La società ha sempre tentato di
costringere (per quanto le era possibile) i suoi membri a conformarsi alle sue nozioni di
eccellenza, e quella personale è sicuramente stata oggetto di altrettanti sforzi che quella
sociale. Le comunità antiche, con l’approvazione dei filosofi, si ritenevano in diritto di
esercitare il controllo pubblico su ogni aspetto della condotta individuale, giustificandolo
col fatto che lo Stato aveva un profondo interesse nell’intera disciplina mentale e fisica di
ogni suo cittadino – un modo di pensare che poteva essere ammissibile in piccole
repubbliche circondate da nemici potenti, in continuo pericolo di essere rovesciate da
attacchi esterni o moti interni, per i quali anche un breve intervallo di rilassamento
dell’energia e dell’autocontrollo avrebbe potuto così facilmente risultare fatale che non
potevano permettersi di attendere i salutari effetti permanenti della libertà. Nel mondo
moderno, le maggiori dimensioni delle comunità politiche e, soprattutto, la separazione tra
autorità spirituale e temporale (che ha posto la direzione delle coscienze degli uomini in
mani diverse da quelle che ne controllano le sorti terrene) hanno impedito che la legge
interferisse a tal punto nella vita privata; ma gli strumenti di repressione morale hanno
infierito sul dissenso dall’opinione dominante con maggiore accanimento, nelle questioni
private ancor più che in quelle sociali; infatti la religione, l’elemento più potente per la
formazione del sentimento morale, è stata quasi sempre assoggettata o all’ambizione di una
gerarchia che cercava di controllare ogni aspetto della condotta umana, o allo spirito del
Puritanesimo. E alcuni di quei moderni riformatori che si sono più violentemente opposti
alle religioni del passato non sono certo stati da meno di chiese o sette nella loro asserzione
del diritto alla dominazione spirituale: in particolare Comte, il cui sistema sociale, descritto
nel suo Système de Politique Positive, mira a instaurare (anche se con mezzi morali più che
legali) un dispotismo della società sull’individuo che oltrepassa qualsiasi ideale politico del
più ferreo e severo filosofo antico. A parte i curiosi dogmi di singoli pensatori, vi è in
generale nel mondo anche una crescente inclinazione a estendere indebitamente i poteri
della società sull’individuo, sia con la forza dell’opinione sia con quella della legislazione; e,
poiché la tendenza di tutti i mutamenti in corso nel mondo è a rafforzare la società e
diminuire il potere dell’individuo, questo abuso non è un male che tende a scomparire
spontaneamente, ma, al contrario, diventa sempre più formidabile. L’inclinazione degli
uomini, siano essi governanti o semplici cittadini, a imporre agli altri, come norme di
condotta, le proprie opinioni e tendenze è così energicamente appoggiata da alcuni dei
migliori e dei peggiori sentimenti inerenti all’umana natura, che quasi sempre è frenata
soltanto dalla mancanza di potere; e poiché quest’ultimo non è in diminuzione ma in
aumento, dobbiamo attenderci che, se non si riesce a erigere una solida barriera di
convinzioni morali contro di esso, nella situazione attuale del mondo il male si estenda. Ai
fini della nostra argomentazione sarà opportuno, invece di affrontare immediatamente la
tesi generale, limitarci per il momento a un suo aspetto singolo, riguardo al quale il
principio da noi enunciato è ammesso dall’opinione corrente, se non completamente,
almeno fino a un certo punto. Questo aspetto è la libertà di pensiero, da cui è impossibile
separare la connessa libertà di parola e di scrittura. Anche se esse, in misura abbastanza
considerevole, fanno parte dell’etica politica di tutti i paesi professanti la tolleranza religiosa
e le libere istituzioni, le basi, sia filosofiche sia pratiche, su cui si fondano non sono forse del
tutto familiari all’opinione comune, né comprese tanto a fondo quanto ci si attenderebbe da
molti, tra cui anche uomini politici. Queste basi, se correttamente comprese, hanno una
validità che non si limita soltanto a questo aspetto della questione, il cui esame
approfondito si rivelerà la migliore introduzione agli altri. Spero quindi che coloro ai quali
nulla di ciò che mi appresto a dire suonerà nuovo mi scusino se mi permetto di discutere
ancora una volta un argomento che da ormai tre secoli è stato così frequentemente oggetto
di dibattito.
II DELLA LIBERTA’ DI PENSIERO E DISCUSSIONE
È da sperare che sia trascorsa l’epoca in cui era necessario difendere la “libertà di stampa”
come una delle garanzie contro un governo corrotto o tirannico. Possiamo supporre che non
sia più necessario dimostrare che non si può consentire a una legislatura o a un esecutivo, i
cui interessi non si identifichino con quelli dei cittadini, di imporre loro delle opinioni e di
stabilire quali dottrine o argomentazioni essi possano ascoltare. Inoltre, questo aspetto della
questione è stato così spesso e con tale successo fatto valere da autori precedenti che è
inutile insistervi particolarmente in questa sede. Anche se la legge d’Inghilterra è, per
quanto riguarda la stampa, altrettanto servile oggi di quanto lo era all’epoca dei Tudor, vi è
scarso pericolo che venga effettivamente applicata contro la discussione politica, salvo che
in situazioni temporanee di panico, in cui la paura di insurrezioni spinge ministri e giudici a
violare le regole che devono governare la loro condotta ; e, più in generale, nei paesi a
regime costituzionale non vi è da temere che i governi, siano essi completamente
responsabili verso il popolo o no, tentino spesso di controllare l’espressione delle opinioni,
salvo nei casi in cui così facendo esprimano l’intolleranza generale dei cittadini.
Supponiamo quindi che il governo concordi totalmente con i cittadini, e non sia mai tentato
di esercitare alcun potere coercitivo che non corrisponda a quella che ritiene la loro
opinione. Ma io nego il diritto del popolo a esercitare questa coercizione, sia da solo sia
mediante il proprio governo. Il potere stesso è illegittimo: il migliore governo non vi ha più
diritto del peggiore. È altrettanto, o forse più, dannoso quando lo si esercita seguendo
l’opinione pubblica che contro di essa. Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa
opinione, non avrebbero più diritto di far tacere quell’unico individuo di quanto ne avrebbe
lui di far tacere, avendone il potere, l’umanità. Se l’opinione fosse un bene privato, privo di
valore eccetto che per il suo proprietario, se essere ostacolati nel suo godimento fosse
semplicemente un danno privato, il numero delle persone che lo subiscono farebbe una
certa differenza. Ma impedire l’espressione di un’opinione è un crimine particolare, perché
significa derubare la razza umana, i posteri altrettanto che i vivi, coloro che dall’opinione
dissentono ancor più di chi la condivide: se l’opinione è giusta, sono privati dell’opportunità
di passare dall’errore alla verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto
grande, la percezione più chiara e viva della verità, fatta risaltare dal contrasto con l’errore.
È necessario considerare separatamente queste due ipotesi, a ciascuna delle quali
corrisponde un aspetto distinto della nostra argomentazione. Non possiamo mai essere certi
che l’opinione che stiamo cercando di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla
resterebbe un male. In primo luogo, l’opinione che si cerca di sopprimere d’autorità può
forse essere vera. Naturalmente, coloro che desiderano sopprimerla ne negheranno la verità:
ma non sono infallibili. Non hanno alcuna autorità di decidere la questione per tutta
l’umanità, togliendo a chiunque altro la possibilità di giudizio. Rifiutarsi di ascoltare
un’opinione perché si è certi che è falsa significa presupporre che la propria certezza
coincida con la certezza assoluta. Ogni soppressione della discussione è una presunzione di
infallibilità: per condannarla basta questo ragionamento, semplice, ma non per questo
inefficace. Sfortunatamente per il buon senso degli uomini, la loro effettiva fallibilità non ha
certo nei loro giudizi pratici il peso che le viene sempre attribuito nella teoria; poiché,
mentre ciascuno sa benissimo di essere fallibile, pochi ritengono necessario cautelarsi dalla
propria fallibilità o ammettere la supposizione che una qualsiasi opinione di cui si sentano
del tutto certi possa essere un esempio di quell’errore cui si riconoscono soggetti.
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