- il poverino si lamentava del gran dolore che doveva provare!... - io piansi con lui ed arrivai sino a dar torto al mio caro babbo. Tutti ridevano di me, persino Gigi. Lavai la ferita del meschinello, ma non sperai che campasse. Invece eccolo lì che saltella e fa il chiasso! Qualche volta il poverino si duole ancora della sua ferita e viene a rannicchiarsi nel mio grembo pigolando e strascinando la sua aluccia, come se volesse narrarmi il suo guaio. Io lo conforto coi baci, l'accarezzo, gli dò delle miche di pane e del miglio, ed egli se ne va tutto vispo a posarsi sul davanzale per volgersi di nuovo verso di me cinguettando, sbattendo le ali e allungando il collo a bocca spalancata.
Ieri l'altro un brutto gattaccio mi fece provare un grande spavento. Il mio Carino, sai si chiama Carino?, era sul tavolo a ruzzare, poiché egli fa mille buffonerie! a sconvolgere e disordinare tutte le carte, cinguettando sempre, e poi si volgeva a guardarmi coi suoi occhietti arditi, il furbo, come se provasse gusto a farmi dispetti, quand'ecco d'un balzo sul tavolino quel gattaccio nero, che allungava lo zampino per adunghiarlo! Io misi un grido, il povero Carino strillò anche lui, e fu assai lesto a rifugiarsi in seno a me. Non so come lo nascondessi fra le mie mani, nel mio grembiule; ma tremavamo tutt'e due. Al mio grido accorsero tutti di casa. Mia matrigna mi rimproverò di averla spaventata per nulla, dicendomi che non sono più nell'età delle fanciullaggini, e che il gatto avrebbe fatto il suo dovere acchiappando il mio Carino; Giuditta rideva, e quel pazzerello di Gigi istigava il gatto a ghermirmi l'uccelletto che mi tenevo in grembo. Quel poverino lo sentivo tremare nelle mie mani dalla gran paura avuta, e il cuore gli batteva forte forte. Mi sarei fatta uccidere piuttosto che abbandonarlo! Da quel giorno non dimentico mai di chiudere l'uscio della mia camera ove lascio il mio Carino. Io l'odio quel gattaccio!
Invece voglio un gran bene al cane del castaldo, un bel can da pagliaio, tutto nero, altro così, che nei primi giorni mi faceva una gran paura coi suoi latrati, ma che adesso mi accarezza dimenando la coda, leccandomi le mani, fregandosi i fianchi alla mia tonaca e dicendomi coi suoi occhi intelligenti che mi ama. Infatti egli è il mio guardiano, mi accompagna nelle mie passeggiate, non mi lascia di un passo, corre innanzi ad esplorare il terreno, e ritorna a gran salti dimenando la coda e abbaiando allegramente. Quando io lo chiamo, egli già sa ch'è l'ora della nostra passeggiata (quest'ora arriva venti volte al giorno) e vorresti vedere che urli, che salti, che carezze!
Ti ho parlato del mio cane, del mio passerotto, di quel brutto gattaccio, e non ti ho ancora detto che abbiamo dei vicini di campagna che vengono a trovarci spesso, e che passiamo quasi tutte le sere a giocare in loro compagnia, e facciamo delle belle passeggiate nell'ora del tramonto. essi abitano una casetta in fondo alla valle, a poca distanza nostra, che si può vedere dalla mia finestra. Sono i signori Valentini; li conosci? Il babbo e la mamma dicono che sono brava gente. Io e l'Annetta, loro figlia, che ha quasi la mia età, siamo amiche; ma non come fra te e me, vedi! Non esserne gelosa; perché io ti amo assai più di lei, e voglio che tu mi ami assai più di tutte le altre tue amiche.
Quando mi scriverai? Mi hai fatto aspettare la tua lettera quattordici lunghissimi giorni! Vedi come io ti rispondo subito e a lungo? Se mi farai aspettare altri quattordici giorni per dirmi che mi vuoi tutto il bene che io ti voglio, che mi rimandi cento e cento baci che ti mando, allora io amerò la mia nuova amica più di te. Pensaci!
P.S.
Dimenticavo di dirti che i signori Valentini, oltre l'Annetta, hanno pure un figlio, un giovanotto ch'è venuto spesso con sua sorella, e che si chiama Antonio; però lo chiamano Nino.
27 Settembre
Marianna, perché non sei qui a passeggiare, a trastullarti, a divertirti con noi? Perché non posso abbracciarti e dirti ad ogni istante: vedi com'è bello questo? vedi com'è piacevole quest'altro?... e mostrarti quanto io son felice, mio Dio! felice come non potrei desiderare dippiù! Che sarebbe poi se tu fossi qui!...
Ieri verso il tramonto abbiamo fatto una passeggiata coi signori Valentini nel bosco dei castagni. Che bel bosco! se tu lo vedessi, Marianna! Un'ombra deliziosa, qualche raggio di sole morente che s'insinua fra le fronde, uno stormire grave e prolungato dei rami più alti, il canto degli uccelli, e poi, di tratto in tratto, silenzio solenne e profondo. Sotto quelle immense volte di rami, fra quelli andirivieni sterminati di viali si avrebbe quasi paura, se la stessa paura non fosse piacevole. Le foglie secche frusciavano sotto i nostri passi; di tratto in tratto qualche uccelletto spaventato, che fuggiva, scuoteva con improvviso stormire le poche fogliuzze che lo nascondevano; Vigilante, il nostro bel cane, correva innanzi festoso, abbaiando dietro i merli spaventati; Annetta, Gigi e Giuditta si davano il braccio e cantarellavano; il signor Nino li seguiva col suo fucile ad armacollo; il resto della comitiva era molto lontano, e ci gridava ad ogni istante che non corressimo tanto perché l'erta del monte è faticosa. Il signor Nino anch'egli ha un bel cane, un bel bracco, dalle orecchie lunghe, e picchiettato tutto di nero: si chiama Alì e ha già stretto amicizia con Vigilante. Giuditta ed Annetta ad ogni passo restavano impigliate per le loro lunghe vesti a qualche sterpo; ma io no, ti assicuro! io corro, saltello, ma non inciampo mai, né le siepi lasciano i segni sulla mia tonaca. Il signor Nino mi veniva appresso, mi raccomandava di badare che non cadessi, temeva per me, poverino!... Se non fosse per la vergogna, quasi quasi lo sfiderei a correre, quel signorino! Giuditta si lamentava ad ogni momento di sentirsi stanca. Che donne son quelle, Marianna? non sanno fare dieci passi senza aver bisogno del braccio di un uomo, e senza lasciare qualche brandello della veste ad ogni cespuglio! Benedetta la mia tonaca! Il signor Nino mi ha offerto venti volte il braccio, come se ne avessi bisogno, io! l'avrà fatto apposta per farmi arrabbiare! Perché dunque non l'ha offerto a mia sorella che si lagnava della salita e che ne aveva bisogno lei? non io!
Quando siamo giunti in cima al monte, che magnifico spettacolo! Il castagneto non arriva sin là, e dalla vetta del monte si può godere la vista di uno sterminato orizzonte. Il sole tramonta da un lato, mentre la luna sorgeva dall'altro: alle due estremità due crepuscoli diversi, le nevi dell'Etna che sembrava di fuoco, qualche nuvoletta trasparente che viaggiava per l'azzurro del firmamento come un fioco di neve, un profumo di tutte le vigorose vegetazioni della montagna, un silenzio solenne, laggiù il mare che s'inargentava ai primi raggi della luna, e sul lido, come una macchietta biancastra, Catania, e la vasta pianura limitata da quella catena di monti azzurri, e solcata da quella striscia lucida e serpeggiante che è il Simeto, e poi, grado grado salendo verso di noi, tutti quei giardini, quelle vigne, quei villaggi che ci mandano da lontano il suono dell'avemaria, la vetta superba dell'Etna che si slancia verso il cielo, e le sue vallate che già sono tutte nere, e le sue nevi che risplendono degli ultimi raggi del sole, e i suoi boschi che fremono, che mormorano che si agitano. Marianna, ci son delle ore in cui vorrei piangere, in cui vorrei stringere le mani a tutti quelli che mi son vicini, in cui non potrei profferire una sola parola, mentre mi si affollano in testa mille pensieri...
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