Ma non ho torto un capello al vostro Don Carlo, mi sono limitato a dare dei consigli.

 

DON SALLUSTIO

Avete fatto di meglio. Era tramontata da poco la luna a Plaza Mayor ieri sera, quando una strana accozzaglia di tipi poco raccomandabili che si affrettavano all’uscita di una bettola malfamata, ha preso d’assalto il posto di guardia. Eravate anche là!

 

DON CESARE

Cugino, non mi sono mai sporcato le mani con gli sbirri. È vero, ero là e, tra una stoccata e l’altra, passeggiavo sotto gli archi componendo versi. Devo dire che si sono proprio conciati per le feste.

 

DON SALLUSTIO

C’è dell’altro.

 

DON CESARE

Vi ascolto.

 

DON SALLUSTIO

In Francia siete inoltre accusato, insieme ai vostri compari che infrangono la legge, di avere aperto la cassa delle gabelle senza servirvi della chiave.

 

DON CESARE

Non dico di no. La Francia è nostra nemica.

 

DON SALLUSTIO

In Fiandra, incontrando Don Paul Barthélemy, che trasportava a Mons i prodotti di una vigna assegnatagli dal capitolo della nobiltà, vi siete impadronito del denaro del clero.

 

DON CESARE

In Fiandra? Può darsi. Ho viaggiato parecchio. È tutto?

 

DON SALLUSTIO

Don Cesare, il sudore della vergogna sale ad avvamparmi le guance quando penso a voi.

 

DON CESARE

Bene. Lasciate che salga.

 

DON SALLUSTIO

La nostra famiglia…

 

DON CESARE

No. Solo voi a Madrid conoscete le mie vere origini. Non nominiamo la famiglia!

 

DON SALLUSTIO

L’altro giorno una marchesa, uscendo di chiesa, mi diceva “Chi è quel furfante che laggiù, col naso in aria, con l’occhio rapace e l’anca pronta a balzare avanti, più povero di Giobbe e più fiero di Braganza, maschera la miseria con l’insolenza mentre, sotto la manica sbrindellata schiaccia col pugno il pomo della spada che gli ricade sui calcagni e inalbera, con atteggiamento sprezzante e orgoglioso, un manto pieno di buchi e delle calze malamente arrotolate?”

 

DON CESARE (passando in rassegna il proprio abbigliamento)

Avrete risposto: è quel simpatico Zafari!

 

DON SALLUSTIO

No, sono arrossito, invece.

 

DON CESARE

Benissimo! La dama avrà riso. Me ne compiaccio, adoro far ridere le donne.

 

DON SALLUSTIO

Voi non frequentate altro che dei sicari!

 

DON CESARE

Volete dire dei chierici! Degli studenti più mansueti degli agnelli!

 

DON SALLUSTIO

Vi si vede ovunque con delle donne di bassa estrazione!

 

DON CESARE

O Lucinde amorose! O dolci Isabelle! Ma anche sul vostro conto circolano storielle piccanti! Come! Osano trattarvi così quelle bellezze dall’occhio impudico a cui recito di sera i sonetti che ho composto di mattina!

 

DON SALLUSTIO

E, per finire, Matalobos, il ladro della Galizia che è il terrore di Madrid e si fa beffe della nostra polizia, è un vostro intimo amico!

 

DON CESARE

Vogliamo discuterne, prego? Senza di lui, dovrei andarmene in giro nudo, il che sarebbe sconveniente. Mi ha visto senza farsetto per strada, in pieno dicembre, e si è commosso. Quello sciocco profumato d’ambra, il conte d’Alba, che il mese scorso fu derubato del suo bel giustacuore di seta…

 

DON SALLUSTIO

Allora?

 

DON CESARE

È in mio possesso. Un dono di Matalobos.

 

DON SALLUSTIO

L’abito del conte! Non vi vergognate?

 

DON CESARE

Non proverò mai la vergogna di indossare un giustacuore ricamato, adorno di passamanerie, che mi riscalda d’inverno e contribuisce, d’estate, alla mia eleganza! Guardate, è nuovo di zecca. (Si sbottona il mantello quanto basta per fargli scorgere uno splendido giustacuore di raso rosa ricamato d’oro) Le tasche sono piene di missive galanti indirizzate al conte da centinaia di donne. Spesso, povero, innamorato, senza nulla in cui affondare i denti, avvisto lo spiraglio infuocato di una cucina che manda fino al mio naso l’effluvio dei suoi cibi. Mi siedo là vicino e comincio a leggere i bigliettini del conte e così, ingannando lo stomaco e il cuore, assaporo l’odore del banchetto insieme all’ombra dell’amore!

 

DON SALLUSTIO

Don Cesare…

 

DON CESARE

Per favore, cugino, basta con i rimproveri! Sono un gran signore, lo riconosco, e del vostro stesso casato: sono Cesare, conte di Garofa. Ma il destino ha voluto che la follia mi tenesse a battesimo! Ero ricco, possedevo terre e castelli: potevo permettermi il lusso di mantenere delle amanti. Bah! Non avevo ancora compiuto vent’anni e mi ero già mangiato tutto! Non mi restava di quel cospicuo benessere, vero o presunto, che una folla di creditori urlanti dietro i miei passi! Così sono fuggito e ho cambiato nome. Adesso sono soltanto un allegro scapestrato, Zafari, che nessuno - tranne voi - è in grado di riconoscere. Caro signore, io non vedo nemmeno l’ombra del vostro denaro, e ne faccio a meno. Di sera appoggio la fronte sul marciapiedi, davanti all’antico palazzo dei conti di Tevé - è là che da nove anni passo le mie notti- e dormo col cielo azzurro che splende sul mio capo! Sono felice così. Credetemi, è bellissimo! Tutti mi credono nelle Indie, al diavolo, morto e sepolto. La fontana vicina zampilla, io bevo quell’acqua e poi cammino in lungo e in largo con atteggiamento spavaldo. Il mio palazzo, dove sperperai tutte le mie fortune, ora appartiene al nunzio Espinola. Benissimo. Quando, per caso, finisco in quei paraggi do qualche consiglio ai carpentieri del nunzio che scolpiscono sul portone l’effigie di Bacco. E adesso, mi prestate dieci scudi?

 

DON SALLUSTIO

Ascoltate…

 

DON CESARE (incrociando le braccia)

Fatemi vedere il vostro stile!

 

DON SALLUSTIO

Vi ho chiamato qui, per rendervi un favore. Cesare, io non ho figli, sono ricco e tanto più vecchio di voi e assisto con orrore alla vostra caduta in un abisso senza scampo: vorrei aiutarvi.