Anzi, voi tutti qui,
che avete gli occhi fissi su di me,
che abbaio su me stesso
come un cane tenuto alla catena,
pur se alcuno tra voi, come Pilato,
dentro di sé se ne lavi le mani
e al di fuori fa mostra di pietà,
voi tutti qui, come tanti Pilati,
m’avete abbandonato alla mia croce;
e non c’è acqua che tal colpa lavi.
NORTHUMBERLAND -
Via, monsignore, non perdiamo tempo.
Leggete dunque questo documento.
RICCARDO -
Gli occhi mi si riempiono di lacrime,
non posso leggere; ma l’umor salso
non me li rende ciechi fino al punto
ch’io non possa discernere qui attorno
un assortito branco di felloni.
Anzi, se volgo gli occhi su di me,
mi scopro d’essere uno come loro,
per aver consentito alla mia anima
di spogliare di tutta la sua pompa
il corpo d’un sovrano consacrato,
di avvilirne la gloria,
di abbassarne ad un’umil sudditanza
l’orgogliosa maestà,
la potestà al livello d’un bifolco.
NORTHUMBERLAND -
Mio signore…
RICCARDO -
No, no, né tuo signore,
né d’alcun altro, borioso insolente!
Io non ho nessun nome, nessun titolo,
e non ho più nemmeno il nome mio
che mi fu imposto al fonte di battesimo.(93)
Ah, che giorno terribile è mai questo,
che io, con tanti inverni sulle spalle,
non sappia più con che nome chiamarmi!
Oh, fossi un re per gioco, un re di neve,
e dissolvermi in mille gocce d’acqua
al calore del sole di Bolingbroke!
(A Bolingbroke)
O tu, buon re, gran re - seppur non grande
nella bontà - se ancor la mia parola
è moneta che ha corso in Inghilterra,
fammi portare subito uno specchio(94)
ch’io vi possa vedere la mia faccia
com’è, dopo che in essa la maestà
ha fatto bancarotta.
BOLINGBROKE -
Vada qualcuno a prendere uno specchio.
(Esce uno del seguito)
NORTHUMBERLAND -
Intanto, nell’attesa dello specchio,
mio signore, leggete questa carta.
RICCARDO -
Demonio! Vuoi già darmi il tuo tormento
avanti ch’io precipiti all’inferno!
BOLINGBROKE -
Lascia stare, Northumberland, desisti.
NORTHUMBERLAND -
Ma i Comuni non s’accontenteranno.
RICCARDO -
I Comuni saranno soddisfatti
perch’io leggerò loro quanto basta,
quando avrò sotto gli occhi il vero libro
dove son scritti tutti i miei peccati,
vale a dire me stesso.
(Rientra l’uomo con lo specchio,
Riccardo glielo strappa dalle mani)
Qua quello specchio! È qua ch’io voglio leggere.
(Guardandosi allo specchio)
Come! Non più scavata di così
la mia faccia? Con tanti colpi inferti,
non vi lasciò il dolor più grossa traccia?
Ah, specchio adulatore, tu m’inganni
come facevano i miei cortigiani
nella felice stagion del mio regno.
Era questa la faccia che, ogni giorno,
provvedeva per diecimila uomini
sotto il tetto della sua stessa casa?
La stessa che, radiosa come un sole,
costringeva chiunque la guardasse
ad abbassar le palpebre?
Che s’è allietata di tante follie
per abbassarsi infine avanti a Bolingbroke?
Fragile gloria splende in questa faccia,
fragile com’è fragile la gloria!
(Scaglia lo specchio a terra)
Eccoti frantumato in mille pezzi!
Annota, re votato ormai al silenzio,(95)
la morale di tutto questo scherzo:
con qual rapidità
il dolore ha distrutto la mia faccia.
BOLINGBROKE -
(Indicando lo specchio in frantumi)
Quella era l’ombra della vostra faccia
e a distruggerla, come avete fatto,
è stata l’ombra del vostro dolore.(96)
RICCARDO -
L’ombra del mio dolore… Sì, ripetilo…
Ah, sì, vediamo, è vero, è proprio vero!
Il mio dolore infatti è tutto dentro
e queste forme esterne
sono soltanto ombre della pena
che non si vede e che cresce in silenzio
all’interno dell’animo straziato.
È là l’essenza vera del dolore;
e grazie, o re, alla tua munificenza
che mi fornisce non solo le cause
dei miei lamenti, ma m’insegna il modo
anche di lamentare quelle cause.
Ti chiedo solo una grazia, e poi vado,
non ti disturbo più. Posso ottenerla?
BOLINGBROKE -
Senz’altro. Ditela, gentil cugino.
RICCARDO -
“Gentil cugino”… Sono più d’un re!
Quand’ero re, i miei adulatori
non erano che sudditi;
ed ora che son divenuto suddito,
ho come adulatore un re. Ma allora,
quale bisogno ho io di supplicare
per una grazia, se son così grande?
BOLINGBROKE -
Chiedete, ad ogni modo.
RICCARDO -
Ed otterrò?
BOLINGBROKE -
Ma certo!
RICCARDO -
Allora lasciami andar via.
BOLINGBROKE -
Dove?
RICCARDO -
Dove vorrai, purché lontano
il più possibile dalla tua vista.
BOLINGBROKE -
(A quelli del seguito)
Allora accompagnatelo alla Torre!
RICCARDO -
Oh, bene: “accompagnatelo!”
Potevi dir “rubatelo”, piuttosto,
perché qui siete tutti quanti ladri,(97)
voi che con tanta rapida destrezza
salite perché un vero re discende.
(Esce scortato da alcune guardie e da alcuni pari)
BOLINGBROKE -
Stabiliamo che mercoldì venturo
abbia solennemente luogo il rito
dell’incoronazione…
Signori, preparatevi.
(Escono tutti meno il Vescovo di Carlisle,
l’abate di Westminster e Lord Aumerle)
WESTMINSTER -
Doloroso spettacolo!
CARLISLE -
E foriero di chi sa che sciagure.
I figli che non sono ancora nati
dovran sentire nelle loro carni
le trafitture di questa giornata!
AUMERLE -
Sacri prelati, ma non c’è alcun piano
per cancellare da questo paese
l’onta di questa perniciosa macchia?
WESTMINSTER -
Signore, prima ch’io vi possa dire
liberamente il mio pensiero in merito,
voglio che mi facciate giuramento
non solo di tener sepolti in voi
i miei piani segreti, ma altresì
di dichiaravi pronto a porre in atto
qualunque cosa io possa progettare.
Vedo le vostre fronti corrucciate,
specchio dei vostri cuori esacerbati,
i vostri occhi offuscati dalle lacrime…
Venite a cena da me questa sera:
vi esporrò un piano che aprirà la via
a giorni più felici per noi tutti.
(Escono)
ATTO QUINTO
SCENA I
Londra, una via che mena alla Torre.
Entra la REGINA con alcune DAME.
REGINA -
Ecco, da qui deve passare il Re;
questa è la via che conduce alla Torre,
questa funesta Torre,
fatta erigere un dì da Giulio Cesare,(98)
e dentro le cui viscere di pietra
è condannato a viver prigioniero
lo spodestato sposo mio signore,
per volontà del tracotante Bolingbroke.
Ecco, sediamoci un momento qui,
se ancora questa sediziosa terra
sa offrire un lembo in cui possa sostare
la moglie del legittimo suo re.
Entra RICCARDO scortato da una guardia
Eccolo là, guardate…
- anzi, no, non guardate, non guardate -
come appassisce la mia bella rosa!…
Ma sì, levate gli occhi su di lui,
sì che possiate sciogliervi in rugiada
dalla pietà e ridare a quella rosa
la freschezza di amorose lacrime…(99)
(Avvicinandosi a Riccardo)
O tu, modello di quella ruina
in cui rifulse tutta la grandezza
di Troia antica, atlante dell’onore,
tomba di re Riccardo non più re!
Tu, bellissimo ostello,
perché dovresti dare ricettacolo
nel tuo interno all’attristata ambascia,
mentre il trionfo è diventato l’ospite
d’uno spaccio di birra?
RICCARDO -
Non ti fare alleata del dolore,
cara, ad accelerare la mia fine.
Cerca di abituarti, anima bella,
a pensare al trascorso nostro stato
come ad un dolce sogno,
pure se la cruda realtà al risveglio
non ci mostra che questo.
Dolcezza mia, io son compagno d’armi
d’un destino beffardo, a lui legato
sarò fino alla morte. Torna in Francia,
e trova asilo in qualche monastero:
una vita vissuta santamente,
quando saremo in un diverso mondo,
ci farà conquistar quella corona
che ci hanno in questo strappato dal capo
l’ore da noi vissute nel profano.
REGINA -
E che! Tanto malato e indebolito
nell’anima e nel corpo è il mio Riccardo?
Bolingbroke ha deposto il tuo intelletto?
È penetrato al fondo del tuo cuore?
Il leone morente, a non far altro,
avventa l’unghia al suolo e lo ferisce,
rabbioso di sentirsi sopraffatto;
e tu, come un contrito scolaretto,
accetti docilmente il tuo castigo,
baci la sferza e, avanti all’altrui collera,
vai strisciando con vile umiliazione?
Tu, il leone, tu, il re degli animali?
RICCARDO -
Hai detto bene: re degli animali!
Se non fossero stati tutti bestie,
sarei ancora un re felice d’uomini.
Ma tu, cara, che già fosti regina,
prepàrati a partire per la Francia.
Fa’ conto ch’io sia morto,
e di ricever l’ultimo mio addio,
come fosse dal mio letto di morte.
Nelle tediose tue notti d’inverno
siediti accanto al fuoco,
in mezzo alla tua vecchia brava gente,
fatti da loro raccontare storie
di tempi dolorosi ormai lontani;
e prima di dir loro “buona notte”,
per ricambiarli delle lor tristezze
racconta la mia storia lamentevole,
e tutti se n’andranno a letto in lacrime;
giacché perfino gli inerti tizzoni
ai tristi accenti delle tue parole
avranno un empito di compassione
e spegneran la brace con il pianto;
e qual per lutto si volgerà in cenere
quale in nero carbone
nell’ascoltare come fu deposto
un legittimo re.
Entra NORTHUMBERLAND con una scorta
NORTHUMBERLAND -
Bolingbroke ha mutato idea, signore:
non alla Torre voi dovete andare,
ma al castello di Pomfret (100).
S’è disposto, signora, anche per voi:
che partiate senz’altro per la Francia.
RICCARDO -
Tu sei stato, Northumberland, la scala
per la quale il prevaricante Bolingbroke
ora sale al mio trono;
ma il tempo non sarà molto più vecchio
di molte ore da questa in cui ti parlo
che questo turpe, immondo tuo peccato,
giunto al suo punto di suppurazione
scoppierà marcio come un gran bubbone.
Quand’anche egli divida il suo potere
con te, metà e metà,
tu penserai che aver quella metà
è misero compenso per l’aiuto
che gli hai prestato a conquistarlo tutto;
lui, dal suo canto, penserà che tu,
da quell’esperto che ti sei mostrato
nell’arte d’insediare re illegittimi,
saprai trovare il modo anche per lui,
per poco ch’egli te ne dia lo spunto,
di farlo stramazzare a capofitto
dall’usurpato trono.
L’amore tra due uomini malvagi
si converte in reciproca paura,
e la paura si converte in odio,
e l’odio getta entrambi, o l’uno d’essi,
in pericolo e meritata morte.
NORTHUMBERLAND -
Bene, ricada pure la mia colpa
sul mio capo, e facciamola finita!
Ora ditevi addio e separatevi,
perché dovete separarvi e subito.
RICCARDO -
Eccomi doppiamente divorziato.
Empia genia, voi violate così
una duplice sacrosanta unione:
quella tra me e la mia corona, prima,
e poi tra me e la donna ch’è mia sposa!
Vieni, mia sposa, il vincolo giurato
che ci ha tenuti uniti fino ad oggi
sciogliamo con un bacio,
anche se con un bacio esso fu stretto.
(Si baciano)
Ora puoi separarci, Lord Northumberland:
io, verso settentrione,
dove malaria e brividi di freddo
fanno il clima malsano;
mia moglie in Francia, donde era passata
in Inghilterra in fasto di regina,
adorna e bella come il dolce maggio,(101)
e dove adesso è da voi rinviata
come il giorno dei morti
o come il giorno più breve dell’anno.
REGINA -
E dobbiam separarci? Esser divisi?
RICCARDO -
Sì, purtroppo, amor mio,
mano da mano, ahimè, cuore da cuore.
REGINA -
(A Northumberland)
Esiliateci entrambi,
e mandate in esilio il re con me.
NORTHUMBERLAND -
Sarebbe certamente un po’ più umano,
ma assai meno politico, signora.
REGINA -
Lasciate, allora, ch’io vada con lui.
RICCARDO -
Così piangendo insieme,
faremo in due un unico dolore.
Piangi tu per me in Francia,
io per te qui. Molto meglio lontani,
se vicini non si può stare insieme.
Va’, misura i tuoi passi
coi tuoi sospiri; io farò dei miei
la stessa cosa con i miei lamenti.
REGINA -
E più lunghi saranno i miei ed i tuoi
quanto più lungo ci sarà il cammino.
RICCARDO -
Io gemerò due volte ad ogni passo,
il mio cammino essendo assai più breve;
lo allungherà l’angoscia del mio cuore
con il suo peso… Su, anima mia,
non stiamo a corteggiar troppo il dolore;
perché, sposandolo, è di tal lentezza
che sarà poi fatica liberarcene (102).
Chiudiamoci la bocca con un bacio,
così…
(Si baciano)
… e separiamoci in silenzio..
Ti do così il mio cuore, e prendo il tuo.
REGINA -
No, quello mio ridammelo.
Non è giusto ch’io prenda su di me
di tenermi il tuo cuore per ucciderlo.
(Si baciano ancora)
Ecco, così me lo sono ripreso.
Ed ora va’, ch’io possa ancora ucciderlo
ma con un gemito.
RICCARDO -
Con questi indugi
facciamo del dolore un gioco frivolo.
Ancora addio. Dica il dolore il resto.
SCENA II
Il palazzo del Duca di York
Entrano il DUCA e la DUCHESSA di YORK
DUCHESSA -
M’avevate promesso, mio signore,
quando il pianto vi fe’ troncare il filo
della storia dei nostri due cugini
al lor ritorno a Londra,
che m’avreste poi raccontato il seguito.
YORK -
Dov’è che l’interruppi?
DUCHESSA -
A quel triste momento, mio signore,
che da mani villane ed incivili
si buttava sul capo a Re Riccardo
dalle finestre cenere e rifiuti.
YORK -
Allora, come vi dicevo, il Duca,
il grande Bolingbroke, montato in sella
ad un destriero ch’era tutto fuoco,
e pareva anche lui tutto compreso
dell’alterigia del suo cavaliere,
con andatura lenta e maestosa
teneva il passo, mentre mille voci
gli gridavano: “Dio ti salvi, Bolingbroke!”
Avreste detto che anche le finestre
fossero tutte un grido, tanti gli occhi
di giovani e di vecchi tripudianti
che dardeggiavano dai davanzali,
tutti desiderosi di lanciarsi
su quella faccia; e che gli stessi muri
tutti ornati con fantasie dipinte
gridasser tutti insieme: “Benvenuto!
Gesù ti benedica, Enrico Bolingbroke!”
mentr’egli, a testa nuda,
ed or di qua ed or di là voltandosi,
a loro si chinava giù del collo
di quel suo scalpitante palafreno
dicendo: “Grazie, grazie, cittadini!”,
e così sempre facendo, passava oltre.
DUCHESSA -
Ah, povero Riccardo!
E lui, frattanto, come procedeva?
YORK -
Come a teatro, quando esce di scena
l’attore favorito, tutti gli occhi
danno appena uno sguardo noncurante
su quello ch’entra dopo, già pensando
di restare annoiati alle sue chiacchiere,
così, e con fare ancora più sprezzante,
sogguardavano il nobile Riccardo
gli occhi di tutti. Nessuno tra loro,
che gridasse anche a lui un: “Dio ti salvi”,
nessuna lingua che, con lieto accento,
gli volesse gridare un ” bentornato”;
anzi, sopra il suo capo consacrato
gli buttavano cenere,
ch’egli, con mite smorfia di dolore,
si scuoteva di dosso rassegnato,
combattuto fra lacrime e sorriso
- segni d’interna angoscia e tolleranza -
talché se tutti i cuori ch’eran lì,
se Dio, per qualche suo alto disegno,
non li avesse induriti come acciaio,
avrebbero dovuto intenerirsi,
ché a quella vista la stessa barbarie
avrebbe avuto un moto di pietà.
Ma in queste cose ha la sua mano il cielo
ed alla sua suprema volontà
noi dobbiamo inchinarci rassegnati.
A Bolingbroke abbiamo ora giurato
fedele sudditanza: il suo potere
io riconosco e la sua dignità.
Entra AUMERLE
DUCHESSA -
Ecco mio figlio Aumerle.
YORK -
Fu Aumerle,
questo titolo ormai egli ha perduto
per la sua amicizia con Riccardo.
Dovrete d’ora in poi chiamarlo Rutland (103),
mia signora. Mi son fatto garante
in Parlamento della sua lealtà
e costanza di fede al nuovo re.
DUCHESSA -
Salute, figlio mio. Quali violette
ornano il manto della giovinetta
primavera?
AUMERLE -
Lo ignoro, madre mia,
né me ne importa molto.
Dio sa se m’è del tutto indifferente
esser uno e nessuno di quel numero.
YORK -
Bravo, ma bada a comportarti bene
in questa nostra nuova primavera,
che non ti càpiti d’esser falciato
prima che nasca il fiore dal tuo boccio.
Che notizie da Oxford?
Quelle giostre e tornei avranno luogo?
AUMERLE -
Ch’io sappia, mio signore, puntualmente.
YORK -
Ci sarai anche tu, per quanto so.
AUMERLE -
Ne ho intenzione, se Dio non lo vieta.
YORK -
Ma cos’è quel sigillo
che vedo penderti fuori dal petto?
E che! Impallidisci?… Andiamo, su,
fammi vedere che c’è in quella scritta.
AUMERLE -
È nulla, mio signore…
YORK -
Se è nulla, poco importa chi la vede.
Mi voglio sincerare. Fa’ vedere.
AUMERLE -
Supplico vostra grazia di scusarmi.
È cosa che non ha molta importanza,
che per qualche ragione
vorrei non fosse vista da nessuno.
YORK -
E ch’io, tuo padre, per qualche ragione
voglio vedere. Ho paura, ho paura…
DUCHESSA -
Di che cosa dovresti aver paura?
Si tratterà di qualche obbligazione
per procurarsi un bell’abbigliamento
da indossare per i festeggiamenti.
YORK -
Obbligazione verso se medesimo?
Che ci fa lui con un’obbligazione
a se stesso? Non esser sciocca, moglie.
Ragazzo, fammi veder quello scritto.
AUMERLE -
Vi scongiuro, scusatemi. Non posso.
YORK -
Ed io voglio vedere che cos’è.
Fa’ vedere, ti dico.
Gli strappa il cartiglio sigillato(104) dal petto,
lo legge e subito esclama:
Oh, tradimento!
Infame tradimento! Traditore!
vile furfante!
DUCHESSA -
Che c’è, mio signore?
YORK -
(Chiamando)
Ehi, là, oh, oh! Non c’è nessuno in casa?
Entra un servo
Sellatemi il cavallo! Dio, pietà,
qual perfidia dev’esserci qui sotto!
DUCHESSA -
Si può sapere che c’è, mio signore?
YORK -
Sellatemi il cavallo! Gli stivali!
(Esce il servo)
Ribaldo! Sul mio onore, la mia vita,
sulla mia gola, vado a denunciarlo!
DUCHESSA -
Si può sapere, insomma, che è successo?
YORK -
Zitta, femmina sciocca!
DUCHESSA -
Zitta un corno!
Voglio sapere. Che è successo, Aumerle?
AUMERLE -
Madre mia, state calma.
Niente di più di quanto può rispondere
la mia povera vita.
DIUCHESSA -
La tua vita!
YORK -
I miei stivali, dico! Andrò dal re.
Entra un servo con gli stivali
DUCHESSA -
(Cercando di impedire al servo che dia gli stivali al marito)
Picchia quest’uomo, Aumerle!
Povero mio ragazzo, sei intontito…
(Al servo)
Via di qua, tu, canaglia!
E non venirmi più davanti agli occhi.
(Strappa gli stivali dalle mani del servo, che esce)
YORK -
Dammi quegli stivali.
DUCHESSA -
Insomma, York, che cosa intendi fare?
Non vuoi saperne di tener celata
la trasgressione del tuo proprio sangue?
Abbiam forse altri figli?
O non siam più ormai in età di averne?
Non è stata la mia fecondità
ingoiata dal tempo?
E vuoi strappare tu alla mia vecchiaia
questo bel figlio mio,
e privarmi del bel nome di madre?
Non è simile a te? Non è tuo sangue?
YORK -
Insensata, demente d’una femmina!
Vuoi tu coprir questa losca congiura?
(Mostrandole il cartiglio strappato al figlio)
Qui sono una dozzina che han giurato
a mani giunte e messo per iscritto
d’assassinare il re alla festa d’Oxford.
DUCHESSA -
Lui non sarà del numero.
Lo tratterremo qui. Chi può incolparlo?
YORK -
Va’, va’, insensata donna!
Fosse anche venti volte figlio mio,
correrei ugualmente a denunciarlo.
DUCHESSA -
Avessi urlato tu per questo figlio
com’io nel partorirlo,
ti mostreresti adesso più pietoso.
Ah, sì, ora capisco quel che pensi:
tu sospetti ch’io sia stata infedele
al tuo letto, e che lui non sia tuo figlio.
Mio caro York, dolce marito mio,
allontana da te questo pensiero;
somiglia a te come può uomo a uomo;
non a me, né ad alcuno di mia razza.
Ma io lo amo.
YORK -
Togliti di mezzo,
femmina scervellata e petulante!
(Esce precipitosamente)
DUCHESSA -
Corrigli dietro, Aumerle.
Galoppa a tutto sprone
e va’ dal re a chiedergli perdono,
prima che giunga lui ad accusarti.
Io ti seguo. Con tutto che son vecchia,
so cavalcare almeno come York;
e non rialzerò le mie ginocchia
davanti a Bolingbroke, se prima questi
non t’abbia perdonato. Corri, va’!
(Escono)
SCENA III
Il castello di Windsor
Entrano BOLINGBROKE, in paramento da re, PERCY e altri nobili
BOLINGBROKE -
Possibile che non ci sia nessuno
che sappia darmi una qualche notizia
di quello scioperato di mio figlio?
Tre interi mesi che non lo rivedo.
Se un flagello m’incombe, quello è lui (105)!
Vorrei, signori, che alcuno di voi
potesse andarne in cerca e rintracciarlo.
Cercate in tutta Londra,
specie nei bassifondi e le taverne,
perché è là ch’egli bazzica, mi dicono,
con compagnacci rotti a tutti i vizi,
addirittura quelli che, di notte,
si dice che s’appostino nei vicoli
per rapinar le guardie ed i passanti;
e lui, viziato e debole novizio,
si fa un punto d’onore a dare mano
ad una sì dissoluta congrega.
PERCY -
Mio signore, saranno ora due giorni,
ho visto io il principe,
e gli ho parlato di questi tornei
che si terranno ad Oxford.
BOLINGBROKE -
E che cosa v’ha detto, il bellimbusto?
PERCY -
M’ha risposto che andava al lupanare
e che, sfilato un guanto dalla mano
della più bassa pulzella del posto,
se lo sarebbe infilato sull’elmo
a testimone dei di lei favori,
e con quel guanto di puttana in testa
si sarebbe sentito di sfidare
e scavallare il miglior cavaliere.
BOLINGBROKE -
Altrettanto vizioso che smargiasso!
E tuttavia attraverso questi vizi
scorgo qualche favilla di speranza
d’una vita migliore
che l’età può far ben maturare.
Ma chi vedo arrivare?
Entra AUMERLE stravolto
AUMERLE -
Dov’è il re?
BOLINGBROKE -
Che mai vorrà questo nostro cugino
che arriva qui con gli occhi stralunati
e con lo sguardo fisso da demente?
AUMERLE -
Dio salvi Vostra Grazia!
Vengo qui a chiedere a vostra maestà
di concedermi un breve abboccamento,
segretamente.
BOLINGBROKE -
Bene, voi signori,
per favore lasciateci un momento.
(Escono Percy e gli altri nobili)
AUMERLE -
Le mie ginocchia mettan le radici
per sempre qui, incollata al palato
mi rimanga la lingua, mio signore,
s’io m’alzerò o pronuncerò parola,
prima d’esser stato perdonato.
BOLINGBROKE -
Per una colpa solo intenzionale
o per azione diggià perpetrata?
Nel primo caso, per grave che sia,
non esito a concederti il perdono,
per acquistarne affetto e gratitudine.
AUMERLE -
Permettete ch’io chiuda quella porta
a chiave, che nessuno possa entrare
prima ch’abbia finito di parlarvi.
BOLINGBROKE -
Va bene, chiudi pure.
Come Aumerle ha chiuso, si sente bussare alla porta, e la voce del DUCA DI YORK che grida da fuori:
YORK -
Attento, Sire! Statti bene in guardia!
Davanti a te, costà, c’è un traditore!
BOLINGBROKE -
(Mettendo mano alla spada)
Ribaldo! Ti sistemo io, adesso!
AUMERLE -
No, ferma quella tua vindice mano!
Non hai nessun motivo di temere.
YORK -
(Da fuori)
Apri, re credulone e temerario!
O mi costringi per amor di suddito,
a parlarti con modi irriverenti!(106)
Apri la porta, o ch’io la mando in pezzi!
BOLINGBROKE -
(Apre la porta e lascia entrare York, poi la richiude a chiave)
Che c’è, zio? Dite, riprendete fiato.
Parlate: che pericolo c’incombe,
perché possiamo armarci ad affrontarlo?
YORK -
Toh, leggi qua, ed apprendi da te stesso
il tradimento: l’affannosa corsa
mi toglie il fiato per dirtelo a voce.
AUMERLE -
Ricorda, mentre leggi, la promessa
che m’hai fatta testé. Io son pentito.
Fa’ come se il mio nome non figuri
in calce a quello scritto; il cuore mio
non è più complice della mia mano.
YORK -
Lo è stato, sciagurato,
prima che la tua mano lo firmasse.
Gliel’ho strappato di mano, signore:
adesso è la paura, non l’affetto
la causa della sua resipiscenza.
Dimentica d’avergli perdonato,
che la clemenza non ti si riveli
come un serpente che ti morda il cuore.
BOLINGBROKE -
Congiura odiosa, grave ed ambiziosa!
O tu, leale e fedel genitore
d’un figlio traditore,
tu, chiara, pura, immacolata polla
donde s’è originato questo rivolo
che poi s’è aperto il corso deviando
per limacciosi, torbidi meandri;
la piena straripante del tuo bene
s’è convertita in male,
ma la bontà che alberga nel tuo cuore
saprà scusare questa brutta macchia
del tuo traviato figlio.
YORK -
No, signore,
costringerei così la mia virtù
a fare da ruffiana al di lui vizio,
ed egli andrà spacciando il nome mio
pel mondo insieme con la sua vergogna,
come fan certi figli spendaccioni,
che scialacquano tutto il patrimonio
raggranellato dal padre frugale.
No, no, l’onore mio tornerà a vivere
il giorno che morrà tanto disdoro;
o questa vita mia si giacerà
nella vergogna del suo disonore.
Uccidi me, se salvi a lui la vita.
Facendogli la grazia del respiro,
tu lasci in vita un bieco traditore,
e metti a morte un tuo fedele suddito.
(Bussano alla porta)
DUCHESSA -
(Da dentro)
Oh, mio signore, lasciatemi entrare!
Per l’amore di Dio, fatemi entrare!
BOLINGBROKE -
Qual supplicante con sì acuta voce
manda da fuori queste ansiose grida?
DUCHESSA -
(Da fuori)
Una donna, tua zia, possente re!
Son io, debbo parlarti, abbi pietà!
Apri. Viene da te per mendicare
una che non ha steso mai la mano.
BOLINGBROKE -
Sta’ a vedere che questa nostra scena
da tanto seria e tragica qual era
si muta ne “La Mendicante e il Re”!(107)
(A Aumerle)
Apri, pericoloso mio cugino,
falla entrare; tua madre viene qui
certamente, capisco, ad intercedere
presso di me per il tuo odioso crimine.
YORK -
Se tu perdoni chiunque interceda,
chi sa quanti altri orribili misfatti
la tua clemenza farà prosperare.
Quest’arto è infetto: una volta amputato,
tutto il resto del corpo resta sano;
risparmiato, corrompe tutto il corpo.
(Aumerle apre la porta)
Entra la DUCHESSA
DUCHESSA -
Non date ascolto a questo cuor di pietra,
Sire. L’amore che non ama i suoi
non è capace d’amar nessun altro.
YORK -
Che fai tu qui, femmina scervellata?
Vogliono forse quei tuoi vizzi seni
allevare di nuovo un traditore?
DUCHESSA -
Dolce York, sii paziente.
E tu mio buon sovrano, dammi ascolto.
(S’inginocchia)
BOLINGBROKE -
(Sollevandola)
Su, su, mia cara zia.
DUCHESSA -
No, ti supplico,
non ancora: starò davanti a te
a trascinarmi in ginocchio in eterno,
e non vorrò veder giorno felice
finché non m’avrai imposto tu la gioia
di concedere il tuo perdono a Rutland,
a questo mio colpevole figliolo.
AUMERLE -
Mi unisco alla preghiera di mia madre,
e piego insieme a lei i miei ginocchi.
(S’inginocchia)
YORK -
E contro l’una e l’altro io piego i miei
che ti sono fedeli, innanzi a te.
(S’inginocchia anch’egli)
Se accorderai la grazia a questi due,
ti verrà male.
DUCHESSA -
Supplica sul serio?
Guardalo in faccia: nemmeno una lacrima.
Le sue preghiere sono sol per finta;
le sue parole vengon dalla bocca,
le nostre ci prorompono dal cuore.
Egli ti prega senza convinzione,
sperando di non essere esaudito:
non ti preghiamo col cuore e con l’anima,
con tutti noi. Le sue ginocchia stanche,
lo so, non vedon l’ora di rialzarsi:
le nostre resterebbero piegate
fino a mettere le radici in terra.
Le sue preghiere sono ipocrisia;
le nostre piene di sincero zelo
e di profonda, sincera onestà.
Esse soverchiano d’assai le sue;
fa che incontrino dunque quella grazia
che attende chi con vera fede prega.
BOLINGBROKE -
Bene, alzatevi adesso, cara zia.
DUCHESSA -
Non: “alzatevi”; di’ prima: “perdono”!
Foss’io la tua nutrice,
e dovessi insegnarti a sillabare,
“perdono” è la parola
che dovresti imparare a pronunciare
per prima. Mai ho tanto sospirato
d’udire pronunciare una parola!
Pronunciala, mio Sire, di’: “perdono”,
e ad insegnartelo sia la pietà;
è una parola breve,
ma più che breve, è una parola dolce;
e nessuna parola sta sì bene
sulla bocca d’un re, come “perdono”.
YORK -
Dilla in francese, o re: “pardonnez-moi”.
DUCHESSA -
Ah, crudele marito cuordipietra!
Tu vuoi mutar “perdono” in “non perdono”,(108)
mettere addirittura la parola
contro se stessa!…(109) No, niente francese!
Di’: “perdono”, mio re,
come si dice dalle parti nostre;
perché questo francese a doppio taglio
noi non lo comprendiamo…
Ah, gli occhi tuoi accennano a parlare:
presta loro la lingua,
e intanto appòggiati l’orecchio al cuore,
sì che pietà, sentendolo trafitto
dalle preghiere nostre e dai lamenti,
possa spinger la lingua a pronunciarla,
quella parola.
BOLINGBROKE -
Su, su, zia, alzatevi.
DUCHESSA -
Io non ti chiedo di dirmi di alzarmi:
ti chiedo solo di dirmi: “perdono”.
Tutto quello che voglio è il tuo perdono.
BOLINGBROKE -
Ebbene, gli perdono.
E così spero mi perdoni Iddio.
DUCHESSA -
(Alzandosi)
Oh felice successo d’una supplica!
Son tutta ancor gelata di paura.
Ripetilo: due volte dir: “perdono”
non vuole dir perdonare due volte,
ma rafforzare il perdono già dato.
BOLINGBROKE -
Gli ho perdonato, via, con tutto il cuore.
DUCHESSA -
Un dio in terra, ecco cosa sei!
BOLINGBROKE -
Quanto agli altri, però, di quella cricca,
il nostro fido cognato e l’Abate,(110)
sentiranno abbaiarsi alle calcagna
molto presto la loro distruzione.
Buon zio, provvedi ad inviare a Oxford,
o dovunque si siano rintanati,
forze adeguate: non c’è luogo al mondo
dov’io, lo giuro, non saprò raggiungerli.
Arrivederci, zio.
1 comment