mandato.

COSTANZA - E la legge c’è anche per la mia.

Quando la legge non rende giustizia,
diviene giusto che la stessa legge
non impedisca che maledica.
La legge non può fare che a mio figlio
sia reso il regno che per legge è suo,
perché colui che quel regno detiene,
detiene anche la legge; e se la legge
è essa stessa perfetta ingiustizia,
con qual diritto può essa impedire
alla mia lingua la maledizione?

PANDOLFO - Re Filippo di Francia,

sotto minaccia anche tu di anatema,
ritira la tua mano
dalla stretta di questo arcieretico
e leva la potenza della Francia
sul suo capo, qualora egli persista
a non voler sottomettersi a Roma.

ELEONORA - (A Filippo)

Impallidisci, Francia?…
Non ritrarre la mano.

COSTANZA - Attento, Satana,

che il re di Francia non abbia a pentirsi,
e che, staccandosi quelle due mani,
l’inferno perda un’anima.

AUSTRIA - Re Filippo, ascoltate il cardinale.


BASTARDO - E appiccate una pelle di vitello

su quelle spalle sue di rinnegato!

AUSTRIA - Eh, buon per te, villano,

che mi tocca intascare queste offese
perché…

BASTARDO - … Hai braghe larghe a sufficienza.


GIOVANNI - Filippo, che rispondi al cardinale?


COSTANZA - Che altro può rispondere,

se non dargli ragione?

DELFINO - Attento bene,

padre, perché le sole alternative
sono una grave condanna da Roma,
o la perdita - certo meno grave -
dell’amicizia del re d’Inghilterra.
Conviene scegliere il male minore.

BIANCA - E cioè la scomunica di Roma.


COSTANZA - No, Luigi, sta’ saldo!

È il diavolo in persona che ti tenta
nelle false sembianze d’una sposa
che s’è appena spogliata del suo velo.

BIANCA - (A Filippo)

Lady Costanza vi parla così
non mossa da lealtà verso di voi,
ma dalle sue miserie.

COSTANZA - Oh, se davvero tu le conoscessi

le mie miserie, che son solo vive
perché è morta negli altri la lealtà,
dovresti allora ammettere in principio
che la lealtà ritornerebbe a vivere
quando fossero morte le miserie.
Oh, calpestate allor le mie miserie,
e la lealtà sarà vivificata;
tenete in vita queste mie miserie,
e la lealtà ne resterà schiacciata.

GIOVANNI - Re Filippo è turbato, non risponde.


COSTANZA - (A Filippo)

Oh, stàccati da lui. Rispondi bene
al cardinale.

AUSTRIA - Avanti, Re Filippo,

non rimanete sospeso nel dubbio.

BASTARDO - (All’Austria)

Sospesa, tu, devi solo tenere
sulle spalle una pelle di vitello,
dolcissimo pagliaccio!

FILIPPO - (Al Cardinale)

Son perplesso, non so che cosa dire.

PANDOLFO - E che dirai, ancora più perplesso,

quando scomunica e maledizione
venissero a pesar sulle tue spalle?

FILIPPO - Padre santo, mettetevi al mio posto,

ditemi che fareste. Questa mano
(Mostrando la destra di Giovanni stretta nella sua)
s’è da poco annodata con la mia
e con esse si sono così uniti
in intima alleanza i nostri cuori
come sposati col solenne rito
d’un sacro voto. Nostro ultimo fiato
profferito con suono di parola
è stato per scambiarci giuramento
di fedeltà, di pace, d’amicizia
e di reciproco sincero affetto
fra i nostri regni e le nostre maestà.
Ancora poco fa, le nostre mani,
prima di questa tregua,
il tempo di lavarle a suggellare
con una loro stretta questo patto,
sa il cielo come fossero imbrattate
e tinte dal pennello del massacro,
là dove la Vendetta dipingeva
il pauroso scontro tra due re
infiammati di furia distruttiva.
E dovrebbero adesso, queste mani,
così da poco terse di quel sangue,
così da poco unite nell’affetto,
così forti nell’odio e nell’amore,
disannodare questa loro stretta
e questo loro patto di amicizia?
Dovremmo noi giocare a lega-e-sciogli,
con la lealtà? Giocar così col cielo?
Ridurci a dei volubili bimbetti
così da sciogliere ancora di nuovo
l’una palma dall’altra,
spergiurare la fedeltà giurata,
far marciare un nemico sanguinario
sopra il letto nuziale d’una pace
che ora ci sorride,
stampare il segno della turbolenza
sulla fronte gentile
d’una vera, genuina lealtà?…
Santo signore, reverendo padre,
fate che questo non abbia a succedere.
Fate sgorgare dalla vostra grazia
un mezzo, un ordine, un’imposizione,
una forma gentile di procedere,
e noi saremo allora ben felici
di compiacervi e di restare amici.

PANDOLFO - Ogni forma è deforme,

ogni ordine è disordine,
se non s’opponga alla vostra amicizia
con l’Inghilterra. Perciò, Francia, all’armi!
Fatti campione della nostra chiesa,
o su di te la chiesa nostra madre
pronuncerà la sua maledizione,
sì, la maledizione d’una madre
contro il figlio ribelle.
E allora sarà meglio per te, Francia,
afferrare un serpente per la lingua,
o un leone infuriato per le zampe,
o una tigre affamata per i denti
che seguitare a tener stretta in pace
nella tua mano quella che ora stringi.

FILIPPO - Posso disannodar da lui la mano,

non da lui la mia fede.

PANDOLFO - Della fede

tu fai così un nemico della fede,
e opponi giuramento a giuramento,
parola data a parola giurata,
come in guerra civile tra di loro.
Ah, fa’ che il voto prima fatto al cielo,
quello d’esser campione della chiesa
prima d’ogni altro sia da te osservato;
ciò ch’hai giurato dopo
fu giurato da te contro te stesso
e puoi esimerti dall’osservarlo,
ché giurar di far male non è male,
se il giurare fu fatto a fin di bene,
ed è somma lealtà non osservarlo,
quando osservarlo porterebbe male.
La maniera migliore
di eseguire un proponimento errato
è errare di nuovo; anche se ciò
può apparire una falsa deviazione,
la falsa direzione in questo modo
diviene dritta via,
la falsità si fa alla falsità
rimedio, come il fuoco
sa raffreddare il fuoco nelle vene
di chi con esso s’è appena scottato.
Mantener fede ai propri giuramenti
è precetto di nostra religione;
ma tu, giurando fede ad Inghilterra,
giurasti contro la tua religione,
e di questo secondo giuramento
fai ora un punto fermo di lealtà
contro quel primo, alla cui verità
esiti adesso a rimaner fedele.
Se giuri lealtà, e non sei certo
di poterti mantenere ad essa fede
per un contrario previo giuramento,
sol giuri per non essere spergiuro.
Se no, che beffa sarebbe giurare!
Ma giurando così,
tu giuri solo d’essere spergiuro
e tanto più in quanto più deciso
a tener fede al primo giuramento.
Pertanto il tuo secondo giuramento,
proprio perché in contrasto con il primo,
è rivolto da te contro te stesso;
talché non potrai far miglior conquista
che armare quelle parti di te stesso
di più costante e più nobile tempra
a combattere contro queste folli,
insensate e perverse suggestioni.
A queste parti di te più sensibili
sono rivolte le nostre preghiere,
se ti vorrai degnare di ascoltarle.
Tieni per certo, se diversamente,
che graverà su di te la scomunica,
pesantemente, e sarà tanto il peso,
che non potrai scrollartelo di dosso
fino a morire di disperazione.

AUSTRIA - Ribellione! Aperta ribellione!


BASTARDO - E come no?! Una pelle di vitello

riuscirà a chiuderti la bocca?

DELFINO - All’armi, all’armi, padre!


BIANCA - (Al Delfino)

All’armi il giorno delle nostre nozze?
All’armi contro il sangue
con il quale ti sei appena unito?
E che! Vogliamo banchettare a nozze
in compagnia di uomini scannati?
Saranno musiche alla nostra pompa
lo stridulo squillare delle trombe,
il grave e cupo rullo dei tamburi,
l’infernale clamor della battaglia?
Ascoltami, marito… ah, questo nome:
“marito” che mi suona sulle labbra
sì nuovo… ed io per esso ti scongiuro,
ecco, in ginocchio:
(Cade in ginocchio)
non scendere in armi
contro mio zio!

COSTANZA - (Inginocchiandosi anch’essa al Delfino)

Ah, su queste ginocchia
incallite dalle genuflessioni,
son io, virtuoso Delfino, a pregarti
di non voler alterar la sentenza
decretata dal cielo!

BIANCA - (Al Delfino)

Ora vedrò se veramente m’ami:
qual motivo può mai valer per te
più del nome di sposa?

COSTANZA - Quello stesso

che dovrebbe valere anche per te:
l’onore. Ah, Luigi, il tuo onore!

DELFINO - (Al padre)

Perché, maestà, restate così freddo
davanti a così gravi decisioni?

PANDOLFO - Lancerò sul suo capo la scomunica.


FILIPPO - Non ce ne avrai bisogno, cardinale.

(A Giovanni, ritirando la mano)
Inghilterra, da te io mi distacco.

(Bianca e Costanza si rialzano)

COSTANZA - Oh, nobile ritorno

d’una maestà che pareva bandita!

ELEONORA - Oh, turpe tradimento

della sleale incostanza francese!

GIOVANNI - Francia, m’ascolta: non passerà un’ora,

che di quest’ora tu dovrai dolerti.

BASTARDO - Se sarà il vecchio Tempo,

questo regolatore d’orologi,
il Tempo, questo calvo sagrestano
a decidere, allora veramente
il re di Francia avrà di che dolersi.

BIANCA - O mio bel giorno, addio!

Il tuo sole tramonterà nel sangue!
Ed io, da quale parte dovrò stare?
Mi ritrovo a metà tra i due eserciti,
come tenuta per mano da entrambi,
e in mezzo al turbine della lor furia,
da entrambi tratta, come dilaniata.
Sposo, non posso pregar che tu vinca;
zio, son costretta a pregar che tu perda;
padre, non posso augurarmi per te
che la fortuna ti sia favorevole;
nonna, non posso voler avverati
i desideri tuoi. Chiunque vinca,
la sicura perdente sarò io.
La mia perdita è dunque assicurata,
già prima che abbia inizio la partita.

DELFINO - Signora, a me, a me sono legate

le tue sorti.

BIANCA - Laddove esse vivranno,

là morrà la mia vita.

GIOVANNI - (Al Bastardo)

Nipote, va’ a radunare la truppa.

(Esce il Bastardo)

Francia, mi brucia in petto tanta collera,
che solo il sangue può spegnere il fuoco
di tanta rabbia, ed un unico sangue,
il più prezioso di tutta la Francia!

FILIPPO - Questa tua rabbia ti brucerà dentro

sì da ridurti in cenere ancor prima
che il nostro sangue abbia spento il tuo fuoco.
Attento a te, piuttosto: sei in pericolo.

GIOVANNI - Non più di chi mi fa questa minaccia.

All’armi, all’armi, via!

(Escono da parti opposte Inglesi e Francesi)



SCENA II - La piana davanti ad Angers

 

Allarmi di guerra. Escursioni di soldati delle due parti.

Entra IL BASTARDO recando, presala pei capelli a mo’ di lanterna, la testa del Duca d’Austria


BASTARDO - Per la mia vita, questo azzuffamento

si fa sempre più caldo!
Par come se per quest’aria attorno
aleggi qualche spirito maligno
che spedisce malanni sulla terra.
Tu, testa d’Austria, mettiti un po’ qua,
che Filippo riprenda un po’ di fiato.

(Posa a terra la testa mozza, e si siede)

Entrano RE GIOVANNI, ARTURO e UBERTO

GIOVANNI - (A Uberto, consegnandogli Arturo)

Prendi in consegna tu questo ragazzo.
Filippo muoviti. Mia madre è sola
sotto la nostra tenda, ed ho paura
che sia stata assalita e catturata.

BASTARDO - Mio signore, l’ho messa in salvo io.

Sua Altezza è al sicuro, non temete.
Ma avanti, mio sovrano,
basterà un ultimo minimo sforzo
per menare a buon fine questa impresa.

(Escono)



SCENA III - La stessa

 

Allarmi. Escursioni. Ritirata.

Rientrano RE GIOVANNI, ELEONORA, ARTURO, IL BASTARDO, UBERTO e nobili inglesi

 

GIOVANNI - (Alla madre)

Si farà dunque così: vostra grazia
resterà in Francia, sotto buona scorta.
(Ad Arturo)
Nipote, su, non esser così triste!
Tua nonna ti vuol bene, e questo zio
ti terrà caro al pari di tuo padre.

ARTURO - Ahimè, mia madre morirà per questo

di crepacuore!

GIOVANNI - (Al Bastardo)

Via, nipote, via,
veloce in Inghilterra avanti a noi;
e, prima che arriviamo,
vedi di poter scuotere ben bene
i ben forniti sacchi degli abati;
e metti in libertà tutti quegli angeli
che vi sono tenuti prigionieri.
I rimpinguati lombi della pace
ora devon nutrire gli affamati.
Usa il nostro mandato
in tutta la sua massima efficacia.

BASTARDO - Non ci sarà campana, libro, cero

che potran trattenermi d’un sol passo
quando l’oro e l’argento
mi daranno il segnale d’avanzata!
Vi lascio, Altezza.
(A Eleonora)
Nonna,
se mi ricorderò d’esser devoto,
pregherò per la vostra salvazione!
Per il momento vi bacio le mani.

ELEONORA - Addio, mio bel nipote.


GIOVANNI - Addio, nipote.


(Esce il Bastardo)

ELEONORA - (Ad Arturo)

Vieni qui, nipotino,
tua nonna deve dirti una parola.

(Lo trae in disparte)

GIOVANNI - Uberto, ascolta. Uberto mio gentile,

noi molto ti dobbiamo.
Uberto, in questo involucro di carne
vive e respira un’anima
che si considera tuo debitore
e intende ripagar la tua affezione
cogli interessi; è vivo nel mio petto
ed affettuosamente carezzato,
mio buono e caro amico, il giuramento
che tu spontaneamente m’hai profferto.
Qua, dammi la tua mano. Avevo in mente
qualcosa che volevo dirti, ma…
ma convien che la dica in miglior tono.
Perdio, Uberto, quasi mi vergogno
ad esprimerti solo a parole
quale grande rispetto ho io per te.

UBERTO - Sono molto obbligato a Vostra altezza.


GIOVANNI - Buon amico, non hai alcun motivo

di dir così, finora; ma l’avrai;
ché mai striscerà il tempo tanto lento
che a me non giunga di farti del bene.
Avevo dunque una cosa da dirti…
ma no, lasciamo stare: il sole è alto
sulla volta del cielo, e il giorno splendido
col suo corteggio di gioie mondane
è troppo pieno d’attrattive e svaghi
perché tu sia proclive ad ascoltarla.
Se la campana della mezzanotte
battesse con la sua lingua metallica
sulla sua bronzea bocca la sua ora
all’assonnato scorrer della notte;
se questo luogo fosse un cimitero
e tu oppresso da mille angherie;
o se t’avesse la malinconia,
quello spirito arcigno, raggrumato
ed ispessito il sangue che altrimenti,
pulsando, va scorrendo per le vene
e fa che in noi il riso, quell’idiota,
s’insedii da padrone sopra gli occhi,
stirando in una inutile gaiezza
le nostre guance, odioso stato d’animo
ai miei propositi; o se vedermi
tu potessi senz’occhi, ed ascoltarmi
senza orecchi, e rispondermi
senza usar la voce, col pensiero,
ma non usando né occhi né orecchi,
né il malefico suon delle parole,
allora sì, e a dispetto del giorno,
dell’impiccione ed occhialuto giorno,
potrei versarti in cuore i miei pensieri.
Ma, oh, non lo farò;
anche se tu, Uberto, mi sei caro,
così come, in coscienza,
io son sicuro d’esser caro a te.

UBERTO - Oh, sì, e tanto che, davanti al cielo,

qualunque cosa voi mi comandaste,
la farei, mi costasse pur la vita!

GIOVANNI - E non lo so che la faresti, Uberto?

Ecco, mio buon Uberto, Uberto, Uberto,
getta un’occhiata sopra quel ragazzo.
(Indica Arturo che sta discosto con Eleonora)
Ti dirò una cosa: quello, amico,
è un serpe che attraversa il mio cammino;
e dovunque io posi questo piede
me lo trovo davanti… Mi capisci?
Tu l’hai in custodia…

UBERTO - E lo custodirò

così ch’egli non possa recar danno
alla Vostra maestà.

GIOVANNI - Morto.


UBERTO - Signore?…


GIOVANNI - Una tomba.


UBERTO - Va bene. Non vivrà.


GIOVANNI - Basta così. Ora vivo contento.

Ti voglio bene, Uberto… Beh, per ora
non ti dirò quel ch’ho in mente per te:
ma tu ricordalo.
(A Eleonora)
Addio, signora.
Manderò quei soldati a vostra altezza.

ELEONORA - E sia con te la mia benedizione.


GIOVANNI - (Ad Arturo)

Per l’Inghilterra, nipotino, va’.
Uberto ti sarà compagno al viaggio,
ti servirà con tutta fedeltà.
(Agli altri)
E noi in marcia, olà!, verso Calais.

(Escono, la regina Eleonora da una parte, con scorta di soldati; tutti gli altri dall’altra parte)



SCENA IV - Il campo francese

 

Entrano RE FILIPPO, il DELFINO LUIGI, il CARDINALE PANDOLFO e altri

 

FILIPPO - Così, da un fragoroso fortunale,

tutta una flotta di vele sconfitta,
sbaragliata, dispersa…

PANDOLFO - Animo, sire,

coraggio: potrà andare ancora bene.

FILIPPO - Che volete che vada bene, ormai,

dopo che abbiam subito un tal disastro?
Non siamo vinti? Angers non è perduta?
Arturo non è forse prigioniero?
Non sono morti molti cari amici?
E il sanguinario Inglese
non è forse tornato in Inghilterra
eludendo, a dispetto della Francia,
qualsiasi tentativo di fermarlo?

DELFINO - E lasciando assai bene presidiato

tutto quello che aveva conquistato.
E tutto fatto con tale sveltezza
sorretta da sì accorta strategia,
da un ordine così bene studiato
in un’operazione sì difficile,
che non se n’ha l’esempio:
chi ha mai letto o udito di un’azione
confrontabile a questa?

FILIPPO - Eh quante lodi!

Potrei pur sopportare
che l’Inghilterra ne possa ricevere,
se si potesse rintracciar per noi
un precedente di pari vergogna.

Entra COSTANZA, discinta e scarmigliata

Ma guardate ora chi arriva!
Un’anima ridotta ad una tomba,
che trattiene lo spirito immortale,
contro sua volontà,
nel chiuso della squallida prigione
di dolorosi sospiri.
(A Costanza)
Signora,
preparatevi a venir via con me.

COSTANZA - Toh, ecco, guardate,

è questo il frutto della vostra pace.

FILIPPO - Non disperatevi, cara signora,

coraggio ancora, nobile Costanza.

COSTANZA - No, spregio ogni consiglio,

ogni riparazione, tranne quella
che a tutti i consigli mette fine,
unico vero conforto, la morte!
O tu, morte, benigna, dolce morte,
tu, profumato lezzo,
tu, salutar marciume,
sorgi dal cavo della notte eterna,
odio e terrore a quelli che stan bene!
Io bacerò l’odiosa tua carcassa
e metterò nelle tue cave occhiaie
i bulbi dei miei occhi; alle mie dita
attorcerò i tuoi vermi come anelli
e chiuderò con nauseabonda polvere
questo varco al respiro,
fino a ridurmi mostruosa carogna
come te. Vieni, mostrami il tuo ghigno,
ed io mi penserò che tu sorrida,
e ti carezzerò come tua sposa.
Oh, vieni, vieni, amore dei negletti!

FILIPPO - Nobile prostrazione! Ma calmatevi.


COSTANZA - Calmarmi? No, fintanto che avrò fiato!

Nella bocca del tuono
vorrei che si trovasse la mia lingua!
Farei scrollare il mondo
con la violenza della mia passione,
e desterei dal sonno quello scheletro
fello che resta sordo
alla flebile voce d’una donna
e sdegna una comune invocazione.

PANDOLFO - È follia, non dolore,

quella che adesso parla in voi, signora.

COSTANZA - Tu non sei santo ministro di Dio

a parlarmi così! Non sono pazza.
Son capelli miei questi che strappo;
il mio nome è Costanza,
sono stata la moglie di Goffredo;
Arturo è figlio mio, ed è perduto!
Pazza… Volesse il cielo che lo fossi!
Potrei dimenticare allor me stessa,
probabilmente… Ah, se lo potessi!
Di qual dolore potrei io liberarmi
dimenticandolo! Insegnami tu
qualche dottrina per divenir pazza,
e sarai fatto santo, cardinale:
ché non essendo la mia mente pazza,
ed io sensibile essendo al dolore,
la parte razionale di me stessa
m’induce fatalmente a ragionare
come sgravarmi di queste mie pene,
e non m’insegna per farlo altro modo
che uccidermi o impiccarmi.
Se invece fossi veramente matta,
potrei dimenticarmi di mio figlio,
oppur pensare pazzamente a lui
come ad un bel pupattolo di pezza…
Non sono pazza; sento troppo bene
nel mio animo tutte, ad una ad una,
le mie sventure, e tutto il loro strazio.

FILIPPO - Rannodatevi almeno quelle trecce.

(Tra sé)
Ah, quanto amore mi pare di scorgere
in quella bionda massa di capelli!
Se per caso vi si posasse sopra
una goccia d’argento,
a quella goccia diecimila fili
s’incollerebbero amichevolmente
a condividerne tutto il dolore,
come amanti fedeli, inseparabili,
stretti tra loro nell’avversità.

COSTANZA - Con voi in Inghilterra, se volete.


FILIPPO - Intanto ravvolgetevi i capelli.


COSTANZA - (Cominciando a raccogliersi la chioma)

Ecco, lo faccio… Ma perché dovrei?
Con violenza li ho sciolti dai lor lacci,
e nel farlo gridavo: “Ah queste mani
liberare potessero mio figlio
come hanno liberato i miei capelli!”.
Ma ora della loro libertà
mi prende invidia, e voglio consegnarli
prigionieri di nuovo ai lor legacci,
come prigione è il povero mio figlio.
V’ho udito dire, padre cardinale,
che noi un giorno rivedremo in cielo
e riconosceremo i nostri cari;
se questo è vero, padre,
io riconoscerò il mio ragazzo,
ché da Caino, primo figlio maschio,
fino a quello che ha dato solo ieri
il primo suo respiro,
mai venne al mondo più bella creatura.
Ora però il verme del dolore
divorerà quel vago mio bocciòlo,
cancellerà la nativa bellezza
dalla sua guancia, ed ei si ridurrà
un vuoto spettro, pallido e smagrito
come per un attacco di quartana,
e così morirà; e quando io,
risorto che sarà, come voi dite,
lo incontrerò nei giardini del cielo,
non potrò riconoscerlo: e così
mai più, mai più potrò io rivedere
il mio Arturo, il dolce mio bambino.

PANDOLFO - Indulgete con troppo accanimento

alla disperazione, mia signora.

COSTANZA - Dice questo chi mai ha avuto un figlio.


PANDOLFO - Voi siete innamorata del dolore,

come di vostro figlio.

COSTANZA - Il dolore riempie in me quel vuoto

ch’egli ha lasciato; giace nel suo letto,
passeggia in su e in giù insieme a me,
assume il suo piacevole sembiante,
mi ripete le stesse sue parole,
mi ricorda i suoi tratti delicati,
riempie con la forma del suo corpo
i suoi abiti vuoti: ho io ragione
allora, o no, d’amare il mio dolore?
Io vado, addio: fosse toccato a voi
di subire una tale privazione
v’avrei saputo dar miglior conforto
che non abbiate dato voi a me.
(Scarmigliandosi di nuovo)
Via, via quest’ordine dalla mia testa,
mentre ho tanto disordine nell’animo!
Oh, Dio Signore!… Arturo, figlio mio,
mia vita, mia letizia, mio alimento,
tutto il mio mondo, tutto il mio conforto
di vedova, sollievo al mio dolore!

(Esce)

FILIPPO - Temo qualche pazzia, le vado dietro.


DELFINO - Non c’è più nulla ormai su questo mondo

che mi rallegri: la vita è stucchevole
come una favola già raccontata
che dia fastidio all’assonnato orecchio
d’uno che si sia mezzo-addormentato:
e la vergogna amara ha reso amaro
anche il dolce sapor della parola
lasciando sol vergogna e amaritudine.

PANDOLFO - Succede, prima della guarigione

da grave malattia, proprio nel tempo
del recupero e del risanamento,
che il male che da noi prende congedo
faccia sentire di più le sue fitte
col mostrar, proprio mentre s’allontana,
più forte il morso della sua malizia.
In sostanza, che avete voi perduto
con la sconfitta di questa giornata?

DELFINO - Tutti i sognati giorni della gloria,

della gioia, della felicità.

PANDOLFO - Questi avreste perduto certamente,

se aveste vinto. No, no, la fortuna
proprio quando vuol far del bene agli uomini
mostra loro il suo sguardo più terribile.
Per contro, è veramente straordinario
pensare quanto ha perso Re Giovanni
in questa ch’egli giudica per lui
una chiara vittoria. Vi addolora
forse che Arturo sia suo prigioniero?

DELFINO - Tanto quanto può rallegrare lui

il tenerlo in sua mano.

PANDOLFO - La vostra mente è, come il vostro sangue,

troppo giovane ancora. Ma ascoltate
quanto con vero spirito profetico
io vi pronostico: basterà il fiato
con cui profferirò le mie parole
a spazzar via ogni grano di polvere,
ogni pagliuzza, ogni minimo intralcio
dal sentiero che vi potrà condurre
al trono d’Inghilterra. Attento bene:
Giovanni tiene prigioniero Arturo
presso di sé, e non è concepibile
che finché nelle vene del ragazzo
continui a giocar calma la vita,
Giovanni, nella sua insicurezza,
possa goder di un’ora, di un minuto,
che dico, d’un sol fiato di riposo.
Uno scettro carpito col sopruso
dev’esser per forza mantenuto
con la violenza con cui fu ottenuto.
E lui, che sta su un trono scivoloso,
non troverà altro modo per tenervisi
che prendersi al più vile degli appigli:
Giovanni, insomma, per restare in piedi,
deve abbattere Arturo. Così è,
e non può esser altro che così.

DELFINO - Ma che guadagno mi può derivare

dalla caduta del giovane Arturo?

PANDOLFO - Il diritto di far valer per voi,

nei diritti di Bianca, vostra moglie,
tutti gli stessi diritti di Arturo.

DELFINO - E perder, come Arturo, vita e tutto!


PANDOLFO - Come siete ancor nuovo ed inesperto

di questo vecchio mondo!
Giovanni trama egli stesso per voi,
cospirano con voi le circostanze,
ché chi intinge la propria sicurezza
su del sangue innocente,
non avrà altro che una sicurezza
malsicura e cruenta. Quest’azione,
così malvagiamente concepita,
gelerà i cuori di tutto il suo popolo
spegnendone ogni buon zelo di sudditi,
ed essi accoglieranno volentieri
ogni buona occasione
per poterlo scalzare dal suo regno:
non vi sarà comune esalazione
nell’aria, non normale accadimento
nel regno, non temperie naturale,
non semplice spirar di venticello,
del quale non saranno tutti pronti
a contestar la naturale origine,
e a dirli strani prodigi, meteore,
presagi, segni, linguaggi del cielo
che chiaramente annuncino vendetta
sul capo di Giovanni.

DELFINO - Sulla vita di Arturo s’asterrà

probabilmente di metter le mani:
gli basterà d’averlo prigioniero
per sentirsi al sicuro.

PANDOLFO - No, signore.

Quando saprà del vostro avvicinarsi,
se Arturo non sia stato già spacciato,
lo sarà allora, e sarà a quel momento
che si rivolterà contro di lui
il cuore del suo popolo
e tutti andranno a baciar sulle labbra
quel subito inatteso cambiamento,
e trarranno argomento di rivolta
e d’ira dalle dita di Giovanni
tinte di rosso sangue.
Mi par già di vederlo scatenarsi
questo grande tumulto popolare!
E, oh!, qual messe di migliori frutti
per voi, che non ve n’abbia già indicati!
In Inghilterra è già il bastardo Faulconbridge
a far man bassa dei beni ecclesiastici,
a sfregio d’ogni carità cristiana.
Se solo dodici Francesi in armi
fossero là, sarebbero già esca
per far passare diecimila Inglesi
al loro fianco, come poca neve,
rotolando, si fa tosto valanga.
Oh, nobile Delfino,
venite, accompagnatemi dal re;
c’è da restar davvero stupefatti
a pensar tutto quel che di vantaggio
si può trarre dal loro malcontento,
in un momento in cui i loro animi
sono all’estremo dell’indignazione!
Avanti, in marcia verso l’Inghilterra!
Penserò io a pungolare il re.

DELFINO - Imperiose ragioni

partoriscono temerarie azioni.
Al vostro “sì”, il re non dirà “no”.
Andiamo pur da lui.

(Escono)

 

ATTO QUARTO

 

SCENA I - Northampton, stanza del castello.(124) Un arazzo su una parete; in mezzo un tavolo, una sedia, un braciere con carboni accesi e dentro due pezzi di ferro arroventati.

 

Entra UBERTO con due SGHERRI

 

UBERTO - Fate arroventar bene questi ferri,

e poi mettetevi dietro l’arazzo.
Tosto ch’io batterò a terra il piede,
uscite fuori e legate alla sedia
il ragazzo che sarà qui con me.

PRIMO SGHERRO - Spero che questa azione

sia coperta da apposito mandato.

UBERTO - Vani scrupoli! Niente da temere.

Badate solo a fare.

(I due sgherri si ritirano dietro l’arazzo.
Uberto s’affaccia al vano d’una porta e chiama)

Giovanotto, venite: ho da parlarvi.

Entra ARTURO

ARTURO - Buongiorno, Uberto.


UBERTO - Buondì, principino.


ARTURO - Un principino che più picciol principe

non può essere, pur avendo titolo
ad essere di più… Vi vedo triste.

UBERTO - M’avrete visto, in effetti, più allegro.


ARTURO - Pietà di Dio! All’infuori di me,

nessuno, credo, dovrebb’esser triste;
ricordo invece che quand’ero in Francia
c’eran giovani della nobiltà
che usavan, sol per essere alla moda,
di darsi tutta un’aria di tristezza
cupa come la notte. Per mio conto,
per come è vero che son battezzato,
se mi trovassi fuori di prigione,
magari solo a pascolare pecore,
sarei felice quanto è lungo il giorno;
e felice sarei anche qui dentro,
non avessi paura che mio zio
ha in animo di farmi ancor più male.
Ha paura di me, ed io di lui.
Ma che colpa ne ho io
se sono nato figlio di Goffredo?
No, non è colpa mia! Avesse il cielo
voluto che nascessi figlio vostro,
Uberto, ché così m’avreste amato!

UBERTO - (Tra sé)

Se mi metto a discorrere con lui,
questo con le sue chiacchiere innocenti
finirà per destar la mia pietà,
che giace nel profondo addormentata:
devo esser deciso e sbrigativo.

ARTURO - Che avete, Uberto, vi sentite male?

Siete pallido, oggi. In verità,
mi piacerebbe foste un po’ malato,
così potrei seder tutta la notte
a vegliarvi; perch’io vi voglio bene,
ve l’assicuro, più che voi a me.

UBERTO - (c.s.)

Le sue parole mi strappano l’anima…
(Forte, porgendogli un foglio)
Leggete qua…
(Mentre Arturo legge, si asciuga gli occhi e sussurra tra sé)
Ah, stupide mie lacrime!
Voi vorreste cacciar fuor della porta
la spietata tortura… Alla svelta, alla svelta,
o succede che la risolutezza
mi cola via tutta quanta dagli occhi
in lacrime di fragile donnetta!
(Forte)
Riuscite a leggere? Non è ben chiaro?

ARTURO - Fin troppo chiaro, per sì nero scopo,

Uberto. Ma davvero
mi dovete bruciare entrambi gli occhi
con quei ferri roventi?

UBERTO - Sì, ragazzo.


ARTURO - E lo farete?


UBERTO - Lo farò, ragazzo.


ARTURO - Ne avete il cuore? Io, vi ricordate,

quella volta che aveste il mal di testa
v’annodai sulla fronte un fazzoletto,
il più bello che avevo, ricamato
per me dall’ago d’una principessa,
e non ve l’ho più mai richiesto indietro;
a mezzanotte v’ero ancora accanto
a tenervi la testa con la mano,
e, come i vigili minuti all’ora,
io ho lenito di continuo a voi
il pesante trascorrere del tempo
domandandovi sempre, di continuo:
“Che vi occorre? Dov’è che vi fa male?
“Che posso fare per farvi piacere?”
Molti figlioli di povera gente
se ne sarebbero rimasti a letto
senza mai dirvi una buona parola;
voi ad assistervi avevate un principe.
Siete padrone certo di pensare
che il mio fosse uno zelo interessato,
e potrete chiamarlo anche furbizia;
e pensatelo pure, se volete.
Se ha decretato il cielo
che mi dobbiate fare questo male,
allora certamente lo dovete.
Ma davvero mi spegnerete gli occhi?
Questi occhi che mai ebbero per voi
uno sguardo cattivo?

UBERTO - L’ho giurato.

E devo farlo, e con ferri roventi.

ARTURO - Ah, nessuno farebbe una tal cosa

se non fossimo in questa età del ferro!
Lo stesso ferro, pur se arroventato,
quando fosse a questi occhi avvicinato,
berrebbe le mie lacrime
e spegnerebbe la sua rabbia ardente
nel succo stesso della mia innocenza;
anzi, dopo di ciò,
se n’andrebbe consunto tutto in ruggine
sol per aver portato in sé quel fuoco
che avrebbe fatto male agli occhi miei.
Siete voi più inflessibile,
più duro di quel ferro temperato?
Fosse venuto un angelo da me
a dirmi che m’avrebbe spento gli occhi
Uberto, non gli avrei certo creduto…
ma non avrei creduto a nessun altro,
all’infuori di Uberto.

UBERTO - (Battendo un piede a terra)

Uscite fuori!

(I due sgherri escono da dietro l’arazzo)

Fate quel che vi ho detto!

(I due s’affaccendano intorno al braciere)

ARTURO - Oh, salvatemi, Uberto! Aiuto, Aiuto!

Questi assassini mi cavano gli occhi
già con quei loro sguardi inferociti!

UBERTO - A me quel ferro, e legatelo lì.

(Indica la sedia e prende dal braciere un ferro arroventato)

ARTURO - (Divincolandosi dai due che vogliono legarlo alla sedia)

Ahimè, ahimè, ma che bisogno c’è
d’essere sì brutali e disumani?
Non farò resistenza,
starò fermo ed inerte come un sasso….
Ma per amor del cielo, Uberto, no,
non fatemi legare! Ahimè, Uberto,
sentitemi, mandate via questi uomini,
ed io mi siederò con voi, tranquillo
come un agnello, non farò una mossa,
non tremerò, non farò più parola;
né guarderò quel ferro con rancore.
Ma questi ceffi mandateli via,
e vi perdonerò ogni tortura
a cui vi piacerà di sottopormi.

UBERTO - (Ai due sgherri)

Andate via, ma non vi allontanate,
e lasciatemi qui solo con lui.

PRIMO SGHERRO - Meno male così: non mi par vero

di star lontano da un’azione simile.

(Escono i due)

ARTURO - Ahimè, che allora ho fatto mandar via

un amico. L’aspetto era feroce,
ma il cuor gentile. Fatelo tornare,
così che possa la sua compassione
destare anche la vostra.

UBERTO - Su, ragazzo,

prepàrati.

ARTURO - Non c’è proprio rimedio?



UBERTO - Nessuno, no. Devi perdere gli occhi.


ARTURO - Oh, santo cielo, Uberto, se nei vostri

aveste solamente un granellino
di polvere, un moschino,
un capello volante, un bruscoletto
che recassero il minimo fastidio
ad un organo tanto delicato,
sì da provar quale grande molestia
può recarvi una cosa anche minuscola,
vi dovreste sentire inorridito
da questa vostra barbara intenzione.

UBERTO - È così che tenete la promessa?

Tenete a freno dunque quella lingua.

ARTURO - Non una ma due lingue

ci vorrebbero, Uberto, ad intercedere
per la salvezza di due occhi, Uberto;
e voi mi dite di frenar la mia:
non me lo dite, Uberto! O, se volete,
tagliatemela pure questa lingua,
se può valere a risparmiarmi gli occhi.
Ah, salvatemi gli occhi,
anche se non dovranno più servirmi
a vedere che voi… Ecco, vedete,
lo strumento s’è ora raffreddato
e non vorrebbe più farmi del male.

UBERTO - Posso di nuovo farlo arroventare,

ragazzo.

ARTURO - No, non lo potrete più;

creato per recar conforto agli uomini,
il fuoco è ora morto di dolore:
per il dolore di dover servire
a certe immeritate crudeltà.
Guardatelo voi stesso:
non c’è malizia in quel carbone ardente;
un alito celeste ne ha soffiato
via per l’aria lo spirito malvagio
e l’ha cosparso di contrite ceneri.

UBERTO - Ma posso ravvivarlo col mio fiato,

ragazzo.

ARTURO - Tutto quello che otterrete,

a far così, è di farlo arrossire,
Uberto, e divampare di vergogna,
per quello che volete fargli fare;
anzi, i tizzoni sprizzeran faville
contro i vostri occhi, simili ad un cane
che costretto per forza ad aggredire
dal suo padrone, gli si volta contro.
Qualunque ordigno vorreste adoprare
per farmi male si rifiuterà
al natural suo modo di servire.
Soltanto voi vi dimostrate privo
della pietà che san perfin mostrare
il ferro e il fuoco, creature crudeli,
notoriamente dagli uomini usate
a compiere le azioni più spietate.

UBERTO - Ebbene vedi, vivi… gli occhi tuoi

io non li toccherò; non lo farò,
nemmeno al prezzo di tutti i tesori
che sono posseduti da tuo zio;
nonostante abbia fatto giuramento,
ragazzo, e fossi proprio intenzionato
a bruciarli con questi stessi ferri,

ARTURO - Oh, adesso siete Uberto!

Fino ad ora eravate proprio un altro.

UBERTO - Basta, non più parole. Addio, ragazzo.

Vostro zio vi dovrà credere morto.
Riferirò fandonie
a quei cagnacci-spia che son di là.
Tu, gentile ragazzo,
dormi tranquillo e non aver paura,
ché Uberto non ti farà mai del male
per tutte le ricchezze della terra.

ARTURO - Oh, santo cielo, ti ringrazio, Uberto!


UBERTO - Silenzio ora, non più.