Vecchio Gaunt,

addio. Tu vai a Coventry,
a veder là nostro cugino Hereford
combattere con lo spietato Mowbray.
Oh, s’assidano in punta alla sua lancia
tutti i torti recati a mio marito,
sì ch’essa vada ad infiggersi in petto
al macellaio Mowbray!
O, se morte lo manchi al primo assalto,
gli pesino sul petto tanto gravi
i suoi delitti, da spezzar le reni
al bavoso schiumante suo destriero,
sì che questo lo sgroppi sulla lizza,
lasciandolo contrito prigioniero,
di mio nipote Enrico!
Addio, mio vecchio Gaunt!
Colei che fu di tuo fratello sposa
è condannata a chiudere la vita
avendo sol compagna l’afflizione.

 

GAUNT -

Addio, cognata. Devo andare a Coventry.
Sia tanto bene con te che rimani
quanto con me che vado.

 

DUCHESSA -

Una parola ancora, tuttavia:
l’afflizione rimbalza, quando cade,
non, come palla, in virtù del suo vuoto,
ma in forza del suo peso.
Mi congedo da te
prima d’aver ancora cominciato;
perché il dolore non finisce mai,
anche quando ti par che sia passato.
Saluta tuo fratello Edmondo York…
Beh, questo è tutto… Eppure, no, no, aspetta,
non andar via così… Sì, questo è tutto…
Però non te ne andare così in fretta…
C’è qualcosa che ancor mi viene in mente…
Ah, sì, dovresti dirgli… Ohimè, che cosa?…
Ah, sì, che venga a visitarmi a Plastry
quanto prima possibile per lui…
Ahimè, che ci verrebbe a far laggiù
il vecchio York? A vedere che cosa?
Stanze vuote, pareti disadorne,
dispense nude, ambienti spopolati
che già furono pieni di famigli,(14)
pianciti non calcati da alcun piede…
E che potranno udir gli orecchi suoi
altro che i miei lamenti,
a dargli il benvenuto a casa mia?
No, no, salutalo per conto mio,
ma che non venga là
dove niente potrebbe ricercare
oltre il dolore che v’abita ovunque.
Desolata, ti lascio, desolata,
per andare a morire desolata.
Questi miei occhi umidi di lacrime
prendon da te l’estremo lor congedo.
(Escono)

 

 

SCENA III

 

La lizza a Coventry

 

Entrano il LORD MARESCIALLO E LORD AUMERLE

 

MARESCIALLO -

Lord Aumerle, s’è armato il duca d’Hereford?

 

AUMERLE -

Di tutto punto, sì, Lord Maresciallo,
ed è impaziente di scendere in lizza.

 

MARESCIALLO -

Il duca di Norfolk è già sul campo,
e aspetta fiero e pieno di coraggio,
che l’avversario squilli la sua sfida.(15)

 

MARESCIALLO -

Allora i contendenti sono pronti.
S’attende solo l’arrivo del re.

 

Squilli di tromba.
Entra RE RICCARDO, col seguito; poi GIOVANNI DI GAUNT, BUSHY, BAGOT, GREEN e la folla di cortigiani.(16)

 

RICCARDO -

Maresciallo, chiedete a quel campione
la causa della sua venuta in armi,
il suo nome, e, com’è costume e legge,
fategli far solenne giuramento
che si batte per una causa giusta.

 

MARESCIALLO -

(A Mowbray)
Nel sacro nome di Dio e del re,
declina le tue generalità
e la ragione perché vieni in armi;
dichiara chi è colui con cui ti batti
e qual è l’argomento della disputa.
Parla da cavaliere, franco e aperto,
e sotto vincolo di giuramento,
e come tale possano proteggerti
il cielo e il tuo valore.

 

MOWBRAY -

Tomaso Mowbary, Duca di Norfolk,
è il mio nome; e son qui venuto in armi,
sotto impegno di sacro giuramento,
- Dio guardi un cavaliere dal violarlo -
per difendere la mia fede in Dio,
al mio sovrano ed ai suoi successori,
dall’accusa del Duca Enrico di Hereford,
e per provare, in questa mia difesa,
ch’Enrico d’Hereford è un traditore
del mio Dio, del mio re e di me stesso.
Il cielo mi protegga,
perché mi batto pel mio buon diritto.
(Si siede)

Squillo di tromba.
Entra Enrico BOLINGBROKE, Duca di Hereford, sfidante, preceduto da un ARALDO

 

RICCARDO -

Maresciallo, a quel cavaliere in armi
domandate chi è, per qual ragione
viene qui corazzato in quella foggia;
in buona forma, come vuol la legge,
fategli dire sotto giuramento,
che combatte per una causa giusta.

 

MARESCIALLO -

(A Bolingbroke)
Dichiarami chi sei, come ti chiami,
e perché ti presenti così armato
davanti al re Riccardo, alla sua lizza;
contro chi vieni e qual è la tua causa.
Parla anche tu da vero cavaliere,
e ti protegga il cielo.

 

BOLINBROKE -

Enrico d’Hereford, duca di Làncaster
e Derby è il nome mio, e son qui in armi
a provar col valore del mio braccio,
e con l’aiuto dell’Onnipotente,
su questa lizza, che Tomaso Mowbray
è un malvagio e nefasto traditore
di Dio, di re Riccardo e di me stesso.
Poiché combatto per la buona causa,
m’accordi il cielo la sua protezione.

 

MARESCIALLO -

(Al pubblico degli astanti)
Sotto pena di morte,
che nessuno si prenda l’ardimento
di scender sul terreno della lizza,
eccetto il maresciallo e gli ufficiali
scelti a dirigere lo svolgimento
di questo nobile combattimento.

 

BOLINGBROKE -

Lord Maresciallo, datemi licenza
di baciare la mano al mio sovrano
e di prostrarmi innanzi a Sua maestà,
perché in questo momento Mowbray ed io
siamo due pellegrini
votati ad un asperrimo cammino.
Lasciate quindi che prendiam congedo
dai nostri amici con le buone forme
e diamo loro un affettuoso addio.

 

MARESCIALLO -

(Al re)
Con profondo rispetto, maestà,
lo sfidante vi porge il suo saluto
e chiede di baciar la vostra mano
e di prender così da voi congedo.

 

RICCARDO -

Voglio scendere io stesso
per abbracciarlo.(17) Cugino di Hereford,
come è giusta la causa
per cui ti batti, così sia la sorte
con te in questo regale cimento.
Addio, tu, sangue del mio stesso sangue;
sul quale, se oggi ti sarà versato,
caro cugino, noi potremo piangere,
ma non proporci di fare vendetta.

 

BOLINGBROKE -

Oh, che nessuna lacrima
per me profani nobile pupilla,
se m’accadrà di rimaner trafitto
dalla spada di Mowbray.
Io m’accingo a combattere con lui
con la risolutezza del falcone
che piomba su un uccello a farne preda.
(Al Lord Maresciallo)
Mi congedo da voi, caro signore,
(A Lord Aumerle)
da te, mio nobile cugino Aumerle;
ma non prendete questo mio commiato
come d’uno ch’è moribondo a letto,
anche se avrò a che fare con la morte,
ma d’uno che, nel vigore degli anni,
ha nel cuore la gioia della vita
e ne respira tutta la letizia.
(A Gaunt)
Ed ora, come nei banchetti inglesi,
mi volgo a dare l’ultimo saluto
al piatto più squisito della tavola,
per addolcirmi al massimo la chiusa.
O tu, terreno autore del mio sangue,
il cui giovane spirito
rinato in me con raddoppiata forza
mi leva in alto ad acciuffar pei crini
alta sulla mia testa la vittoria,
rendi più forte, con le tue preghiere,
la resistenza della mia corazza
e affila, con le tue benedizioni,
la punta della mia temprata lancia,
ch’essa trapassi come molle cera
la corazza di Mowbray,
e nuovo lustro possa derivare
alla casata di Giovanni Gaunt
dal fiero comportarsi di suo figlio.

 

GAUNT -

Dio t’assista nella tua buona causa.
Sii ratto nell’azione come il fulmine,
e fa’ che i colpi tuoi, due volte doppi,
cadano come tuono che stordisce
sull’elmo del mortale tuo nemico.
Fa’ divampare il giovane tuo sangue,
sii valoroso e vivi!

 

BOLINBROKE -

La mia innocenza e San Giorgio trionfino!

 

MOWBRAY -

Qualunque sorte Dio o la Fortuna
mi riservino, qui vivrà o morrà,
in fedeltà di cuore a re Riccardo
un leale ed onesto gentiluomo.
Mai con più franco cuore
prigioniero gettò via le catene
ed abbracciò il dorato suo riscatto
di quanto l’esultante anima mia
celebra in festa questo scontro d’armi.
Sovrano potentissimo, e voi pari,
miei cari amici, accogliete da me
l’augurio di anni felici per tutti.
M’accingo a sostenere questo scontro
col cuore in festa, come andassi a un gioco:
la verità rende sereno l’animo.

 

RICCARDO -

Addio, mio lord: io vedo nel tuo sguardo
la virtù e il valore insiem congiunti.
Lord Maresciallo, si vada alla prova:
date gli ordini vostri, e s’incominci.

 

MARESCIALLO -

Enrico Bolingbroke, duca di Lancaster
e signore di Hereford e Derby,
ricevi dalla mano mia la lancia,
e sia Dio difensore del diritto!

 

BOLINBROKE -

Saldo nella speranza come torre,
vi rispondo a gran voce: “E così sia!”.

 

MARESCIALLO -

(Ad un Ufficiale)
Va’ da Tomaso, Duca di Norfolk,
dàgli questa lancia.

 

1° ARALDO -

È qui presente Enrico duca di Hereford,
e signore di Lancaster e Derby,
a provar, sotto pena di spergiuro,
per Dio, pel suo sovrano e per se stesso,
che il duca di Norfolk, Tomaso Mowbray,
è reo di tradimento
a Dio, al suo sovrano ed a se stesso
e lo sfida a venir avanti in lizza,
per misurarsi in singolar tenzone.

 

2° ARALDO -

È qui presente il Duca di Norfolk,
Tomaso Mowbray, col fiero proposito,
sotto pena di falso e di spergiuro,
sia di difendere la sua persona,
sia di provare che Enrico di Hereford,
di Làncaster e Derby,
mente a Dio, al suo re ed a se stesso;
e, con animo franco e risoluto,
aspetta solo il segnale d’attacco.

 

MARESCIALLO -

Tromba! Venite avanti, combattenti!

 

La tromba suona l’inizio dello scontro, ma appena i contendenti si stanno per scontrare, il re si alza e getta a terra la mazza.(18)

 

Fermi! Il re ha gettato la sua mazza!

 

RICCARDO -

Che depongano entrambi lancia ed elmo,
e facciano ritorno ai loro scanni!
(Ai consiglieri del seguito)
Venite, voi, riuniamoci in consiglio
e squillino le trombe, fino a tanto
che non ritorneremo a palesare
le nostre decisioni a questi duchi.

 

Lunga fanfara, mentre il re si consulta coi suoi consiglieri. Poi, rivolto ai due:

 

Fatevi qui da presso ed ascoltate
la decisione del nostro consiglio:
affinché il suolo del nostro reame
non sia macchiato dal sangue prezioso
ch’esso nutrì; e poiché gli occhi nostri
hanno in orrore la crudele vista
di ferite da fratricide spade
scavate nella carne del vicino;
e come è nostra ferma convinzione
ch’è l’orgoglio, con le sue ali d’aquila,
ispiratore d’ambiziosi voli
e di cupide mire verso l’alto,
accoppiato ad astiosa gelosia,
ad indurvi a destar la nostra pace,
che, qual tenero infante addormentato
nella culla di questa nostra terra,
respira calma e serena il suo sonno
la cui brusca rottura,
pel discorde rullare di tamburi
o per l’aspro squillar d’orride trombe
o pel ferreo cozzar d’armi guerriere
può fugar dai tranquilli nostri lidi
la bella pace finora goduta,
se non addirittura trascinarci
a nuotare nel sangue di fratelli;
per tutto questo, abbiamo decretato
di bandirvi dal nostro territorio.
Tu, Hereford, cugino,
a pena la vita, col divieto
di mettere più piede in Inghilterra
a salutare i nostri bei dominii
prima che per due volte cinque estati
abbiano fatti ricchi i nostri campi,
calcherai i sentieri dell’esilio.

 

BOLINBROKE -

La vostra volontà sarà eseguita.
Mi sarà come unico conforto
il pensare che il sole che vi scalda
qui nel regno splende anche su di me;
ed i raggi dorati che vi dona
verranno ad appuntarsi su di me
ad indorarmi i giorni dell’esilio.

 

RICCARDO -

Norfolk, a te condanna anche più dura,
che pronuncio con qualche riluttanza:
il corso lento e furtivo del tempo
mai segnerà per te l’ultimo limite
del duro esilio, che non avrà termine.
“Senza ritorno”: è questa la sentenza
ch’io pronuncio per te, pena la vita.

 

MOWBRAY -

Dura pronuncia, mio temuto sire,
ed invero del tutto inaspettata
dalle labbra di vostra maestà.
Io m’attendevo dalle vostre mani
miglior compenso per i miei servigi
che non una ferita sì profonda
come quella d’esser buttato via
dal vostro regno, alla mercé del mondo.
Dovrò dunque cessare di parlare
l’idioma appreso nei miei quarant’anni,
il mio nativo inglese;
la mia lingua non mi sarà più utile
d’una viola o d’un’arpa senza corde;
o sarà come un magico strumento,
racchiuso nel suo astuccio,
o dato in mano, quando di là tolto,
da qualcuno incapace di suonarlo
per modularne la dolce armonia.
E così voi m’avete imprigionato
la lingua nella bocca,
sbarrata con la duplice serranda
delle labbra e dei denti…
L’ottusa, sterile, crassa ignoranza
sarà così il mio solo carceriere,
posto a guardia di questa mia impotenza.
Sire, son troppo vecchio
per fare le graziucce ad una balia;
son troppo in là negli anni,
per ritornare a far lo scolaretto.
Quale condanna è, dunque, questa vostra
se non ad una morte silenziosa,
che priva la mia lingua
di fiatare l’idioma suo natale?

 

RICCARDO -

Non implorare compassione. È inutile.
La decisione è presa.
Ogni lagnanza ormai è fuori tempo.

 

MOWBRAY -

E dunque dovrò volgere le spalle
alla luce che ho qui, nel mio paese,
per andare a fissare la mia dimora
all’ombra d’una notte senza fine…

 

RICCARDO -

Volgiti intanto nuovamente a me,
e fammi il giuramento che ti chiedo
e che dovrai portarti via con te.
(Anche rivolto a Bolingbroke)
Posate entrambi qui, sulla mia spada(19)
di re le vostre mani di proscritti,
e per la fede che dovete a Dio
- quella dovuta a noi, vostro sovrano,
l’abbiamo messa al bando insieme a voi -
giurate d’osservare la consegna
che qui solennemente vi facciamo:
mai non dovrete - e in ciò vi sian d’aiuto
Dio e la vostra lealtà di sudditi -
unirvi in alleanza nell’esilio,
mai l’uno riveder dell’altro il volto;
né mai comunicare per iscritto;
mai scambiarvi un saluto;
mai cercare di mitigar, tra voi,
la torbida tempesta di quell’odio
che v’ha resi così nemici in patria;
mai associarvi nel comune intento
di tramare, di ordire, complottare
contro di noi, o contro il nostro stato,
i nostri sudditi, la nostra terra.
(I due posano le mani sull’elsa della spada del re)

 

BOLINGBROKE -

Lo giuro.

 

MOWBRAY -

Anch’io, d’osservar tutto questo.

 

BOLINGBROKE -

Norfolk, ti dico addio, come a un nemico.(20)
A quest’ora, se avesse il nostro re
acconsentito a che noi ci battessimo,
una delle nostre anime,
si troverebbe ad aleggiar nell’aria
bandita dalla fragil sepoltura
del suo corpo, così com’è bandito
il nostro corpo dalla nostra terra.
Ma prima di lasciare questo regno,
confessa in pubblico i tuoi tradimenti;
non trascinarti dietro, sì lontano
- perché lontano tu ne devi andare -
il fardello d’un’anima colpevole.

 

MOWBRAY -

No, Bolingbroke; s’io fui mai traditore,
sia cancellato per sempre il mio nome
dal libro della vita, ed io bandito
sia dal cielo, come lo son da qui.
Ma quello che sei tu ben lo sa Dio,
e tu ed io, ed anche troppo presto
il re dovrà riceverne cagione,
temo, di gran dolore.
(Al re)
Addio, maestà. Non c’è nessuna strada,
d’ora in avanti, ch’io possa smarrire,
se non quella che mena all’Inghilterra:
ché mia strada sarà l’intero mondo.
(Esce)

 

RICCARDO –

(A Gaunt)
Zio, scorgo nello specchio dei tuoi occhi
il riflesso del tuo cuore angosciato,
e la tristezza che ti vaga in viso
ti guadagna un abbuono di quattro anni
dal numero di quelli del suo esilio.
(A Bolingbroke)
Saranno solo sei gelidi inverni,
e tornerai in patria benvenuto.

 

BOLINGBROKE -

Che lungo tempo in una paroletta!
Quattro torpidi e letargosi inverni,
quattro ubertose e pingui primavere
fatte svanire con una parola:
tale fiato hanno i re!…

 

GAUNT -

Ringrazio il mio sovrano
che per riguardo a me,
accorcia di quattr’anni
l’esilio di mio figlio. Ma, purtroppo,
io ne trarrò modesto beneficio,
ché prima che i sei anni da scontare
abbian visto mutar le loro lune
e avvicendarsi le loro stagioni,
la mia lucerna, ormai senza più olio,
con la sua luce vieppiù affievolita
sarà già spenta dal peso degli anni
e della notte che non ha più fine;
il mozzicone della mia candela
sarà tutto bruciato e consumato,
e il sopraggiunger della cieca morte
non mi lascerà più veder mio figlio.

 

RICCARDO -

Oh, zio, molti anni ancora hai tu da vivere.

 

GAUNT -

Ma non un sol minuto
di più che tu, re, possa concedermi.
Tu puoi spezzare il corso dei miei giorni
infliggendomi la più cupa pena,
e privarmi altresì delle mie notti,
ma non mi potrai dare un sol mattino;
puoi aiutare la mano del tempo
a scanalarmi la faccia di rughe,
ma non potrai fermar nessuna ruga
ch’esso possa tracciar col suo trascorrere.
Con lui la tua parola
è moneta sonante alla mia morte,
ma quando io sia morto,
non ti potrà bastar tutto il tuo regno
a riscattar da lui il mio respiro.

 

RICCARDO -

Il bando di tuo figlio è scaturito
da maturo consiglio, cui tu stesso
hai avuto parola. Perché dunque
ti mostri così scuro e risentito
con la nostra giustizia?

 

GAUNT -

Cose dolci al palato
si fanno acide alla digestione.
M’avete consultato come giudice:
sarebbe stato meglio domandarmi
di parlar come padre.
Oh, si fosse trattato d’un estraneo
invece di mio figlio, assai più facile
mi sarebbe riuscito, assai più facile
sarei io stato a sminuir la colpa.
Ho voluto fuggir nel mio verdetto
ogni sospetto di parzialità,
e con esso ho distrutto la mia vita.
M’aspettavo che alcuno tra di voi
dicesse ch’ero stato troppo duro
nel bandire una parte di me stesso;
ma voi alla mia lingua riluttante
consentiste di far che, controvoglia,
io mi recassi questo grave torto.

 

RICCARDO -

(A Bolingbroke)
Addio, cugino.
(A Gaunt)
Zio, dàgli congedo.
Noi l’abbiamo bandito per sei anni.
Deve andare.

 

Squillo di tromba.
(Esce Re Riccardo con seguito)

 

AUMERLE -

Addio, cugino Hereford.
Ciò che non mi puoi dire qui, in presenza,
me lo dirai per lettera
dal luogo dove andrai a stabilirti.

 

MARESCIALLO -

Io non prendo congedo, monsignore,
perché cavalcherò al vostro fianco
fin dove terraferma lo consente.

 

GAUNT –

(A Bolingbroke)
Perché sei tanto avaro di parole,
che non rendi il saluto a questi amici?

 

BOLINGBROKE -

Troppo poche son quelle che ho per voi
per congedarmi, quando di parole
la mia lingua dovrebb’essere prodiga
per dar voce alla pena che m’ambascia.

 

GAUNT -

Quel che ti affligge è soltanto il pensiero
di rimaner assente tanto tempo.

 

BOLINGBROKE -

È così infatti: assente la letizia,
sarà presente solo l’afflizione.

 

GAUNT -

Che son sei inverni? Passano veloci.

 

BOLINGBROKE -

Per la gente felice;
ma il dolore di un’ora ne fa dieci.

 

GAUNT -

E tu chiamalo un viaggio di piacere.

 

BOLINGBROKE -

Anche a chiamarlo, impropriamente, tale,
il mio cuore sospirerà lo stesso,
perché non potrà a meno di sentirlo
una forzata peregrinazione.

 

GAUNT -

Al sordo andare dei tuoi passi stanchi
guarda come una specie di castone
nel quale incastonare, a impreziosirlo,
il gioiello del tuo ritorno a casa.

 

BOLINGBROKE -

Ahimè, che invece ogni tedioso passo
non farà che portarmi col pensiero
a quale immenso mondo mi separi
dai gioielli che amo. La mia sorte
sarà di fare un lungo apprendistato
per cammini stranieri, ed alla fine,
riottenuta la libertà, vantarmi
di non essere stato niente più
che un semplice apprendista del dolore.(21)

 

GAUNT -

Tutti i luoghi che il cielo col suo sguardo
visita son felici porti e approdi
per il saggio. Necessità t’insegni
questo: che pari alla necessità
non esiste virtù. Fa’ di pensare
che non è stato il re a bandire te,
ma tu il re. Il dolore è più pesante
per chi lo porta con animo fiacco.
Va’, pensa che a mandarti dove andrai
sia stato io, a procurarti onore,
non che t’abbia esiliato il tuo sovrano;
o immagina magari che nell’aria
incomba una vorace pestilenza
e tu vada fuggendo in altri luoghi
alla ricerca d’un clima più sano.
Pensa a ciò ch’è più caro alla tua anima,
e immagina che stia là dove vai,
non già da dove vieni;
immagina che il canto degli uccelli
sia musica e che l’erba che calpesti
sia la gran sala delle udienze a corte
parata a festa, i fiori belle dame
ed i tuoi passi leggiadre scansioni
di misure di danza.
Il dolore ringhioso ha meno forza
di mordere se l’uomo se ne irride
e non gli dà importanza.

 

BOLINGBROKE -

Oh, ma chi può tenere la brace in mano
solo pensando alle nevi del Càucaso?
Chi può placare i morsi della fame
solo pensando ad un lauto banchetto?
O voltolarsi nudo nella neve
a dicembre pensando all’afa estiva?
Ah, no, la sola immagine del buono
non fa che acuire il senso del cattivo.
Il dolore di denti è più straziante
quand’esso rode dentro,
senza che possa incidersi l’ascesso.

 

GAUNT -

Vieni figlio, ti metto sulla strada.
Avessi l’età tua e i tuoi motivi,
non resterei un sol minuto ancora.

 

BOLINGBROKE -

Allora, suolo d’Inghilterra, addio!
Addio, mia dolce terra,
madre, nutrice che ancor mi sorreggi!
Dovunque io vada, pur se messo al bando,
di questo almeno potrò menar vanto:
d’esser di genuino ceppo inglese!

(Escono)

 

 

SCENA IV

 

Londra. La grande sala della corte.

 

Entrano RE RICCARDO, BAGOT e GREEN da una parte; il DUCA DI AUMERLE dalla parte opposta.

 

RICCARDO - (A Bagot e a Green, come continuando un discorso)

 

L’abbiamo già osservato.(22)
(Ad Aumerle)
Cugino Aumerle, fino a che punto
accompagnasti l’altezzoso Hereford
per la sua strada?

 

AUMERLE -

“L’Altezzoso Hereford”
- se è così che vi piace chiamarlo -
l’ho accompagnato fino dove ha inizio
la via maestra, e là l’ho salutato.

 

RICCARDO -

E, dimmi, quante lacrime d’addio
furon versate da entrambe le parti?

 

AUMERLE -

Da parte mia, nessuna, in verità;
solo che un forte vento di nord-est
che soffiava mordendoci la faccia
ci ridestò l’umore che dormiva,
dando così al bugiardo nostro addio
la grazia d’una lacrima.

 

RICCARDO -

E che ti disse il nostro cuginetto
sul punto che vi siete separati?

 

AUMERLE -

“Addio”, mi disse, senza nulla aggiungere.
Al che il mio cuore, forse avendo sdegno
che la lingua potesse profanare
la parola, mi suggerì di fingere
d’esser talmente preso dall’angoscia,
che le parole parvero sepolte
nella tomba del mio grande dolore.
Sacramento! Se la parola “addio”
avesse avuto il magico potere
d’allungar l’ore e aggiunger anni ed anni
a quelli del suo troppo breve esilio,
di “addio” ne avrebbe ricevuti a iosa!
Ma poiché questo non era possibile,
egli da me non s’ebbe alcun addio.

 

RICCARDO -

Egli è nostro cugino, cugino Aumerle;
ma c’è da dubitare seriamente
che quando il tempo l’avrà richiamato
dall’esilio, quel caro cuginetto
brami di rivedere i suoi parenti.
Ho avuto modo di osservare io stesso,
e con me anche Bagot, Green e Bushy,
com’ei riesca corteggiare il popolo,
e immergersi nel fondo dei lor cuori
con umili ed affabili maniere;
e prodigarsi a loro in grandi gesti
corteggiando quei poveri artigiani
con l’arte del sorriso,
o col mostrar di sopportar paziente
il destino di questa sua condanna,
quasi a voler portar con sé in esilio
il loro affetto… Si tolse il cappello
davanti ad una povera ostricaia;
due carrettieri gli fanno l’augurio
“Che Dio v’assista!”, e s’hanno, in contraccambio,
l’omaggio d’una sua genuflessione,
con un bel: “Grazie, miei compatrioti,
miei cari amici!”; quasi a voler dire
che l’Inghilterra è sua per reversione(23)
e ch’egli è la più prossima speranza
dei nostri sudditi.

 

GREEN -

Beh, se n’è andato,
e vadano con lui questi pensieri.
Ora s’ha da pensare, mio sovrano,
ad adottare urgenti decisioni
contro i ribelli in armi nell’Irlanda,
prima che un ulteriore nostro indugio
possa offrir loro, a tutto nostro danno,
l’agio di rifornirsi d’altri mezzi.

 

RICCARDO -

A questa guerra andremo di persona.
E poiché per tener troppo gran corte,
e per essere troppo liberali,
le nostre casse sono alleggerite,
siamo costretti a dare in affittanza
l’intero nostro regno; il suo provento
servirà a finanziare questa impresa.
E se ciò non dovesse ancor bastare,
lasceremo ai ministri carta bianca
per accertarsi dove sono i ricchi,
sottoporli a pagare forti tasse,
e mandarci i ricavi del prelievo,
per fronteggiar le spese della guerra.
Noi partiremo per l’Irlanda subito.

Entra BUSHY
Che nuove, Bushy?

 

BUSHY -

Il vecchio Gaunt, signore,
è in grave stato: un malore improvviso,
e mi manda di volo a Vostra Altezza
per chiedervi di andarlo a visitare.

 

RICCARDO -

Dov’è ricoverato?

 

BUSHY -

A Ely House.

 

RICCARDO -

O Dio, ispira adesso il suo dottore
che l’aiuti a calarsi nella tomba.
La sola fodera dei suoi forzieri
può servire a confezionar casacche
per buona parte dei nostri soldati.
Signori, andiamo tutti a visitarlo.
In tutta fretta, ma pregando Iddio
di farci arrivar tardi.(24)

 

TUTTI -

E così sia.

 

(Escono)

 

ATTO SECONDO

 

 

 

SCENA I

 

Londra. Ely House.

 

GIOVANNI DI GAUNT è a letto infermo: con lui è il fratello EDMONDO LANGLEY, Duca di York

 

GAUNT -

Che dici, il Re verrà al mio capezzale,
ch’io possa spender l’ultimo mio fiato
ad istillare qualche onesto monito
alla sua irrequieta giovinezza?

 

YORK -

Non datevene cruccio,
non fate a gara con il vostro fiato;
al suo orecchio ogni consiglio è vano.

 

GAUNT -

Oh, dicon che la voce di chi muore
attragga le coscienze
come l’eco d’un’armonia profonda;
che le parole di chi n’ha più poche
raramente son pronunciate invano:
esala dalla bocca verità
chi vi dà fiato nell’estremo duolo.
Chi sta sul punto di tacer per sempre
è più ascoltato d’altri
cui giovinezza e vita spensierata
appresero a parlare per blandire.(25)
S’imprime più l’estremo nostro istante
che tutto il resto della nostra vita.
Il sole che tramonta all’orizzonte,
è una musica all’ultime sue note,
è l’ultimo sapore della torta,
più dolce proprio perché è alla fine,
destinato a restare nel ricordo
più di quanto si sia prima gustato.
Se Riccardo non ascoltò consigli
da me vivo, c’è almeno da sperare
che le parole dello zio morente
valgano adesso a scuotergli l’orecchio.

 

YORK -

No, quell’orecchio è tutto rintronato
dai suoni della bassa piaggeria:
le lodi il cui sapore è sempre dolce
anche all’orecchio degli uomini saggi;
le canzoni lascive,
al velenoso suono delle quali
la gioventù dà volentieri orecchio;
o l’ultime notizie delle mode
venute in voga nell’altera Italia,
la cui maniera segue scimmiottando
con passo zoppo e in vile imitazione,
questo nostro retrogrado paese.
C’è forse qualche frivolezza al mondo
- per quanto vile e bassa, purché nuova -
che non gli venga soffiata all’orecchio?
Tardi giunge pertanto ogni consiglio
per trovare un orecchio che l’ascolti
là dove volontà
è sempre ammutinata contro il senno.
Rinunciate a indicar la giusta via
a chi vuol scegliersi la sua da solo.
Vi manca il fiato, e volete sprecare
quel poco che vi resta?

 

GAUNT -

Mi sento come un profeta ispirato
e, nel trarre il mio ultimo respiro,
formulo su di lui questo presagio:
la sua sfrenata, furiosa deboscia
è una fiammata che non può durare;
perché i fuochi violenti
divorano se stessi in poco tempo;
le pioggerelle durano di più
dei grossi rumorosi temporali;
cavallo cui sia dato troppo sprone
è presto stanco; cibo trangugiato
con ingordigia strozza chi lo mangia;
la vanità, insaziato cormorano,
consumati i suoi mezzi, si fa preda
subito di se stessa.
Questo superbo nostro regal trono,
quest’isola scettrata,
questa terra d’auguste maestà,
questo seggio di Marte che Natura
s’è costruita a farne sua difesa
contro l’infetta mano della guerra;
questa felice nostra stirpe d’uomini,
questo piccolo mondo, questa gemma
incastonata nell’argenteo mare
che la protegge come un alto vallo
o il profondo fossato d’un castello
dall’invidia di terre men felici;
quest’angolo di mondo benedetto,
questo nostro paese, questo regno,
quest’Inghilterra, nostra alma nutrice,
questo grembo prolifico di principi
di stirpe regia e per questo temuti,
illustri per natali, celebrati
per le gesta compiute fuori casa
al servizio della cristiana fede
e dell’autentica cavalleria
fin là, dove, nella Giudea caparbia,
sta il sepolcro del Redentor del mondo,
il figlio di Maria benedetta;
questa patria di tante anime fulgide,
questa cara, adorata nostra terra,
cara, per la sua gloria, a tutto il mondo,
ora è data in affitto,
- e mi vien da morire solo a dirlo -,
al pari d’un qualunque fondo rustico
o d’una fattoria da quattro soldi.
E così l’Inghilterra,
cinta da questo trionfante mare,
la cui costa, con l’alte sue scogliere
respinge l’invido, perenne assedio
dell’equoreo Nettuno,
è ora cinta solo di vergogna,
di scartafacci imbrattati d’inchiostro
e di vari strumenti d’ipoteca
vergati su marcite pergamene.
Questa nostra Inghilterra,
usa da sempre a conquistare gli altri
fa con vergogna conquista di sé.
Ah, potesse svanire un tale obbrobrio
con lo svanire di questa mia vita,
qual morte lieta sarebbe la mia!

 

Entrano RE RICCARDO, la REGINA, AUMERLE, BUSHY, GREEN, BAGOT, ROSS e VILLOUGBY

 

YORK -

Il re è qui. Cercate di trattare
con molto tatto la sua giovinezza;
i puledri son già per sé focosi,
se pungolati, subito s’impennano.

 

REGINA -

Come sta il nobile nostro zio Lancaster?

 

RICCARDO -

Caro zio, come state?
Come si sente il nostro vecchio Gaunt?

 

GAUNT -

Come s’addice bene questo nome
al mio stato presente!… “Vecchio Guanto”:(26)
e smunto sono, e logoro dagli anni.
È che dentro di me
il dolore ha osservato e mantenuto
un tedioso digiuno; e chi digiuna
senza ridursi smunto e macilento?
Troppo tempo ho vegliato al capezzale
di questa nostra assonnata Inghilterra,
e lo star troppo svegli fa magrezza
e chi è magro ha l’aspetto macilento.
La gioia di cui godon gli altri padri
- la vista dei lor figli -
osserva in me un digiuno rigoroso;
e tu, imponendomi tale digiuno,
m’hai reso così smunto ed emaciato.
Ed ora vo preciso come un guanto
nella tomba, che mi sta come un guanto
la cui cava ventraia
nient’altro eredita da me che ossa.

 

RICCARDO -

Possibile che un uomo così infermo
scherzi con tanta arguzia sul suo nome?

 

GAUNT -

È la stessa disgrazia
che si diverte a beffarsi di sé.
Tu vuoi uccidere il mio nome in me,(27)
ed io mi faccio beffa del mio nome,
per lusingarti, possente sovrano.

 

RICCARDO -

Oh, bella! Devon forse i moribondi
lusingare chi loro sopravvive?

 

GAUNT -

Al contrario: sono i sopravviventi
a lusingar chi muore..

 

RICCARDO -

E allora perché tu, che stai morendo,
affermi di volermi lusingare?

 

GAUNT -

Perché chi sta morendo qui sei tu,
anche s’io son, tra i due, il più malato.

 

RICCARDO -

Io son sano e respiro, caro zio.

 

GAUNT -

È vero, ma Colui che m’ha creato
sa com’io veda quanto tu stia male;
anche se, da malato, io veda poco.
Il tuo letto di morte è il tuo paese,
e tu vi giaci sopra
ammalato nella reputazione;
e affidi, da malato sprovveduto,
la cura del tuo corpo consacrato
ai medici che primi t’han ferito.
Nel breve cerchio della tua corona
sono annidati mille adulatori;
è un cerchio non più grande del tuo capo,
eppure, chiuso in così angusto limite,
c’è un guasto grande come la tua terra.(28)
Oh, se tuo nonno,(29) con occhio profetico,
avesse mai potuto antivedere
la rovina della sua discendenza
ad opera del figlio di suo figlio,
non t’avrebbe permesso di raggiungere
questo potere che è la tua vergogna;
avrebbe fatto in modo di privartene
prima che tu ne venissi in possesso,
ché tu stesso non sei or posseduto
al punto di destituir te stesso.
Fossi tu pure re del mondo intero,
sarebbe già per te grande vergogna
concedere in affitto questo regno;
ma poiché il mondo del quale sei re
è solo questa povera Inghilterra,
è tanta più vergogna
coprirla di vergogna in questo modo.
Ma tu dell’Inghilterra non sei il re,
sei solo il suo padrone-proprietario.
Ora il tuo stato, in termini legali,
è quello d’uno soggetto alla legge,
e tu…

 

RICCARDO -

E tu, lunatico svampito,
che ti fai forte nella presunzione
del privilegio che ti dà la febbre,
ardisci col tuo gelido rabbuffo
di far impallidir la nostra guancia,
scacciando dalla sua nativa sede
il regal nostro sangue?…
Per la legittima regal maestà
del mio trono, non fossi tu il fratello
del figlio di Edoardo, il grande re,
codesta tua linguaccia
che ti rotola sciolta nella testa
farebbe rotolare quella testa
via da quelle tue spalle irriverenti!

 

GAUNT -

Non risparmiarmi, non avere scrupoli,
perch’io sia figlio dello stesso sangue
di tuo padre Edoardo, mio fratello!
Tu come il pellicano,(30)
quel sangue l’hai spillato già ben bene,
e tracannato fino a ubriacartene.
L’anima pura e innocente di Gloucester,
mio fratello(31) - che sia beata in cielo,
mi può esser d’aiuto a dimostrare
che non avesti remora a spillare
anche il sangue di tuo cugino Edoardo.(32)
Allèati col male che m’affligge,
e sia pari la tua efferatezza
all’adunca vecchiezza,
che tu possa recidere d’un colpo
un fiore ch’è d’assai tempo avvizzito.
Vivi nell’ignominia,
ma l’ignominia non muoia con te:
queste parole sian, da qui in avanti,
il tuo tormento.
(Agli assistenti)
Portatemi al letto,
per poi portarmi assai presto alla tomba.
Resti ad amar la vita
chi da essa riceve amore e onore!

(Esce portato dai servi)

 

RICCARDO -

E muoia la vecchiaia e l’umor nero!
Tu li possiedi entrambi,
ed entrambi s’addicono alla tomba.

 

YORK -

Sire, mettete questi suoi scongiuri
nel conto del suo male e dell’età.
Io vi posso giurar sulla mia vita,
ch’egli vi vuole bene e vi tien caro
almeno al pari di suo figlio Enrico,
il duca d’Hereford, se fosse qui.

 

RICCARDO -

Dici giusto: qual è l’amore di Hereford,
tale è il suo; e così per loro è il mio.
E tutto vada come deve andare.

Entra NORTHUMBERLAND

 

NORTHUMBERLAND -

Altezza, il vecchio Gaunt si raccomanda
alla vostra maestà.

 

RICCARDO -

Che cosa dice?

 

NORTHUMBERLAND -

Più nulla. Ormai per lui è detto tutto.
La sua lingua è strumento senza corde.
Ormai parole, vita e tutto il resto
il vecchio Lancaster l’ha consumato.

 

YORK -

Sia ora York il prossimo
a fare simigliante bancarotta.
La morte, pur nel suo tetro squallore,
pone un fine agli affanni dei mortali.

 

RICCARDO -

Il frutto più maturo cade prima;
ora è toccato a lui, consumato
è il suo tempo; a noi il cammino
rimane ancora tutto da percorrere.
Basta perciò di questo.
Ora pensiamo alla guerra d’Irlanda.
Dobbiamo sradicare da quell’isola
quei loro rozzi, setolosi kerni,
che vivon come bestie velenose
dove nessun veleno cresce e vive.(33)
E poiché questa poderosa impresa
esige un grosso sforzo finanziario,
decretiamo fin d’ora, a farvi fronte,
la confisca di tutto il vasellame,
del denaro contante e delle rendite
che furono di questo nostro zio.

 

YORK -

Ah, fino a quando dovrò pazientare?
Fino a quando la mia lealtà di suddito
mi darà ancor la forza
di patire in silenzio l’ingiustizia?
Né l’assassinio di Tomaso Gloucester,
né l’esilio di Bolingbroke,
né le atroci insolenze contro Gaunt,
né il veto posto alle nozze d’Enrico,(34)
né la mia stessa caduta in disgrazia
sono valsi finora ad inasprire
la paziente espressione del mio volto,
o a tracciarvi una ruga di dispetto
contro il mio re. Son l’ultimo dei figli
di quel nobile padre ch’era Edoardo,(35)
e dei quali tuo padre era il maggiore.
Mai leone fu più feroce in guerra,
mai agnello più mansueto in pace
di quel giovane gentiluomo e principe.
Sue sono le fattezze del tuo viso,
ed anche come il tuo era l’aspetto
quando aveva la stessa tua età;
e quando gli veniva di accigliarsi
contro qualcuno, era contro i francesi,
mai contro i suoi congiunti.
La sua nobile mano dispensava
ciò che aveva egli stesso conquistato;
mai dispensò quello che conquistato
aveva il vittorioso padre suo.
Né giammai le sue mani
si macchiarono del sangue di parenti;
l’ebbe sempre arrossate
di quello dei nemici di sua gente.
Ohimè, Riccardo, questo vecchio York,
s’è fatto trascinar troppo lontano
portato dal dolore;
non farebbe altrimenti un tal confronto…
(Singhiozza)

 

RICCARDO -

Oh, oh, che ti succede, zio? Che hai?

 

YORK -

Oh, mio Sire, vogliate perdonarmi,
se vi piaccia; ma se non vi piacesse,
son contento lo stesso.
Perché dunque volete confiscare,
per poi ridurli nelle vostre mani,
i beni mobili e le proprietà
spettanti in successione da suo padre
all’esiliato figlio Enrico d’Hereford?
Forse che non è morto il vecchio Gaunt?
Forse suo figlio Enrico non è vivo?
Non era forse Gaunt un uomo giusto?
Forse non è leale Enrico d’Hereford?
Giovanni Gaunt non meritava eredi?
E non è forse degno il figlio?
Private Hereford dei suoi diritti,
ed avrete spogliato il vostro tempo
degli statuti e delle guarentigie
che sono suoi per antico retaggio;
fa’ che domani non sia come l’oggi,
non essere te stesso. Giacché a quale titolo
sei re se non per un diritto antico
di chiara discendenza e successione?
Ora, davanti a Dio,
e Dio non voglia che questo s’avveri!,
se tu confischi ingiustamente a Enrico
quanto deve venirgli per diritto,
chiamando in revoca la concessione
delle reali lettere patenti,
sì ch’ei non possa più rivendicare
pel tramite dei suoi procuratori
la consegna dei beni a lui spettanti,
e gli rifiuti di offrirti l’omaggio,(36)
t’attirerai addosso mille rischi,
perderai mille cuori ben disposti,
e spronerai il mio paziente spirito
a nutrire pensieri incompatibili
con l’onore e la lealtà di suddito.

 

RICCARDO -

Tu puoi pensare, zio, quello che vuoi;
ma noi procederemo a confiscargli
denaro, vasellame, beni e tutto.

 

YORK -

In questo caso, io non ci starò.
Non contare su me. Addio, mio sire.
Che avverrà dopo, nessuno può dire;
è facile, comunque, prevedere
che dal male non possa uscire il bene.(37)
(Esce)

 

RICCARDO -

Bushy, corri dal conte di Wiltshire
e digli di venire ad Ely House,
per sistemare la nostra faccenda.(38)
Partiamo per l’Irlanda posdomani,
ed è gran tempo, credo.