È un terrore, una desolazione generale.
Del resto non fossero questi timori, se non fossero queste angosce, qual vita più beata di quella che si mena qui? Il babbo va a caccia, o mi accompagna nelle lunghe passeggiate, quando potrei aver paura di smarrirmi nel bosco. Il mio fratellino, Gigi, corre, grida, fa chiasso, si arrampica sugli alberi, e vi lascia appeso tutti i giorni qualche brandello del suo vestito, e la mamma... (Marianna, se sapessi come mi vien difficile dare questo dolce nome alla mia matrigna! Mi pare di fare un torto alla memoria della mia povera madre... Ma pure bisogna chiamarla così!) e la mamma a sgridarlo, a dargli dei confetti, dei baci e degli scappellotti, a rammentargli gli abiti, a ripulirlo venti volte al giorno. Ella non fa che agucchiare e accarezzare i suoi figli, beati loro!... e spesso mentre dà un'occhiata alla cucina o alla domestica che prepara il desinare, mi rimprovera che io non son buona a nulla, nemmeno a far la cucina... Pur troppo è vero! ella ha ragione. Non faccio altro che correre pei campi, raccogliere i fiorellini, e ascoltare il canto degli uccelletti... alla mia età! Ho quasi venti anni!... capisci! Ne arrossisco io stessa; ma il mio caro babbo non ha cuore di sgridarmi; egli non sa far altro che accarezzarmi e dire: «Povera piccina! lasciatele godere questi giorni di libertà!».
Ogni volta che penso alla mia povera mamma che dorme laggiù nel Camposanto di Catania, mi vengono le lagrime agli occhi. Ma qui ci penso più spesso, perché mi pare di essere straniera nella casa di mio padre. Nessuno ci ha colpa. Non sono abituati a vedermi, ad avermi fra i piedi: ecco tutto.
La mia matrigna poi, se mi rimprovera che io non son buona a nulla, ne ha le sue buone ragioni; gli è pel mio bene, e il torto è sempre mio. Mia sorella non è molto espansiva, perché non è pazzerella come me; ma mi vuol bene e non si lagna del disagio che io le arreco occupando quel piccol camerino ov'è rincantucciato il mio lettuccio e che altre volte le serviva da guardaroba, mentre adesso tutte le sue scatole e le sue vesti ingombrano la sua camera. Gigi è sempre quel caro fanciullo allegro e chiassone che tu conosci; mi salta al collo venti volte al giorno, e mi consola con un bacio allorché la mamma mi sgrida per ragione dei suoi vestiti laceri. Ma che colpa ci ho io se al convento non mi hanno insegnato a rattoppare i vestiti? Veramente toccherebbe a me. Giuditta è una signorina, e per altro ella è troppo occupata tutto il giorno fra i suoi abiti e le sue acconciature, ed ha ragione di occuparsene tanto, perché le belle vesti, i bei nastri, le stanno così bene che sembrano fatti apposta per lei... E poi ella è ricca della dote di sua madre; il mio babbo, come sai, non è che un modestissimo impiegato. A che dovrebbe pensare ella dunque alla sua età? L'altro ieri, mentre si provava una veste nuova, le domandai il permesso di abbracciarla, tanto era bella! Ella non volle permetterlo, ed a ragione, per non sgualcire la stoffa. Quanto sono sciocca, Marianna! Come se si fosse trattato della mia meschina tonaca di saja che non corre mai il rischio di gualcirsi!
Ah! ma la famiglia è una benedizione del cielo! La sera, quando il babbo chiude le porte, io provo un sentimento ineffabile di contentezza, come se si restringessero i legami che mi uniscono ai miei cari nell'intimità della vita domestica. Invece qual penoso sentimento di tristezza non provavamo tutte noi, povere recluse, te ne rammenti? allorché s'udiva risuonare il mazzo delle chiavi del portinaio, e stridere i chiavistelli! Allora il mio pensiero correva ai poveri carcerati e il mio cuore si stringeva; me ne son confessata cento volte, ne ho fatto cento penitenze, e giammai ho potuto difendermi da coteste idee. La mattina, prima di aprire gli occhi, allorché mi risveglia il cinguettìo degli uccelletti che si disputano le miche di pane che io lascio apposta per loro sul davanzale della finestra, il mio primo pensiero si è la contentezza di trovarmi in mezzo alla mia famiglia, accanto al mio babbo, al mio fratellino, a Giuditta, che mi abbracceranno e mi daranno i buon giorno; che io non avrò uffizî da recitare, né meditazioni da fare, né silenzî da serbare; che io aprirò la mia finestra, appena salterò giù dal letto, onde fare entrare quell'aria imbalsamata, quel raggio di sole, quello stormire di fronde, quel canto di uccelli; che io uscirò sola, quando vorrò, a correre e saltellare ove meglio mi piacerà, che non incontrerò volti austeri, né tonache nere, né corridoi oscuri... Marianna! ti confesso all'orecchio un gran peccataccio!... Se mi facessero una bella vestina color caffè!.. senza crinolina, veh! Oh! questo poi no!... Ma una vestina che non fosse nera, con la quale potessi correre e scavalcare i muricciuoli, che non rammentasse ad ogni momento, come questa brutta tonaca, che laggiù a Catania, quando sarà finito il coléra, mi attende il convento!...
Non ci pensiamo. Sono una scapata, sono una matta!... Perdonami, mia cara Marianna, ho scherzato; ma intanto non ti ho detto ancora che ho un bell'uccelletto, un grazioso passerotto, allegro, vispo, che mi vuol bene, che mi risponde, che vola a prendere l'imbeccata dalle mie mani, e mi pizzica le dita, e si diverte ad arruffarmi i capelli. La sua storia è un po' triste, è vero, dapprincipio: il babbo me lo portò un giorno avvolto nel fazzoletto, e il fazzoletto era macchiato di sangue! poverino! era forse quella la sua prima volata ed un colpo di fucile l'aveva ferito in un'ala! Fortunatamente la ferita non era grave. Che cattivi e barbari divertimenti hanno mai gli uomini! Vedendo quel sangue, udendo quel pigolare...
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