Tomas sognava di vagare con Märta nell’immobile atmosfera estiva, sotto gli alberi verdeazzurri degli arazzi. Era quasi sera e le pallide fronde stilizzate degli olmi frusciavano fresche sopra le loro teste. Nello spazio deserto in primo piano c’era una panchina di pietra, la gelida panchina della solitudine e della lunga meditazione. Tomas e Märta l’avevano oltrepassata da tempo. E nel profondo del bosco, dove le curve della strada si perdevano in un’oscurità verde, un uccello richiamava con suoni tenui e prolungati.
Improvvisamente fu spenta la luce elettrica e vennero accese un paio di lampade a gas. Le ombre eseguivano spettrali scene di lotta attorno alle pareti, e dietro le vetrate del grande caffè verde, dove c’era ancora luce, si agitava un violento gioco d’ombre di colli allungati e di braccia che si muovevano nell’aria con il bicchiere nella mano.
Hall stava osservando lo scenario seduto in silenzio dietro al suo bicchiere da whisky lungo e levigato. Il suo volto era sempre uguale a sé stesso. Le notti insonni non lasciavano più traccia su quella pelle indurita.
«Un altro giorno, dunque», disse gettando via la sua sigaretta.
Tomas chiuse gli occhi. Ellen, la ragazza del negozio di guanti, gli si era insinuata nella mente. Non poteva fare a meno di pensare alle sue braccia. Era Märta che amava, eppure gli sembrava di perdere qualcosa di essenziale della felicità della vita, se non avesse mai visto quelle braccia nude e bianche allungarsi verso di lui da qualche angolo oscuro di una stanza con le tende abbassate.
Si contorse agitato sul divano.
«Non sei stanco? Paghiamo?».
«Sì, è tardi».
Se ne andarono, con Tomas che procedeva per primo. L’arena dei veterinari somigliava a un mercato devastato da un uragano notturno. Seduto su una sedia, vicino alla porta, stava dormendo un cameriere, un ragazzo giovane, abbandonato come uno straccio. Era lo stesso che era caduto con il vassoio. Hall gli diede qualche cauto colpetto sulla spalla e gli passò una banconota da dieci corone. Il ragazzo trasalì, spaventato, confuso, con nello sguardo gli incessanti rimorsi dell’adolescenza.
«È un piccolo contributo per riparare all’incidente del vassoio», spiegò Hall a bassa voce.
«Vieni, allora? Sono pronto…».
La fredda luce dell’alba venne loro incontro dalla piazza. Sullo sfondo si ergeva la facciata del Palazzo Reale, grigio cenere, grande e spettrale; la magnifica facciata nord, il cui colore è cangiante come quello del mare. L’orizzonte che si schiariva a nordest accendeva, lungo la fila superiore delle finestre, una serie di opali verdi dal pallido riverbero.
Tomas aveva trovato una passeggiatrice notturna, che seguì per un lungo tratto su per la Regeringsgatan. Era grande e grossa, e dava un’impressione di rettitudine, ma pure di risolutezza; si vedeva subito che non stava allo scherzo. Dopo essersi scambiati le battute introduttive non avevano più nulla da dirsi. Ogni tanto Tomas la guardava di sottecchi con un’occhiata timida. Improvvisamente fece una svolta repentina a un angolo e fuggì via come una scheggia lungo una strada laterale, in discesa.
Decise di tornare a casa per la via più breve. Era stanco.
Camminava come un sonnambulo.
Un sarto con un paio di pantaloni sul braccio uscì da una casetta di legno color verde pisello con delle imposte gialle.
Stava sognando? È normale che i sarti vadano in giro con i pantaloni sul braccio anche di notte?
Tomas scambiò un rapido saluto con il giudice ausiliario Abel Ratsman, che era appena uscito dallo stesso luogo. Lo aveva incontrato un paio di volte dai Brehm. Di Ratsman si diceva che avesse ottime prospettive per il futuro. Sulla Stureplan si imbatté in una combriccola di allegri nottambuli, un paio dei quali erano suoi conoscenti. Dovette divincolarsi quasi con violenza per fare a meno di seguirli all’appartamento di un signore sconosciuto a bere cognac.
L’alba era sempre più chiara. Una debole luce mattutina si posava tremante sopra i cavalli alati, non ancora svegli del tutto, posti sul tetto di palazzo Bång.
Sulla Sturegatan Tomas raggiunse il sarto con i pantaloni. Nel superarlo si voltò e vide stupefatto che non si trattava di un sarto, ma del barone Grothusen. Erano i pantaloni di Gabel quelli che portava sul braccio.
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