Venite dentro
di nascosto. Mi son messo per te,
ragazzo, in un pericolo mortale.
(Escono)
SCENA II - Inghilterra, la sala del trono nel palazzo di Re Giovanni.
Fanfara. Entrano RE GIOVANNI, PEMBROKE, SALISBURY e altri nobili che non parlano.
GIOVANNI - (Andando a sedersi sul trono)
Eccoci qui insediati un’altra volta,
eccoci un’altra volta incoronati,
e, spero, da lieti occhi riguardati.
PEMBROKE - Quest‘“altra volta”, è stata, in verità,
salvo che sia piaciuto a vostra altezza,
una volta di troppo. Incoronato
l’eravate già stato, e mai dal capo
quell’alta dignità vi fu strappata;
né mai la lealtà dei vostri sudditi
si macchiò di rivolta; e il vostro regno
mai fu turbato da più fresche attese
di cambiamenti o di miglior governo.
SALISBURY - Perciò questo voler ora addossarvi
una seconda epifania regale,
questo voler coprire d’ornamenti
un titolo che n’era già sì ricco,
come a voler dorare l’oro fino
o a voler tingere di bianco il giglio.
o spruzzare profumo sulla viola,
o levigare una lastra di ghiaccio,
o aggiungere un colore nuovo all’iride,
o guarnire col lume di candela
il fulgidissimo occhio del cielo,
è vano spreco e ridicolo eccesso.
PEMBROKE - Vostro regale gradimento a parte,
cui sarà data comunque osservanza,
questo vostro procedere, signore,
è come mettersi a narrar di nuovo
una storia da tutti risaputa,
che a ripeterla può riuscir noiosa,
specie se raccontata fuori tempo.
SALISBURY - Ne può restar non poco sfigurato
il volto antico e ben identicato
della buona, vetusta consuetudine:
e, come un subito mutar di vento
per una vela, può far cambiar rotta
al corso dei pensieri della gente,
generare paura e confusione
in ogni mente che pensa e ragiona,
indebolire le opinioni salde,
gettar sospetto sulla verità
col fatto di volerla rivestire
d’un così ricco e inusitato manto.
PEMBROKE - Quando buoni artigiani
s’adoperano a fare più che bene
quel che han già fatto bene,
va a finire che con il troppo zelo
recano danno alla lor maestria;
spesse volte peggiora il male fatto
colui che di sua colpa chiede scusa;
così come la toppa su uno strappo
per celarlo, lo rende ancor più brutto
ch’esso non fosse prima del rammendo.
SALISBURY - Ad evitare ciò, prima che voi
veniste nuovamente incoronato,
vi sconsigliammo a farlo;
ma del nostro consiglio a vostra altezza
piacque di non tenere conto alcuno;
e noi ne siamo tutti ben contenti,
coscienti che ogni nostro desiderio
conviene che s’arresti e faccia luogo
al desiderio dell’altezza vostra.
GIOVANNI - Di alcuni dei motivi che m’indussero
a questa duplice incoronazione,
v’ho già detto, e ritengo siano già
forti abbastanza per giustificarla;
altri ve ne dirò, di assai più forti
che non sian deboli le mie paure.
Nel frattempo non esitate a chiedermi
quel che vorreste fosse riformato
perché pensate che non vada bene,
e vedrete con quanto buon volere
mi troverete pronto a dare ascolto
alle vostre richieste e a soddisfarle.
PEMBROKE - Allora, maestà, con tutto il cuore,
facendomi di tutti portavoce
per risuonare a voi l’aspirazione
che tutti hanno nell’animo,
per me, per loro, per voi soprattutto
alla cui sicurezza tutti noi
rivolgiamo le massime premure,
io vi chiedo di liberare Arturo:
la sua relegazione
muove del mormorante malcontento
le labbra a questo tipo di giudizi
pericolosi: “Se ciò che tenete
voi lo tenete di pieno diritto,
- dicono - perché allora la paura,
che sempre s’accompagna con il torto,
dovrebbe indurvi a tener segregato
il vostro ancora tenero parente,
e a tenere i suoi giorni soffocati
nello stato di barbara ignoranza,
con il negare alla sua giovinezza
il prezioso vantaggio
d’un’adeguata buona educazione?”
Ad evitare che argomenti simili
sian pretesto ai nemici del momento
per perseguire i loro tristi scopi,
concedete che nostra prima supplica
da sottoporvi, come ci invitaste,
sia la liberazione del ragazzo,
che non chiediamo per nostro interesse
se non in quanto l’interesse nostro
ch’è strettamente legato col vostro,
considera che sia vostro interesse
che Arturo ottenga la sua libertà.
GIOVANNI - E sia così. Affido a voi la guida
della sua giovinezza.
Entra UBERTO
(A parte, a Uberto)
Ebbene, Uberto, che notizie?
(Uberto s’avvicina al re e parla con lui in disparte)
SALISBURY - (A parte a Pembroke, indicando Uberto)
Quello è l’uomo da lui incaricato
di commettere il sanguinoso fatto.
Ha mostrato il mandato ad un mio amico.
L’immagine di chi s’appresta a compiere
un’obbrobriosa scellerata colpa
gli traspare dall’occhio; il suo aspetto
rivela un forte turbamento interno;
e temo molto che abbia già eseguito
l’incarico che gli è stato affidato.
SALISBURY - Sulla guancia del re il colorito
è un continuo va-e-vieni
tra il suo proposito e la sua coscienza,
simile ad un araldo tra due eserciti
pronti a darsi battaglia.
La sua passione è giunta ad un tal punto,
che scoppierà.
PEMBROKE - E quando scoppierà,
ho gran paura che n’uscirà fuori
l’immonda purulenza della morte
d’un tenero fanciullo.
GIOVANNI - A noi purtroppo, amici, non è dato
frenar la forte mano della morte.
Per viva che possa essere
in me la volontà di assecondarvi,
la vostra supplica è vanificata
dalla morte: costui mi riferisce
che Arturo è deceduto questa notte.
SALISBURY - Avevamo ragione di temere
che la sua malattia fosse incurabile.
PEMBROKE - Avevamo avvertito, in verità,
come fosse vicino alla sua fine,
il ragazzo, ancor prima ch’egli stesso
potesse accorgersi d’esser malato.
Di ciò però qualcuno in terra o in cielo
dovrà rispondere…
GIOVANNI - Ebbene, che c’è?
Perché gettate tutti quegli sguardi
gravidi di sospetto su di me?
Pensate forse tutti che sia io
a reggere la forbice del fato?
O ch’io comandi il polso della vita?
SALISBURY - Questa è sfacciata ciarlataneria!
Ed è vergogna che sia la maestà
a farvi sì grossolano ricorso!
Continuate pure il vostro gioco,
e prosperate. Io vi dico addio!
PEMBROKE - Aspettami, Lord Salisbury,
vengo con te a cercar l’eredità
toccata a questo povero fanciullo:
il minuscolo regno d’una tomba
aperta a forza: quel nobile sangue
cui spettava di posseder da re
quest’isola per quanto essa s’estende,
ora ne occuperà sì e no tre palmi:
malvagità del mondo in cui viviamo!
Ma questa non dev’esser tollerata:
questa, non passerà gran tempo ancora,
dovrà scoppiare, ne sono sicuro,
e con danno e dolore per noi tutti.
(Escono Salisbury e Pembroke)
GIOVANNI - Sono accesi di sdegno…
Son pentito: mai stabil fondamenta
poggiò sul sangue; sempre fu insicura
vita sull’altrui morte costruita.
Entra un MESSO
Hai l’occhio spaventato:
dov’è andato quel sangue che soleva
aver dimora sopra le tue guance?
Un cielo così cupo
non si rischiara senza un temporale.
Avanti, su, rovescia la tua pioggia:
come va tutto in Francia?
MESSO - Va tutto dalla Francia all’Inghilterra.
Mai più potente esercito
fu levato dal corpo d’una terra
per una spedizione oltre confine.
Li ha istruiti l’esempio
della vostra fulminea speditezza:
nel momento che voi dovreste avere
notizia che si stiano preparando,
vi si annuncia che sono già arrivati.
GIOVANNI - Oh, dov’erano i nostri informatori?
A ubriacarsi? Stavano a dormire?
E mia madre, che diavolo faceva,
se in Francia s’è potuto metter su
un tale esercito, senza che nulla
le sia potuto giungere all’orecchio?
MESSO - Il suo orecchio, purtroppo, signore,
è tappato per sempre dalla polvere:
la vostra nobile madre è passata
il primo aprile; e da quanto ho saputo,
tre giorni prima anche Lady Costanza
era morta in un raptus di follia.
Ma sono voci udite casualmente,
se vere o false, non vi saprei dire.
GIOVANNI - Ferma, tremenda sorte, la tua corsa
precipitosa! O allèati con me,
fino a tanto che non avrò placato
gli scontenti miei Pari.
Mia madre morta!… Ahimè, in quale caos
saranno allora i miei domini in Francia!
(Al messo)
Al comando di chi sono venute
queste forze di Francia che tu dici
essere già sbarcate in Inghilterra?
MESSO - Al comando del principe Delfino.
Entrano IL BASTARDO e PIETRO DA POMFRET [142]
GIOVANNI - M’hai messo nella testa un mulinello
con tutte queste tue brutte notizie.
(Al Bastardo)
Beh, che dice la gente
delle faccende che vai disbrigando?
Non tentare di riempirmi il capo
anche tu di sgradevoli notizie,
perché n’è già ripieno fino al colmo.
BASTARDO - Se paventate di ascoltare il peggio,
lasciate pure che vi cada in testa,
senza ascoltarlo.
GIOVANNI - Scusami, nipote:
ero come sommerso, senza fiato,
sotto questa marea; ora respiro,
come tornato nuovamente a galla,
e posso udire qualsivoglia lingua,
e che dica ciascuna quel che vuole.
BASTARDO - A darvi conto di come ho sbrigato
la mia bisogna in mezzo a preti e frati
parleranno le somme che ho raccolto.
Ma nel passare attraverso il paese
per venir qui, la gente che ho incontrato
era in preda a bizzarre fantasie,
posseduta da voci incontrollate,
piena di vani sogni, inconsapevole
essa stessa di cosa paventare,
e tuttavia pervasa da paure.
(Presentando Pomfret)
Ecco, questo è un profeta
che ho portato con me fin qui da Pomfret;
l’ho trovato per strada
che in mezzo a centinaia di persone,
andava loro rapsodiando in rime
che suonavan parecchio rozze e goffe,
che nel prossimo dì dell’Ascensione,
prima di mezzogiorno, Vostra altezza
avrebbe rassegnato la corona.
GIOVANNI - (Al profeta)
Tu, sciocco visionario,
che cos’è che ti fa predire questo?
PROFETA - La mia antiveggenza, monsignore;
essa mi dice che sarà così.
GIOVANNI - Via, via! Uberto, portalo in prigione;
e a mezzogiorno esatto di quel giorno
ch’io, a sentire la sua predizione,
cederò la corona, sia impiccato.
Va’, mettilo al sicuro,
e poi ritorna, ho bisogno di te.
(Esce Uberto con il Profeta)
Nipote mio gentile,
hai udito quel che si dice in giro?
Sai chi è arrivato?
BASTARDO - I Francesi, signore.
È cosa ch’è sulla bocca di tutti.
Ho incontrato lord Bigot e lord Salisbury
con gli occhi rossi come brace ardente,
che andavano insieme ad altri nobili
a ricercare la tomba di Arturo;
il quale, come li ho sentiti dire,
è stato assassinato questa notte.
su vostra personale istigazione
GIOVANNI - Nipote mio, da bravo, va’, raggiungili,
intrùfolati in loro compagnia,
e riconducili davanti a me;
so io il modo di riconquistarmeli.
BASTARDO - Cercherò di trovarli.
GIOVANNI - Sì, ma presto,
quanto più presto puoi.
Ah, non sia mai ch’io abbia a me nemici
anche i miei sudditi, in un momento
in cui le truppe d’un nemico esterno
mi van terrorizzando le città
con un pauroso apparecchio di guerra!
Siimi Mercurio, metti ali ai piedi
e torna, celere come il pensiero.
BASTARDO - Mi darà l’ali la necessità.
(Esce)
GIOVANNI - Parole di animosa nobiltà!
(Al messo)
Tu seguilo, ché forse avrà bisogno
d’un messaggero tra quei pari e me.
Sii tu quello.
MESSO - Con tutto il cuore, sire.
(Esce)
GIOVANNI - Mia madre non c’è più…
Rientra UBERTO
UBERTO - Mio signore, si dice che stanotte
si siano viste in cielo cinque lune,
quattro fisse ed immobili, la quinta
che turbinava in moto prodigioso
intorno all’altre quattro…
GIOVANNI - Cinque lune?
UBERTO - E i vecchi e le nonnette, per le strade,
ne traggono sinistre profezie;
fra tutti loro non si parla d’altro
che della morte del giovane Arturo;
e li si vede scuotere la testa
e bisbigliarsi qualcosa all’orecchio,
e quell’uno che parla
stringe il polso di quello che l’ascolta,
mentre questi fa gesti di paura,
e lo si vede corrugar la fronte,
e ciondolare in qua e in là la testa,
e ruotar le pupille. Ho visto un fabbro
fermarsi, inebetito, ecco, così,
con la mazza a mezz’aria; sull’incudine
si raffreddava il ferro arroventato,
e lui a bersi, lì, a bocca aperta,
le nuove che gli propinava un sarto;
e questo, forbici e misura in mano,
era lì, in ciabatte, per la fretta
infilatesi ai piedi al verso storto,
a raccontare loro che nel Kent
ci son molte migliaia di Francesi
in assetto di guerra, pronti a battersi;
ed un altro artigiano smilzo e sporco,
ecco che arriva e gli tronca il discorso
e vuol parlar della morte Arturo.
GIOVANNI - Perché t’affanni tanto
a caricarmi di queste paure?
Perché insisti a battere così
sulla morte di Arturo? È la tua mano?
che l’ha spento. Io, per volerlo morto
ne avrei avute di ragioni, e forti:
tu, per ucciderlo così, nessuna.
UBERTO - Diamine! Non ne avevo, mio signore?
Non siete stato voi ad incitarmi?
GIOVANNI - È la maledizione dei regnanti
avere al lor servizio dei balordi
che scambiano un semplice parola
gettata là in uno scatto d’ira
per un mandato esplicito
a irrompere nella casa sanguigna
d’una vita; che prendono per legge
una strizzata d’occhio del padrone,
e che presumono d’interpretare
come chi sa qual sovrana minaccia
un suo casuale aggrottare di ciglia,
dovuto più ad un momentaneo cruccio
che ad un determinato suo proposito.
UBERTO - Ecco il vostro mandato,
con vostra firma e con real sigillo.
GIOVANNI - Oh, quando verrà l’ora
che si dovrà saldar l’ultimo conto
fra cielo e terra, allora questa firma
e sigillo saranno testimoni
contro di noi per la condanna eterna!
Quante volte la vista di un ordigno
per sua natura inteso a fare il male
basta da sola a farci fare il male!
Se non avessi avuto accanto a me
te, che sei ben marchiato di natura
e chiarissimamente designato
a commettere azioni abominevoli,
l’idea di consumar questo assassinio
non mi sarebbe sorta nella mente;
ma la vista del tuo sinistro aspetto
m’ha suggerito essere tu l’uomo
adatto ad ogni sanguinaria impresa,
malleabile e pronto ad ogni rischio,
e bastò che accennassi vagamente
alla morte d’Arturo, perché tu,
per guadagnarti le grazie d’un re,
non ti facessi il pur minimo scrupolo
di sopprimere un principe.
UBERTO - Signore….
GIOVANNI - Ma sì, sol che tu avessi scosso il capo,
o avessi appena accennato a interrompermi
mentr’io con un parlare un po’ coperto
ti venivo esponendo il mio proposito,
o sol che tu m’avessi pur rivolto
un’occhiata dubbiosa, quasi a chiedermi
di parlarti più esplicito, a qual punto
m’avresti ammutolito di vergogna
facendomi interrompere il discorso:
e allora dalle tue esitazioni
sarebbero ben nate anche le mie.
Tu da quei segni, invece, hai ritenuto
di capire l’antifona, ed a segni
sei entrato in contatto col delitto.
Sì, senza un attimo d’esitazione
hai fatto che il tuo cuore acconsentisse
e la tua rude mano s’inducesse
a compier quell’azione
che poco prima le nostre due lingue
avevan ritenuto vile ed infame
perfino di chiamare col suo nome.
Via da me, e non farti più vedere!
I miei baroni adesso m’abbandonano,
e si sfida la mia autorità
fino alle porte stesse del mio regno
anche con schiere di nemici esterni,
mentre all’interno del mio stesso corpo,
questo reame che ha per confini
il mio sangue e il mio alito vitale,
regnano ostilità e civil conflitto
tra la coscienza e la morte di Arturo.
UBERTO - Contro vostri nemici esterni armatevi,
perché tra i vostri interni,
ossia tra voi e la vostra coscienza,
metterò pace io: Arturo è vivo.
Questa mia mano è vergine e innocente,
mai si macchiò del vermiglio del sangue,
né mai è ancora entrato in questo petto
l’orrendo impulso d’un’idea omicida;
e voi, parlando prima del mio aspetto,
avete calunniato la natura;
ché, per rude che possa esso apparire,
ricopre un animo troppo sensibile
perché s’induca a farsi macellaio
d’un fanciullo innocente.
GIOVANNI - Arturo vive?…. Oh allora, corri, Uberto,
corri, dai miei baroni, corri, corri!
Getta questa notizia
sul fuoco della lor furiosa collera,
e riconducili da me ammansiti,
restituiti alla loro obbedienza.
Perdonami per quello che poc’anzi
m’ha fatto dire il mio stato nervoso
sul tuo aspetto: m’accecava l’ira,
e gli occhi della mente
pieni di crude immagini di sangue
t’han visto più sinistro che non sei.
No, non rispondermi, non dir più niente:
pensa solo ora a ricondurmi qui
nella mia stanza gli infuriati Pari,
al più presto che puoi.
Già ti trattengo troppo col pregarti;
sii tanto più veloce.
(Escono)
SCENA III - Davanti al castello di Northumberland
Sugli spalti del castello appare ARTURO
ARTURO - Il muro è alto… ma mi butterò:
e tu, suolo gentile,
abbi pietà di me, non farmi male!
Qui son pochi a conoscermi,
o nessuno, e seppure ce ne fossero,
questo travestimento mio da mozzo
mi fa irriconoscibile da tutti.
Ho paura… ma mi ci proverò.
Se arrivo giù senza rompermi l’ossa,
saprò trovare poi mille maniere
per dileguarmi; ma ad ogni buon conto,
meglio morire nel tentar la fuga,
che aspettare la morte in questo carcere.
(Si getta nel vuoto, e resta accasciato a terra)
Oh, me! Lo spirito di zio Giovanni
sta dentro a queste pietre!….
O cielo, prenditi tu la mia anima,
e serbi l’Inghilterra le mie ossa!
(Muore)
Entrano i conti di PEMBROKE e SALISBURY e lord BIGOT.
Salisbury ha in mano una lettera.
SALISBURY - Signori, io vado a Bury Sant’Edmondo
ad incontrarlo. È la nostra salvezza,
e ci conviene accoglier di buon grado
questa gentile offerta
in un’ora sì piena di pericoli.
PEMBROKE - Chi è venuto latore
di questa lettera del Cardinale?
SALISBURY - Il conte di Melun,
un nobile di Francia: il suo colloquio
sul favorevole atteggiamento
verso di noi del principe Delfino
m’ha detto assai di più
di quanto contenuto in queste righe.
BIGOT - Partiremo domani.
SALISBURY - Meglio subito,
perché per arrivare fin laggiù
ci son due buone giornate di viaggio.
Entra il BASTARDO
BASTARDO - Bene incontrati una seconda volta,
oggi, adirati nobili signori!
Il re vi manda a dire, per mio mezzo,
che vi desidera subito a corte.
SALISBURY - Il re di noi s’è voluto spogliare,
e noi siamo tutt’altro che disposti
a foderargli il frusto e sporco manto
con la nostra illibata dignità,
e tanto meno a seguire i suoi passi
che lasciano, dovunque posi il piede,
orme di sangue. Tornate da lui,
e diteglielo. Conosciamo il peggio.
BASTARDO - Qualunque cosa possiate conoscere,
penso, comunque, che sarebbe meglio
che usiate modi meno sconvenevoli.
SALISBURY - A parlare per noi in questo modo
non son le buone regole civili,
ma l’angoscia che tutti abbiamo dentro.
BASTARDO - Non c’è nessun motivo d’angosciarvi;
c’è invece buon motivo, salvognuno,
che adopriate maniere più civili.
PEMBROKE - Eh, mio caro signore,
anche lo sdegno vuole i suoi diritti!
BASTARDO - Sì, quello di far danno a chi lo nutre.
SALISBURY - (Additando a Pembroke e Bigot il castello)
Qui è la prigione.
(Vede il corpo di Arturo a terra)
Ma che c’è lì in terra?…
PEMBROKE - (Avvicinandosi al cadavere e riconoscendolo)
Oh, morte, come sei resa superba
da questa pura e regale bellezza!
La terra non ha un buco
in cui celare quest’orrendo crimine!
SALISBURY - L’assassinio come se avesse in odio
ciò ch’esso stesso ha fatto,
l’ha lasciato a giacer così per terra,
alla vista di tutti,
così da provocare alla vendetta.
BIGOT - O anche, dopo avere condannato
questa beltà alla tomba,
s’è accorto che la sua regalità
era troppo preziosa
per esser chiusa in una vile fossa.
SALISBURY - Sir Riccardo, che dite?
Avete visto, o letto, o udito mai,
potreste mai pensare e creder vero
quello che giace sotto gli occhi vostri?
Potrebbe immaginarlo mente umana,
senza questa palpabile evidenza?
Questo è l’apice, il culmine, la cresta,
anzi, di più, la cresta della cresta
dell’elmo del delitto:
la più cruda, cruenta nefandezza,
la più selvaggia, barbara ferocia,
il più vile assassinio
che mai la collera dall’occhio bieco
o la rabbia dall’impietrito sguardo
abbian potuto presentare al pianto
dell’umana pietà.
PEMBROKE - Tutti i delitti commessi in passato
sono niente se confrontati a questo;
questo, straordinario e ineguagliabile
com’è, darà color di santità e purezza
ad ogni altro peccato che in futuro
mente umana potrà mai concepire;
ed ogni azione di sangue e di morte
apparirà nient’altro che uno scherzo
al confronto di questa orrenda vista.
BASTARDO - È una dannata sanguinaria impresa,
opera scempia d’una man crudele,
sempre che mano d’uomo l’abbia fatta.
SALISBURY - Sempre che mano d’uomo l’abbia fatta?
Tutti avevamo già qualche barlume
che sarebbe accaduto! Questa è l’opera
della mano d’Uberto, scellerata,
su disegno e proposito del re:
della cui obbedienza, d’ora in poi,
ordino alla mia anima il rifiuto,
inginocchiato avanti a questi resti
d’una tenera vita, ed alzo al cielo,
come fumo di sacro incenso, un voto,
davanti a questa perfezione esanime:
il sacro voto di non più gustare
i piaceri mondani,
di non concedermi un solo istante
alle corrotte voluttà dei sensi,
o abbandonarmi agli agi ed all’inerzia
fintanto ch’io non abbia reso gloria
a questa mano con l’averle offerto
il sacrosanto onor della vendetta.
BIGOT e PEMBROKE - Le nostre anime con un ”amèn”
confermano codeste tue parole.
Entra UBERTO
UBERTO - Signori, ho corso a perdita di fiato
per rintracciarvi tutti. Arturo è vivo!
Il re vi manda a dire che v’aspetta.
SALISBURY - Oh, che sfrontato, che non arrossisce
manco avanti alla morte!
Esecrato assassino, via di qua!
UBERTO - Non sono un assassino.
SALISBURY - (Traendo la spada)
Devo rubare il mestiere al carnefice?
BASTARDO - Troppo bella e lucente è quella spada,
signore, riponetela nel fodero.
SALISBURY - (Assalendo Uberto)
Non senza averla prima inguainata
nella pelle d’un assassino!
UBERTO - (Traendo anch’egli la spada)
Indietro!
State indietro, Lord Salisbury, dico!
Per il cielo, la mia spada è affilata
quanto la vostra. Non vorrei, signore,
che vi dimentichiate di voi stesso
e vi metteste al rischio
di forzarmi a legittima difesa;
perché di fronte alla vostra sfuriata
potrei dimenticare il vostro merito,
la vostra dignità, il vostro rango.
BIGOT - Via di qua, letamaio!
E che! Osi sfidare un gentiluomo?
UBERTO - Per la mia vita, no; ma questa vita
mia innocente son pronto a difendere
contro un imperatore.
SALISBURY - Tu sei un assassino.
UBERTO - Non lo sono,
ma non forzatemi a diventarlo.
La lingua di chi dice questo falso,
sa di non dire il vero,
e chi non dice il vero è mentitore.
PEMBROKE - Fatelo a pezzi.
BASTARDO - State calmi, dico!
SALISBURY - Tu, Faulconbridge, mettiti da parte,
se non vuoi che t’infilzo.
BASTARDO - Faresti meglio, in questo caso, Sàlisbury,
a pretendere d’infilzare il diavolo.
Se solo ardisci di guardarmi storto,
o di muovere un piede, o farmi offesa
con la foga del tuo temperamento,
ti stendo morto. Metti via la spada,
o ch’io ti concio, te e il tuo spiedone
così da farti credere che il diavolo
è veramente uscito dall’inferno.
BIGOT - Ma che vuoi fare, illustre Faulconbridge,
secondare un furfante e un assassino?
UBERTO - Non sono né furfante né assassino,
Lord Bigot.
BIGOT - Chi ha ucciso allora il principe?
UBERTO - Io l’ho lasciato, or è meno di un’ora,
ch’era vivo e in salute;
io l’onoravo, e gli volevo bene,
e piangerò per tutta la mia vita
la perdita di quella sua, sì dolce.
(Si asciuga le lacrime)
SALISBURY - Non credete all’ipocrite sue lacrime.
Di tali umori non fu mai sprovvisto
il tradimento; e lui che sa il mestiere,
sa come far passare quelle lacrime
per fiumi di rimorso o d’innocenza.
Andiamo via, venite via con me
tutti voi le cui anime aborriscono
il sozzo tanfo d’uno scannatoio:
mi sento soffocare
da questa pestilenza di peccato.
BIGOT - Sì, via: a Sant’Edmondo dal Delfino.
PEMBROKE - (Al Bastardo)
E dite al re che può cercarci là.
(Escono Salisbury, Pembroke e Bigot)
BASTARDO - Che mondo!… Ma, Uberto, veramente
non sapevi di questo bel lavoro?
Se davvero quest’opera di morte
sei stato tu a commetterla,
sarai dannato al di là dei confini
dell’infinita Dio misericordia.
UBERTO - Signore, se soltanto mi ascoltaste…
BASTARDO - Anzi, sai che ti dico?
Che sei una dannata anima nera
che più nera non c’è: sarai dannato
più profondo del Principe Lucifero;
più brutto diavolo di te all’inferno
non c’è se tu sei stato il suo assassino.
UBERTO - Sulla mia anima…
BASTARDO - Se avessi tu
sol consentito a un atto sì crudele,
non ti resta che la disperazione;
e, se avessi bisogno d’una corda,
basterà il filo d’una ragnatela
a strangolarti, basterà una canna
a servirti da palo dove appenderti,
basterà poca acqua in un cucchiaio
- e sarà tanta come il grande oceano -,
per affogare un tristo come te.
Di te sospetto fortemente, Uberto.
UBERTO - Se ho agito, o solo consentito,
o soltanto sfiorato col pensiero
di spegnere quell’alito soave
ch’era racchiuso in quella bella argilla,
per me non abbia sufficienti pene
l’inferno. L’ho lasciato ch’era vivo.
BASTARDO - Orvia, prendilo su, tra le tue braccia.
Mi sento tutto come frastornato
come uno che non trova più la strada
tra le spine e le trappole del mondo.
Vedi ora tu con che facilità
ti tieni in braccio tutta l’Inghilterra!
Da questa spoglia di regalità
vita, giustizia e fedeltà di sudditi
di questo regno son volati al cielo;
più non rimane adesso all’Inghilterra
che dividersi a morsi ed a strattoni
l’incustodita eredità d’un regno
che fu già fiero e florido;
ed a contendersi già sin da ora
l’osso spolpato della maestà
la canea della guerra drizza il pelo
rabbiosa e va ringhiando
contro il dolce sorriso della pace;
nemici esterni e scontenti di casa
s’uniscon ora in una sola schiera;
e sovra tutti incombe, come un corvo
sovra una bestia ch’è ferita a morte,
il totale sconquasso e la rovina,
in attesa dell’imminente crollo
d’un usurpato trono. E fortunato
chi, protetto da un saio o da un cordiglio,
può stornare da sé questa tempesta.
Porta via il ragazzo
e seguimi al più presto; andrò dal re.
Ci sono mille affari sottomano
e il cielo stesso guarda di lassù
con aggrottato ciglio questa terra.
(Escono)
ATTO QUINTO
SCENA I - Inghilterra, il palazzo di Re Giovanni.
Entrano RE GIOVANNI, IL CARDINALE PANDOLFO e nobili
GIOVANNI - (Porgendo al cardinale la corona)
Così rassegno nelle vostre mani
il cerchio della mia sovranità.
PANDOLFO - (Rendendogli la corona)
E da queste mie mani riprendetela,
a significazione che dal papa
voi derivate la sovranità
e la vostra regale autorità.
GIOVANNI - Ora a voi d’osservare fedeltà
alla vostra parola di prelato:
recarvi di persona dai Francesi,
adoperare tutta l’influenza
che vi deriva da Sua Santità
per arrestare la loro avanzata
prima che tutto il paese s’infiammi.
Le irrequiete contee son in rivolta,
il popolo recalcitra a obbedirmi,
giurando fedeltà e un ben dell’anima
a estraneo sangue, a straniera maestà.
Soltanto voi potete, Cardinale,
porre un argine a questa inondazione
di sregolati umori; e senza indugio,
perché la situazione è così grave
da richiedere un subito rimedio,
o seguiranno effetti irreparabili.
PANDOLFO - Così come il mio soffio ha suscitato
lo scatenarsi di questa tempesta,
a causa della vostra ostinazione
contro il papa, sarà or la mia lingua
- poiché siete un gentile convertito -
a sedar questo turbine di guerra
e riportare la bella stagione
su questo vostro procelloso regno.
E dunque in questo dì dell’Ascensione
(ricordatela bene questa data),
io, dopo aver raccolto il vostro voto
di rinnovata obbedienza al papa,
mi reco dai Francesi
ad ottener che depongano l’armi.
(Esce)
GIOVANNI - È questo il dì dell’Ascensione? È oggi?
Non mi predisse forse quel profeta
che il dì dell’Ascensione, a mezzogiorno,
io avrei rinunciato alla corona?
È così ho fatto; non perché costretto,
però, come pensavo, se Dio vuole,
ma per spontanea mia volontà.
Entra il BASTARDO
BASTARDO - Il Kent s’è arreso tutto; solo a Dover
il castello fa ancora resistenza;
Londra ha accolto il Delfino e le sue truppe
come ospiti graditi; i vostri nobili,
rimasti sordi alla vostra chiamata,
sono andati ad offrirgli i lor servigi;
e un generale selvaggio sgomento
fa disperdere ormai di qua e di là
i pochi vostri malsicuri amici.
GIOVANNI - I miei baroni han dunque rifiutato
di ritornar da me,
all’annuncio che Arturo è ancora vivo?
BASTARDO - L’hanno trovato morto, proprio loro:
il suo corpo gettato per la strada
come uno scrigno vuoto dal cui seno
fosse stato da maledetta mano
trafugato il gioiello della vita.
GIOVANNI - E quel dannato furfante di Uberto,
m’aveva assicurato ch’era vivo!
BASTARDO - E tale era per lui, sulla mia anima,
per quanto ne potesse egli sapere.
Ma perché vi avvilite?
Perché fate quell’aria così triste?
Siate grande all’azione
come lo siete stato nel pensiero,
che non si mostri agli occhi della gente
che paura e scorato smarrimento
governino lo sguardo d’un sovrano.
Siate duro, come son duri i tempi,
fuoco col fuoco, minaccia a minaccia,
ed affrontate l’accigliato volto
dell’orrore smargiasso; in questo modo
gli occhi degli inferiori che dai grandi
prendono esempio ai lor comportamenti,
col vostro esempio si faranno grandi
e sapranno anche loro rivestirsi
d’uno spirito indomito e deciso.
Animo, dunque; e sappiate rifulgere
come il dio della guerra quando è sceso
ad adornare della sua presenza
il campo di battaglia: fronte altera
e negli occhi certezza di vittoria!
E che! Verranno a scovare il leone
nella sua tana, e creder, proprio là
di spaventarlo, di farlo tremare?
Non sia mai detto! Siate voi per primo
ad uscir fuori in cerca della preda,
andate incontro ai guai
ben a distanza dalle vostre porte,
e correte voi stesso ad artigliarli
prima che vi si faccian troppo sotto.
GIOVANNI - È stato qui il legato del papa:
con lui mi sono rappacificato
felicemente; ed egli m’ha promesso
che avrebbe fatto liberare il campo
dalle truppe guidate dal Delfino.
BASTARDO - Oh, ingloriosa alleanza!
E noi dovremmo, sulla nostra terra,
offrir cavalleresche condizioni,
scendere ad umilianti compromessi,
a segreti maneggi, a parlamenti,
alla ricerca d’una vile tregua
con l’invasore in armi?
E sopportare che uno sbarbatello,
un damerino tutto sete e sbuffi
venga sui nostri campi a minacciare
e a fare il suo noviziato di sangue
in una terra di esperti guerrieri,
sfottendo l’aria che noi respiriamo
col pigro svolazzar dei suoi colori,
senza trovar nessuno che lo fermi?
Ohibò, corriamo all’armi, mio sovrano!
È assai probabile che il Cardinale
non riesca a comporre questa pace;
e se pur riuscisse nell’intento,
si dica almeno che ci avevan visti
ben decisi a difenderci.
GIOVANNI - Va bene.
Disponi tu il da farsi, assumi tu
tutte le iniziative del momento.
BASTARDO - Avanti, allora, con tutto coraggio!
Son sicuro, comunque,
che il nostro esercito può confrontarsi
bene con un nemico ancor più forte.
(Escono)
SCENA II - Il campo del Delfino di Francia davanti a Sant’Edmondo
Entrano in armi il DELFINO, MELUN, SALISBURY, PEMBROKE, BIGOT e altri
DELFINO - (Porgendo un foglio a Melun)
Ecco, Melun, fate fare una copia
e custoditela a nostra memoria:
l’originale sia restituito
a questi nobili signori inglesi,
così che avendo messo il nostro accordo
nero su bianco, tanto noi che loro
potremo, rileggendo queste note,
ricordarci di quanto abbiam giurato
e mantenere ad esso salda e ferma
la nostra fedeltà.
SALISBURY - Da parte nostra,
non ci sarà chi mai possa violarlo;
ciò nondimeno, nobile Delfino,
anche se tutti noi abbiam giurato
volontaria adesione e non forzata
a questa vostra impresa,
tuttavia, principe, non è un piacere
per me, credetemi, che ad una piaga
come quella che affligge il nostro tempo,
si debba ricercare un cataplasma
in una deprecabile rivolta,
e si debba curare una cancrena
aprendo altre ferite.
Oh, sapeste come mi pesa l’anima
esser costretto a trarre questo ferro
per fabbricare vedove!
E questo là, dove il nome di Salisbury
gridano un’onorevole riscossa
al par d’un’onorevole difesa.
Ma i tempi sono ormai così corrotti,
che per ridar salute e integrità
alla giustizia non resta altra via
che porre mano alla dura ingiustizia
e farci correi di aberranti torti.
Non è infatti un peccato,
o miei affranti amici, per noi qui,
di quest’isola figli e creature,
esser nati per esser spettatori
d’un’ora sconsolata come questa,
che ci vede, seguendo uno straniero,
marciare sopra il suo nobile petto,
e ingrossare le file del nemico?
Ah, scusate, ho bisogno di appartarmi,
mi vien da piangere sopra la macchia
di questo ignominioso imperativo
onde siamo costretti a render grazia
alla gente d’una lontana terra,
al seguito di sconosciute insegne!
E proprio qui?… O patria,
se tu potessi trasferirti altrove!
Potessero le braccia di Nettuno
che tutt’intorno ti fanno cintura
strapparti alla coscienza di te stessa
ed ormeggiarti ad un lido lontano
dove questi due eserciti cristiani
potrebbero, in un patto d’alleanza,
far confluire il lor sangue nemico
in un sol rivo, invece di versarlo
in risse di cattivi vicinanti!
(Piange)
DELFINO - Queste parole, Salisbury,
ti proclaman di ben nobile tempra,
e nel tuo petto nobili passioni
devono certamente scatenare
un terremoto di nobili sensi.
Qual nobile conflitto
si dev’essere acceso nel tuo animo
tra la coscienza e la necessità!
Lascia ch’io terga con queste mie mani
quel flusso di onorevole rugiada
che argenteo scende giù dalla tua guancia.
Ho sentito il mio cuore intenerirsi
più d’una volta alle usuali lacrime
che inondavano il volto di una dama.
Ma l’effusione di questo tuo pianto,
questo tuo scroscio di virilità
esplosa dentro un’anima in tempesta
mi colpisce e mi lascia sbigottito
più che se avessi visto all’improvviso
tutto l’arco del cielo esser solcato
da meteore infiammate.
Su, rialza la fronte, illustre Salisbury,
e con la forza del tuo grande cuore
disperdi via da te questa tempesta:
affida questi lacrimosi umori
ad infantili occhi che mai l’ira
conobbero del gigantesco mondo,
e non hanno incontrato la Fortuna
altro che nel tripudio dei festini
pieni di sangue caldo, risa e chiacchiere.
Su, su, perché anche tu, come voi tutti,
affonderete, al pari di Luigi,
la vostra mano nella ricca borsa
della prosperità, nobili inglesi,
che i vostri nervi avete ora allacciato
alla forza del mio.
(Squillo di tromba)
Ed ecco, appunto,
mi par che là un angelo ha parlato.
Entra il CARDINALE PANDOLFO
Ecco infatti arrivare di buon passo
il legato del papa
ad apportarci la malleveria
della mano del cielo al nostro agire
e ad apporvi, con il divino fiato
della sua bocca il crisma di giustizia.
PANDOLFO - Salve, nobile principe di Francia!
La novità è questa: Re Giovanni
s’è conciliato di nuovo con Roma;
il suo spirito, che così protervo
si levò contro santa madre chiesa,
è ritornato adesso nel suo seno.
Perciò ravvolgi i minacciosi labari
e ammansisci lo spirito selvaggio
d’una guerra selvaggia,
così che questa, simile ad un leone
da domestica mano ammaestrato,
docile si accovacci e inoffensivo
ai piedi della santa pace,
minaccioso soltanto nell’aspetto.
DELFINO - Vostra Grazia vorrà ben perdonarmi,
ma indietro io non torno:
sono creatura di troppo alta nascita,
per esser proprietà di chicchessia,
per prender ordini da un inferiore
o farmi servo e inutile strumento
di qualunque sovrana autorità
su questa terra. È stato il vostro fiato
a ravvivare i già spenti carboni
della guerra tra me e questo regno
da me punito; siete stato voi
a dare nuova esca a questo fuoco;
ed esso è diventato troppo grosso
perché lo possa spegnere quel fiato
che l’ha prima avvivato e rattizzato.
Voi m’avete insegnato a riconoscere
il vero volto del mio buon diritto,
a farmi consapevole dei titoli
che potevo vantar su questa terra;
voi siete stato, a mettermi nel cuore
quest’impresa; e venite ora a informarmi
che Giovanni ha concluso la sua pace
con Roma? Che può mai importare a me
di questa pace? Io reclamo qui,
in virtù di legittimi sponsali,
dopo il giovane Arturo, questa terra;
ed ora che l’ho mezza conquistata
con l’armi, dovrei fare dietro-front
perché Giovanni ha concluso con Roma
la sua pace? Son io servo di Roma?
Quanto denaro ha disborsato Roma,
quanti uomini, quante munizioni
ha mandato in aiuto a questa azione?
Non son io solo a sostenerne il peso?
Chi altri, se non io
e tutti quelli che mi son fedeli
nella mia causa, stiamo qui sudando
per sostenerla? Non ho io sentito
questi isolani gridarmi all’unisono:
“vive le roi!” mentre ho tenuto banco
nelle loro città? Non ho con questo
nella mia mano le migliori carte
per vincer questa facile partita,
che ha come sua posta una corona?
E dovrei rinunciare proprio ora
a quello che finora ho guadagnato?
No, sull’anima mia, non sia mai detto!
PANDOLFO - Voi non guardate che la faccia esterna
di quest’iniziativa.
DELFINO - Esterna o interna,
io indietro non torno fino a quando
il mio sforzo sia stato coronato
da quella gloria che fu prospettata
all’alte mie speranze
prima che m’accingessi ad allestire
questo superbo strumento di guerra,
scegliendomi da gente di ogni ceto
questi spiriti fieri
per guardare negli occhi la conquista
e procacciarci gloria
tra le fauci del rischio e della morte.
(Tromba)
Che allegro squillo è questo che ci chiama?
Entra il BASTARDO con seguito
BASTARDO - In nome della buona consuetudine
della cavalleria, vi chiedo udienza.
Mio sacro monsignore di Milano,
sono inviato dal mio re Giovanni
per conoscere quali risultati
avete conseguito in suo favore.
Dalla risposta che voi mi darete
saprò dirvi lo scopo ed il mandato
che sono confidati alla mia lingua.
PANDOLFO - Il Delfino è testardamente ostile,
e non vuole nemmeno negoziare
le mie richieste; dice seccamente
che non intende deporre le armi.
BASTARDO - Per tutto il sangue ch’abbia mai sprizzato
furia rabbiosa, il giovane ha ragione!
Udite allora quello che vi dice
il nostro re inglese,
ché è la sua maestà che parla in me:
egli è pronto a combattere,
e ragion vuole che lo sia fin troppo.
Questa avanzata scimmiesca e scomposta,
questa sbrigliata mascherata in armi
simile ad un orgiastico festino,
questa imberbe masnada d’insolenza,
questa truppa di piccoli bambocci
lo fa soltanto ridere;
ed è pronto a cacciare via a frustate
dai confini dei propri territori
quest’armata di nani e di pigmei.
Quella sua mano ch’ebbe già la forza
di bastonarvi di santa ragione
fin sulla porta delle vostre case,
mandandovi a nascondere a gran salti
in fondo ai pozzi, come tanti secchi,
o a restare accucciati tutto il giorno
sotto lo sterco delle vostre stalle,
o chiusi dentro cofani e cassoni
come dei pegni, o abbarbicati ai porci,
o a cercar di scampar la cara pelle
in luoghi sotterranei o prigioni,
e lì rabbrividendo e sussultando
solo a sentire da lontano il verso
del vostro cantachiaro nazionale,
perché lo scambiavate, spauriti,
per il grido di guerra d’un inglese;
sì, quella stessa mano
che venne vittoriosa a castigarvi
fin nelle vostre camere da letto,
deve mostrarsi fiacca proprio qui?
No, il valoroso nostro re, sappiatelo,
è in armi, come un’aquila,
volteggia sull’aerea sua nidiata,
pronto a difenderla contro chiunque,
tenti solo di avvicinarsi ad essa.
(Ai nobili inglesi)
E voi, degeneri e ingrati ribelli,
Neroni sanguinari che squarciate
il ventre della vostra cara madre
Inghilterra, arrossite di vergogna,
perché le vostre mogli,
le vostre pallide vergini figlie
vanno accorrendo sotto le bandiere
al rullar dei tamburi, come amazzoni,
avendo trasformato i lor ditali,
in guantoni di ferro, gli aghi in lance,
e mutato la natural lor grazia
in sanguinario e superbo cipiglio.
DELFINO - Beh, basta con codeste smargiassate.
Fa’ dietro-front, e vattene con Dio!
Ti diamo atto che a sputare frottole
sei più bravo di noi. Addio. Sta’ bene.
Stimiamo il nostro tempo
troppo prezioso per starlo a sprecare
con un simile sciocco boccalone.
PANDOLFO - (Al Bastardo)
Fate parlare me.
BASTARDO - No, parlo io.
DELFINO - Io non voglio ascoltar né voi né lui.
Si battano i tamburi,
e sia solo la voce della guerra
a perorare pel nostro interesse
a restar qui.
BASTARDO - Certo i vostri tamburi,
battuti, avranno voce e grideranno,
e voi con loro, una volta battuti.
Pròvati solo a risvegliare un’eco
col fragore d’un tuo tamburo, e subito
un tamburo sarà già qui da presso
bene stirato e pronto a rimandarti
alto un fragore almeno quanto il tuo;
fanne rullare un altro,
e ancora un altro, dalla nostra parte,
rintronerà nell’orecchio del cielo,
schernendosi del boccaluto tuono,
ché non distante da qui, Re Giovanni,
non fidandosi degli affidamenti
di codesto legato banderuola,
da lui usato più per suo trastullo
che per real necessità, sta in armi,
e sulla fronte sua si trova assisa
la scheletrita morte,
oggi decisa a far grande banchetto
coi corpi di migliaia di francesi.
DELFINO - Tamburi e in marcia,
ad incontrare questo gran pericolo!
BASTARDO - Lo incontrerai, Delfino, sta’ sicuro!
(Rullo di tamburi. Escono il Bastardo col suo seguito da una
parte; dall’altra tutti gli altri, marciando)
SCENA III - Un’altra parte del campo.
Entrano RE GIOVANNI e UBERTO, incontrandosi, mentre s’odono allarmi di guerra
GIOVANNI - Come va la giornata, Uberto? Parla.
UBERTO - Male per noi, ho paura, signore.
Come si sente Vostra maestà?
GIOVANNI - Questa febbraccia che da tanto tempo
mi tormenta, mi pesa sempre più.
Ah, il mio cuore è malato!
Entra un MESSO
MESSO - Mio signore, il valoroso Faulconbridge,
vostro parente, ha espresso il desiderio
che Vostra maestà abbandoni il campo,
e gli faccia sapere, per mio mezzo,
dove avrebbe intenzione di dirigersi.
GIOVANNI - A Swinstead, digli, presso l’Abbazia.[174]
MESSO - Restate di buon animo, maestà,
perché i grossi rinforzi che il Delfino
aspettava venire dalla Francia
tre notti fa hanno fatto naufragio
sulle sabbie di Goodwin. La notizia
è giunta solo poco fa a Riccardo;
i francesi si stanno ritirando,
dopo aver fiaccamente combattuto.
GIOVANNI - Ah, questa febbre che mi brucia dentro,
questa tiranna che ora m’impedisce
d’accogliere con animo contento
questa buona notizia!…
Avanti, avanti, in viaggio verso Swinstead!
Presto, portatemi alla mia lettiga.
Son tutto indebolito, senza forze.
(Esce appoggiandosi a Uberto e al messo)
SCENA IV - Altra parte del campo
Entrano SALISBURY, PEMBROKE e BIGOT
SALISBURY - Non pensavo che il re
fosse provvisto di tanti alleati.
PEMBROKE - Sferriamo noi coi nostri un nuovo assalto:
ridiamo spirito a questi francesi.
Se va male per loro,
va male certamente anche per noi.
SALISBURY - Quel Faulconbridge, quel diavolo malnato,
regge da solo, a dispetto di tutto,
tutto il carico del combattimento.
PEMBROKE - Re Giovanni, secondo quel che dicono,
assai malato, ha abbandonato il campo.
Entra MELUN, ferito, sostenuto da soldati
MELUN - Conducetemi dai ribelli inglesi.
SALISBURY - “Ribelli inglesi…” Avevamo altri nomi
in tempi più felici, in verità….
PEMBROKE - È il conte di Melun…
SALISBURY - Ferito a morte.
MELUN - Fuggite via da qui, nobili inglesi!
Siete stati comprati e rivenduti!
Sfilatevi dalla maldestra cruna
della rivolta, e accogliete con gioia
il ritorno d’una smarrita fede.
Cercate Re Giovanni
e cadete in ginocchio avanti a lui;
ché se oggi i Francesi
dovessero riuscire vittoriosi
da questo fragoroso pandemonio,
Luigi ha in mente di ricompensare
lo sforzo da voi fatto in suo favore
tagliandovi la testa: l’ha giurato,
e così io con lui e con molti altri,
su quello stesso altare, a Sant’Edmondo,
dove giurammo a voi buona amicizia
e sempiterno amore.
SALISBURY - Possibile! Parlate seriamente?
MELUN - Non ho io forse già, alla mia vista,
l’immagine dell’esecrata morte,
mentre trattengo a stento un fil di vita
che se ne va sanguinando via via,
come perde via via davanti al fuoco
la sua figura una forma di cera?
Che cosa al mondo ormai
mi potrebbe condurre ad ingannarvi,
quando non c’è più inganno
da cui potessi trarre alcun vantaggio?
Perché dovrei allora essere falso,
se è vero che dovrò morire qui
per viver nell’eterna verità?
Ve lo ripeto: se Luigi vince
questa giornata, si farà spergiuro
se i vostri occhi vedranno un altro giorno
spuntare a oriente. Questa notte stessa,
il cui alito nero di miasmi
già copre d’un alone di vapori
il fiammeggiante cammino d’un sole
già vecchio, stanco per la lunga corsa,
voi spirerete il vostro ultimo fiato,
pagando il fio del vostro tradimento
con l’essere traditi a vostra volta,
non importa se grazie al vostro appoggio
Luigi possa ottener la vittoria.
Portate il mio saluto a un certo Uberto,
che sta col vostro re;
l’amicizia affettuosa che ho con lui
e il fatto che mio nonno era un inglese
sono stati a svegliar la mia coscienza
e indurmi a rivelare tutto questo.
Vi prego, in contraccambio,
di trasportarmi via da questi luoghi,
lontano dal fragor della battaglia,
dov’io possa raccogliere in silenzio
gli estremi miei pensieri ed aspettare
di separare il mio corpo dall’anima
in religiosa e pia contemplazione
e devote speranze di salvezza.
SALISBURY - Ti crediamo, Melun; e sia dannata
l’anima mia se non è con gran gioia
che accolgo le fattezze ed il favore
di questa splendidissima occasione
che ci permette di fare a ritroso
i passi d’una fuga maledetta;
e, simili ad un flutto straripato
che decrescendo rientra nell’alveo,
rientrare anche noi nei nostri argini
e fluire tranquilli ed obbedienti
al nostro mare, il grande re Giovanni.
Il mio braccio t’aiuterà a portarti
via da qui; perché vedo nei tuoi occhi
lo spasimo crudele della morte.
Andiamo, amici: nuova diserzione!
E fortunata questa circostanza
che ci riporta sulla retta via.
(Escono sorreggendo Melun)
SCENA V - Il campo francese
Entra il DELFINO con seguito
DELFINO - Il sole m’è sembrato questa sera
restio a tramontare, quasi ansioso
d’arrossar di vergogna ad occidente
tutto l’arco del cielo,
quando l’inglese, in fiacca ritirata,
misurava a ritroso il suo terreno.
Ah, ne siamo sortiti con onore!
Dopo una zuffa tanto sanguinosa,
con una salve d’inutili colpi,
abbiamo dato lor la buona notte,
e, ravvolte le lacere bandiere
senza nessun disturbo, ultimi in campo,
ne siamo quasi rimasti padroni.
Entra un MESSO
MESSO - Dov’è il mio principe, dov’è il Delfino?
DELFINO - È qui; che novità?
MESSO - Il conte di Melun è stato ucciso,
ed i nobili inglesi,
dietro sua persuasione, han disertato
di nuovo, e son passati all’altra parte.
I rinforzi da voi tanto aspettati
hanno fatto naufragio
e sono tutti dispersi o annegati
nelle sabbie di Goodwin.
DELFINO - Ah, sciagura!
Maledetta, terribile notizia!
E maledetto tu che me la rechi!
Non m’attendevo proprio, questa sera,
d’attristarmi così
come queste notizie m’han ridotto!
Chi ha detto, poco fa, che re Giovanni
era fuggito un’ora o due prima
che la notte col suo impervio buio
separasse gli stanchi nostri eserciti?
MESSO - Chiunque l’abbia detto, ha detto il vero,
mio signore.
DELFINO - Va bene. Questa notte
restiamo qui; si faccia buona guardia.
Domani non sarà più lesto il giorno
a levarsi, di quanto sarò io
a tentare la mia bella avventura.
(Escono)
SCENA VI - Luogo aperto presso l’Abbazia di Swinstead.
Notte.
Entrano, da opposte parti, il BASTARDO e UBERTO
UBERTO - Chi sei, oh! Parla, e subito, o sei morto!
BASTARDO - Un amico. Chi sei?
UBERTO - Di parte inglese.
BASTARDO - Dove vai?
UBERTO - Che t’importa?
T’ho chiesto forse io i fatti tuoi?
BASTARDO - (Riconoscendolo)
Uberto, immagino?
UBERTO - Immagini giusto.
Ed io m’arrischio a crederti un amico,
visto che riconosci la mia voce.
Chi sei dunque?
BASTARDO - Chiunque vuoi ch’io sia,
e se ti fa piacere essermi amico,
lo potrai fino al punto di pensare
che sono un ramo dei Plantageneti.
UBERTO - Oh, scostumata mia memoria! Tu,
insieme a questa notte senza fine,
m’hai fatto vergognare di me stesso!
Prode soldato, scusa se il mio orecchio
non ha riconosciuto la tua voce.
BASTARDO - Via, via, sans compliments! Che nuove in giro?
UBERTO - Eh, me ne andavo appunto, per cercarvi,
di qua e di là brancolando a tentoni
sotto l’oscuro piglio della notte…
BASTARDO - Su, insomma, alla svelta: che notizie?
UBERTO - Ah, caro signor mio, notizie tetre,
cònsone alla nottata: paurose,
orrende, sconfortanti.
BASTARDO - Ebbene, avanti,
mostrami, senza farmi ancora attendere
la piaga aperta di queste notizie:
non svenirò a sentirle, non son donna.
UBERTO - Temo che il re sia stato avvelenato,
ad opera di un frate… L’ho lasciato
che quasi non riusciva più a parlare,
e son corso a cercarvi
per informarvi di questa disgrazia,
così che, conoscendo l’accaduto,
voi possiate esser meglio preparato
ad affrontare il corso degli eventi,
che se l’aveste appreso all’improvviso.
BASTARDO - Come ha potuto ingerire il veleno?
Chi gli assaggiava prima le vivande?
UBERTO - Un frate, vi ripeto, un miserabile,
risoluto a morire, come è morto,
con le budella subito crepate.
Il re è in grado ancora di parlare,
e forse si potrà anche riprendere.
BASTARDO - Chi hai lasciato con lui ad assisterlo?
UBERTO - Ah, voi non lo sapete. I suoi baroni
sono tutti tornati intorno a lui,
in compagnia del principino Enrico,
per la cui intercessione
il re ha concesso a tutti il suo perdono.
BASTARDO - Possente cielo, trattieni il tuo sdegno,
e non tentarci alla sopportazione
oltre le nostre forze! Uberto, ascolta:
questa notte metà delle mie forze,
nel traversare queste basse terre,
si son trovate còlte all’improvviso
dalla marea, e gli stagni di Lincoln
l’hanno tutte inghiottite. A mala pena
io stesso in sella ad un buon palafreno
sono riuscito a scampare la pelle.
Ma fammi strada, portami dal re,
ch’io possa rivederlo ancora vivo.
(Escono)
SCENA VII - L’orto dell’Abbazia di Wisntead
Entrano il PRINCIPE ENRICO, SALISBURY E BIGOT
ENRICO - Troppo tardi. L’essenza del suo sangue
è corrosivamente contagiata,
ed il suo sempre lucido cervello
che dicono la fragile dimora
dell’anima, coi suoi vaneggiamenti
preannuncia imminente
la fine della sua vita mortale.
Entra PEMBROKE
PEMBROKE - Sua Altezza parla ancora,
e si dice convinto
che se lo trasportiamo all’aria aperta
gli si allevia l’effetto del bruciore
del crudele veleno che lo assale.
ENRICO - Trasportiamolo allora qui nell’orto.
(Esce Bigot)
Delira ancora?
PEMBROKE - No, sembra più calmo.
Anzi, accennava perfino a cantare.
ENRICO - Assurdità del male! Al loro estremo,
i dolori non si fan più sentire.
La morte, dopo avere depredato
le parti esterne, le lascia insensibili
e va a portare l’assedio alla mente,
ch’essa attacca e ferisce
con legioni di strane fantasie
le quali in grande ressa ed accalcandosi
tutte contro quell’ultimo bastione,
si fondono e confondono tra loro.
È strano che la morte
debba cantare. Il pulcino son io
di questo pallido cigno languente
che canta alla sua morte
un inno di dolore,
ed accompagna sulla canna d’organo
della fragilità anima e corpo
all’eterno riposo.
SALISBURY - Principe, fate cuore;
voi siete nato a dar forma finita
all’informe congerie delle cose
ch’egli lascia sì grezza e indefinita.
Entra BIGOT con altri nobili recando RE GIOVANNI su una sedia
GIOVANNI - Oh, per la Vergine, qui la mia anima
può spaziare, non è costretta a sporgersi
in cerca d’aria per porte e finestre!
Sento bruciarmi dentro una canicola
da incenerirmi tutte le interiora:
non son più altro che uno scarabocchio
stirato a penna su una pergamena,
e m’accartoccio tutto a poco a poco
all’ardore di questo interno fuoco.
ENRICO - Come state, maestà?
GIOVANNI - Avvelenato,
malatissimo, morto, abbandonato.
E nessuno di voi chiama l’Inverno
che mi venga a ficcare nello stomaco
le sue dita di ghiaccio;
nessuno chiama i fiumi del mio regno
a riversare le loro correnti
sul mio petto che brucia; o chiama il Nord
perché spedisca gli aridi suoi venti
a baciar le mie labbra inaridite,
a confortarmi col lor soffio gelido.
Io non vi chiedo che un po’ di frescura,
e voi qui, tutti sordi e sconoscenti,
mi negate anche questo refrigerio!
ENRICO - Oh, avessero almeno le mie lacrime
la virtù di recarvi alcun sollievo!
GIOVANNI - È caldo il sale che sta dentro ad esse.
Io ho l’inferno dentro,
e il veleno è un demonio che sta lì
ad angariare il povero mio sangue
irrimediabilmente condannato.
Entra il BASTARDO
BASTARDO - Oh, Altezza, son tutto trafelato
per la precipitosa galoppata
e l’ansia di potervi rivedere.
GIOVANNI - Ah, nipote, tu giungi giusto in tempo
per chiudermi le palpebre;
tutto il sartiame del mio cuore è arso
e cade a pezzi, e tutte le sartie
che dovrebbero tendere le vele
della mia vita si sono ridotte
ad un sol filo, un capello sottile;
il cuore non ha più che lo sorregga
che una povera fibra
che lo sta trattenendo quanto basta
perch’io oda da te le tue notizie;
e poi, quella che vedi innanzi a te
sarà soltanto una povera zolla,
un simulacro di maestà distrutta.
BASTARDO - Il Delfino è in procinto di marciare
fin qui, dove Dio sa come faremo
ad opporgli una qualche resistenza;
perché la miglior parte del mio esercito
in una sola notte, mentre in marcia
muovevo ad attestarci in miglior sito,
s’è trovata sommersa ed inghiottita
da un improvviso flusso di marea.
(Re Giovanni s’accascia e muore)
SALISBURY - State soffiando notizie di morte
dentro un orecchio morto…
Il mio sovrano! Il mio signore… un re,
solo un attimo fa, ed ora questo!
ENRICO - E come lui dovrò correre anch’io,
e come lui fermarmi… ecco, così!
Che certezza c’è al mondo, che speranza,
che fermezza, se solo poco fa
questo era un re, ed ora è solo argilla?
BASTARDO - E te ne vai così?… Io non ti seguo,
sol perché devo far di te vendetta;
poi la mia anima ti servirà
in cielo, come t’ha servito in terra.
(Ai nobili)
Ed ora, ed ora a voi,
stelle, che nelle vostre giuste sfere
siete tornate a ruotare di nuovo,
dove sono le vostre forze armate?
Questa è l’ora per voi di dimostrare
la vostra rinnovata fedeltà,
unendo a quelle mie le vostre truppe
per cacciar via dalla sconnessa porta
di questa nostra boccheggiante terra
la distruzione e la vergogna eterna.
Dobbiamo cercar subito il nemico,
o sarà esso a cercar noi fra poco:
il Delfino imperversa e ci sta addosso.
SALISBURY - Siete allora informato, a quanto pare,
meno di noi. Il Cardinal Pandolfo
è nel convento, qui, che si riposa.
È tornato da noi mezz’ora fa
dopo essersi incontrato col Delfino,
e ci ha recato proposte di pace
che possiamo accettare con onore
e con pieno rispetto di noi stessi,
ponendo subito fine alla guerra.
BASTARDO - Egli sarà meglio disposto a tanto,
quanto meglio innervati ci saprà
a difenderci.
SALISBURY - Ma è già cosa fatta.
In realtà, ha già spedito in mare
molti dei suoi carriaggi,
ed ha rimesso in mano al Cardinale
la sua causa e l’intera controversia.
Ordunque, voi ed io, con gli altri nobili,
se lo vorrete, questo pomeriggio
andremo ad incontrare il Cardinale
per condurre felicemente a termine
l’intera faccenda.
BASTARDO - E così sia.
(A Enrico)
E voi, nobile principe,
con gli altri nobili, la cui presenza
non sarà necessaria a questo incontro,
penserete alle funebri onoranze
da tributare al vostro genitore.
ENRICO - Sarà sepolto a Worchester,
perché così egli ha lasciato detto.
BASTARDO - Ed a Worchester abbia sepoltura;
e così possa la vostra persona
addossarsi la giusta successione
in linea retta della dinastia
e la gloria di questa nostra terra,
com’io a voi, in piena devozione,
consacro qui, in ginocchio, i miei servizi
e leale ed eterna sudditanza.
(S’inginocchia a Enrico)
SALISBURY - E pari lealtà e devozione
vi professiamo noi, con l’auspicio
ch’essa duri perenne e inalterata.
ENRICO - Ho l’animo commosso,
che vi vorrebbe tutti ringraziare,
e non sa come farlo che piangendo.
BASTARDO - (Rialzandosi e avvicinandosi a Enrico che piange)
Oh, tributiamo al doloroso evento
non più dell’afflizione necessaria,
ché tanta già ne abbiamo anticipata!
Giammai quest’Inghilterra
è soggiaciuta, e mai soggiacerà
all’orgoglioso piede d’un nemico
conquistatore, se non sarà essa
a ferirsi per prima, di sua mano.
Ora che questi suoi grandi baroni
son ritornati alla casa comune,
vengano pure i tre quarti del mondo
contro di essa in armi,
e noi sapremo ben come colpirli!
Nulla ci farà mai doler di nulla,
se l’Inghilterra resterà fedele
a quel che è, e a quel che è sempre stata.
FINE
(1) ”What would France with us?”: i re, al pari dei nobili titolari di principati, ducati, contee, marchesati ecc., sono indicati spesso in Shakespeare col nome del regno o del dominio di cui sono titolari.
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