Le simpatie e antipatie della società, o di
qualche suo potente settore, sono quindi il fattore principale che ha in pratica determinato le
norme di comportamento da osservare per non incorrere nelle sanzioni della legge o
dell’opinione. E, in generale, coloro il cui pensiero o i cui sentimenti erano più avanzati di
quelli della loro società hanno evitato di attaccare in linea di principio questo stato di cose,
anche se talvolta possono essersi trovati in conflitto con alcuni suoi aspetti. Si sono
preoccupati di determinare ciò che la società dovrebbe preferire o avversare, piuttosto che
di chiedersi se queste simpatie o antipatie debbano aver valore di legge per gli individui:
hanno preferito tentare di modificare i sentimenti degli uomini rispetto alle questioni
particolari su cui essi stessi erano degli eretici, piuttosto che far causa comune con gli eretici
in generale per difendere la libertà. Il solo caso in cui si è scelta per principio questa
posizione più elevata, e la si è mantenuta con coerenza, salvo rare eccezioni individuali, è
quello delle convinzioni religiose: caso per molti aspetti istruttivo, non da ultimo perché
costituisce un esempio straordinario della fallibilità di ciò che è chiamato senso morale;
poiché l’odium theologicum, in un sincero bigotto, è uno dei casi più inequivocabili di
sentimento morale. Coloro che per primi spezzarono il giogo di quella che si autodefiniva
Chiesa Universale erano in generale altrettanto poco inclini di quest’ultima a permettere
differenze di opinione religiosa. Ma, quando si spense la vampata del conflitto senza che
nessun contendente riportasse completa vittoria, e ogni chiesa o setta si trovò costretta a
limitare le proprie speranze al mantenimento del terreno che in quel momento occupava, le
minoranze, consce di non aver alcuna possibilità di diventare maggioranze, dovettero
necessariamente richiedere a coloro che non potevano convertire il permesso di dissentire.
Di conseguenza è su questo campo di battaglia – caso quasi unico – che i diritti
dell’individuo, contrapposti a quelli della società, sono stati rivendicati su un’ampia base di
principio, e la pretesa da parte della società di esercitare la propria autorità sui dissenzienti
è stata apertamente contestata. I grandi scrittori cui il mondo è debitore del grado di libertà
religiosa di cui gode hanno per la maggior parte rivendicato la libertà di coscienza come
diritto inalienabile, e assolutamente negato che si debba rendere conto ad altri delle proprie
convinzioni religiose. Tuttavia, l’intolleranza, in tutti i campi che realmente contano per
l’umanità, è tanto connaturata che la libertà religiosa non è stata quasi mai realizzata in
pratica, salvo che nei casi in cui l’indifferenza religiosa, che non gradisce essere turbata da
dispute teologiche, ha fatto valere il proprio peso. Quasi tutte le persone religiose, anche nei
paesi più tolleranti, ammettono il dovere della tolleranza con tacite riserve. Qualcuno
sopporterà il dissenso in questioni di governo ecclesiastico, ma non di dogma; un altro
tollererà tutti, purché non siano papisti o unitari; pochi spingono la propria carità un poco
più oltre, ma non transigono sulla questione dell’esistenza di un Dio e della vita futura.
Dovunque il sentimento religioso della maggioranza rimane genuino e intenso, si scopre
che la sua pretesa di essere ubbidito è appena mitigata. Le particolari circostanze della
nostra storia politica fanno sì che in Inghilterra, anche se il giogo dell’opinione è forse più
pesante, quello della legge sia più lieve che nella maggior parte degli altri paesi europei; e vi
è un’accentuata insofferenza per l’intervento diretto del potere legislativo o esecutivo nella
condotta individuale, non tanto per un giusto rispetto dell’indipendenza individuale, ma
perché sussiste ancora l’abitudine di considerare il governo come espressione di interessi
contrapposti a quelli dei cittadini. La maggioranza non ha ancora imparato a percepire il
potere del governo come proprio potere, o le opinioni governative come proprie. Quando
ciò avverrà, la libertà individuale sarà probabilmente altrettanto esposta agli assalti dello
Stato quanto lo è già a quelli dell’opinione pubblica. Ma, ancor oggi, prevale un diffuso
sentimento pronto a essere mobilitato contro ogni tentativo da parte della legge di
controllare gli individui in campi in cui fino ad ora non sono stati abituati a tale controllo; è
una reazione quasi del tutto indiscriminata, che non si chiede se una data questione
appartenga o meno alla sfera legittima del controllo legale; tanto che questo sentimento, nel
complesso altamente salutare, nella pratica viene forse evocato altrettanto spesso a torto che
a ragione. In effetti, non vi è alcun principio riconosciuto sulla cui base venga valutata
abitualmente la maggiore o minore opportunità dell’interferenza statale. Gli uomini
decidono secondo le loro preferenze personali: alcuni, di fronte alla possibilità di realizzare
un bene o di rimediare a un male, incitano volentieri lo Stato a prendersene carico, mentre
altri preferiscono sopportare quasi ogni sorta di male sociale piuttosto che aumentare, fosse
pure di uno, il numero dei settori di attività umane riconducibili sotto il controllo statale. E,
in ciascun caso particolare, gli uomini si schierano in uno dei due campi, secondo
quest’inclinazione generale dei loro sentimenti, o secondo il loro grado di interesse nella
questione per cui è proposto l’intervento statale, o secondo le loro previsioni sul
comportamento dello Stato, giudicato nei termini delle loro preferenze; ma molto di rado
prendono partito in base a una loro opinione coerente su ciò che spetti allo Stato compiere.
E mi sembra che, a causa di questa mancanza di una regola o principio, attualmente i due
opposti campi errino nella stessa misura: l’interferenza dello Stato è, quasi con la stessa
frequenza, auspicata a torto e condannata a torto. Scopo di questo saggio è formulare un
principio molto semplice, che determini in assoluto i rapporti di coartazione e controllo tra
società e individuo, sia che li si eserciti mediante la forza fisica, sotto forma di pene legali,
sia mediante la coazione morale dell’opinione pubblica. Il principio è che l’umanità è
giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di
chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente
esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua
volontà, è per evitare danno agli altri. Il bene dell’individuo, sia esso fisico o morale, non è
una giustificazione sufficiente. Non lo si può costringere a fare o non fare qualcosa perché è
meglio per lui, perché lo renderà più felice, perché, nell’opinione altrui, è opportuno o
perfino giusto: questi sono buoni motivi per discutere, protestare, persuaderlo o
supplicarlo, ma non per costringerlo o per punirlo in alcun modo nel caso si comporti
diversamente. Perché la costrizione o la punizione siano giustificate, l’azione da cui si
desidera distoglierlo deve essere intesa a causare danno a qualcun altro. Il solo aspetto della
propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli
altri: per l’aspetto che riguarda soltanto lui, la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se
stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano. È forse superfluo aggiungere
che questa dottrina vale solo per esseri umani nella pienezza delle loro facoltà. Non stiamo
parlando di bambini o di giovani che sono per legge ancora minori d’età. Coloro che ancora
necessitano dell’assistenza altrui devono essere protetti dalle proprie azioni quanto dalle
minacce esterne.
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