Avrebbe dovuto mettersi uno sparato bianco o una cravatta colorata?

Una carrozza chiusa si fermò fuori dall’ingresso dell’Hasselbacken; scesero una signora e un signore. Tomas sorrise nel riconoscerli. Erano la signora Grenholm e il dottor Rehn, un medico famoso e illustre. Il sole primaverile splendeva clemente sulla via dei due vecchi amanti.

Passò una comitiva di artisti del varietà di razze e nazionalità disparate, che ciarlavano allegramente in tre o quattro lingue. I loro volti di buffoni, sfatti dal trucco e dalle veglie notturne, le loro voci taglienti come lame e la loro eleganza vistosa e volgare si fondevano in una falsa e strana dissonanza che indugiò nell’aria qualche secondo, per poi estinguersi.

La spianata era di nuovo silenziosa, invasa dalla luce bianca del sole.

Tomas si alzò per fare quattro passi. Il cancello del giardino là in fondo si aprì e uscì qualcuno.

Era Ellen?

Sì, era lei. Tomas, con il batticuore, le si fece lentamente incontro.

Gli occhi della ragazza brillarono quando videro che l’aveva aspettata, e arrossì leggermente.

«Mi scusi, signorina», disse lui con gli occhi azzurri e sinceri, fissi in quelli di lei, «posso permettermi di proporle una passeggiata allo Skansen 4? Se ha tempo».

«No», disse la ragazza schiva, «non so…».

D’un tratto le vennero in mente gli orsacchiotti che adorava.

«Sì, oggi sono libera fino a mezzogiorno», rispose.

E percorsero assieme la strada in salita che portava allo Skansen. Sugli alberi erano da poco comparse delle tenere foglie che, sul loro cammino, davano alla luce del sole una sfumatura verdastra.

Parlarono delle rispettive situazioni. Lei si chiamava Ellen Karlsson. Suo padre, che era morto, aveva avuto un impiego al Palazzo Reale, e la madre viveva di una modesta pensione. Aveva un fratello di diciassette anni che faceva le scuole superiori. Si sarebbe diplomato la primavera successiva. Era una gran testa e desiderava fare il medico.

Tomas si stava chiedendo se presto poteva azzardarsi a baciarla.

Avevano imboccato uno di quei sentieri fiancheggiati dal verde che conducono fin su a Bredablick 5.

No, era ancora troppo presto, ma di lì a un quarto d’ora l’avrebbe forse già baciata.

Che cosa avrebbe fatto poi? Le avrebbe potuto proporre una cena, una di quelle sere?

Gli orsetti giocavano nella loro gabbia come cani cuccioli. Proprio in quel momento stava arrivando il guardiano con la colazione: diede a ciascuno due grandi pagnotte. Teneva al braccio un trogolo con della carne che avrebbe portato oltre, agli orsi adulti. Il più anziano dei piccoli sentì l’odore della carne e, quando il guardiano si allontanò con il trogolo, cominciò a piangere con un’espressione di tale straziante disperazione che a Ellen vennero quasi le lacrime agli occhi. Nel suo lamento c’era qualcosa del segreto dolore della foresta. Non guardò le sue pagnotte finché poté intravedere, fra i tronchi degli alberi, il guardiano con la carne. Il fratello, una natura non ancora viziata e di gusti più semplici, aveva nel frattempo trangugiato le sue pagnotte, dopo di che passò immediatamente alla porzione dell’altro. Avrebbe fatto meglio a lasciar perdere: ricevette subito uno schiaffo che lo fece ruzzolare lontano. Sbalordito e confuso, andò a coricarsi all’altro capo della gabbia, mentre il più grande, soffocando la propria collera, si mise a masticare le pagnotte. Nel bel mezzo del pasto si ricordò ancora una volta della propria pena ed emise un ululato che scosse tutto il suo corpo di pelliccia, e che andò a mano a mano smorzandosi in singhiozzi sommessi.

Ellen e Tomas fissavano rapiti gli animali. Poi i loro sguardi si incontrarono. Non si vedeva nessuno. Il bosco si stendeva silenzioso e vasto attorno a loro, e il vento canticchiava tra i rami sopra le loro teste.

Era ora che doveva succedere?

Lei sembrò intuire i suoi pensieri, perché i grandi occhi castano rossiccio cominciarono a muoversi spaventatissimi, come se si stesse guardando intorno in cerca di aiuto.

«Andiamo», sussurrò.

Tomas abbandonò ogni speranza per quel giorno.

Scesero a Bellmansrövagen. Lui colse un mazzo di anemoni al margine della strada e lo fermò al petto di lei. Era contento di avere avuto quell’idea, seppure non tanto insolita, perché l’aria del bosco gli aveva dato alla testa e non sapeva che cosa dire o fare.

Improvvisamente ebbe una nuova idea, ancora migliore della prima.

«Lei ha fame?» domandò. «Io sì!».

Lei non aveva fame, ma a Tomas riuscì comunque di convincerla a entrare al Bellmansro e prendere il caffè con i pasticcini.

Decisero di comune accordo di non sedersi all’aperto, dove qualcuno avrebbe potuto vederli, e presero posto in una stanzetta laterale ammobiliata in verde, con un brutto divano, un tavolo e un paio di sedie. C’era un’aria soffocante lì dentro. Lui la aiutò a levarsi il cappello e il soprabito dopo che la cameriera li ebbe serviti e se ne era andata.

Il caffè l’avevano bevuto.