Oh!... Se poteste contare le lacrime...”

GINO (uscendo fuori): Bum!

ALFREDO (a Gino): No, no! Troppo presto, ancora no!

GINO: Spicciatevi, ragazzi, perché io voglio andare a cena.

ALFREDO: Avanti, Ida, avanti!

IDA (declamando): “No, Carlo, ve lo ripeto, voi non partirete... voi non potete partire di qui...”

ALFREDO (declamando): “Sì, o donna, io partirò... io lascerò

questi luoghi fatali... io fuggirò lontano, lontano, lontano...”

GINO (uscendo fuori): Bum! bum! bum!

ALFREDO: Ancora no, t'ho detto!

GINO: Ho fame, la volete capire?

ALFREDO: Altri due minuti, e la scena è finita. (declamando) “Sì, il mio destino vuole così... noi non ci rivedremo mai più... mai più!”

IDA: “Voi, Carlo, non partirete!”

ALFREDO: “Io partirò!”

IDA: “No...”

ALFREDO: “Sì: chi potrà impedirmelo?”

IDA: “Io!”

ALFREDO: “Voi?... e chi siete voi?”

IDA (con molto singhiozzo): “Sciagurato!... io... so... no... tua...”

GINO (uscendo fuori e interrompendo): Sai, Bettina: penserai tu a fare bum; io ho troppa fame e scappo a cena (via di corsa).

ALFREDO: Quand'è così, si può calare il sipario e andare a cena anche noi.

 


 

Chi non ha coraggio non vada alla guerra

proverbio in undici parti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I.

 

Leoncino è un ragazzetto entrato appena nei dieci anni.

“Perché questo nome di Leoncino?”, domanderete voi.

La storia sarebbe un po' lunghetta, ma io ve la racconterò in quattro parole.

Bisogna dunque sapere che quando questo bambino fu portato al fonte battesimale, la sua mamma avrebbe gradito volentieri che si fosse chiamato Luigi: ma il suo babbo, incaponitosi a farne col tempo un guerriero (il babbo era comandante dei pompieri e bisogna perdonargli certe debolezze guerresche) volle a tutti i costi che fosse battezzato col nome di Napoleone.

Napoleone!... Come si fa, domando io, a mettere un nomone così grosso sulla testa di un tenero lattante? C'è quasi il pericolo di soffocarlo!

Fatto sta che in famiglia, per vezzeggiativo, cominciarono subito a chiamarlo Napoleoncino: ma poi, avvedutisi che questo vezzeggiativo era troppo lungo, gli tagliarono le due prime sillabe (Na-po), e così, di un Napoleoncino, ne fecero per risparmio di fiato un economico e modesto Leoncino.

Il piccolo guerriero crebbe a occhiate, e a dieci anni era già diventato un bel ragazzo. Correva, ballava, saltava, faceva la ginnastica, e, cosa singolarissima! qualche volta anche studiava.

Di burattini e di altri balocchi non voleva saperne. L'unica sua passione erano le sciabole di latta con l'impugnatura dorata e i fucilini a saltaleone, da caricarsi in tempo di pace coi lupini secchi, e in tempo di vera guerra, coi sassolini di ghiaia o coi nòccioli di ciliegia.

Il suo babbo poi, per contentarlo e per coltivargli sempre più lo spirito marziale, gli aveva fatto fare anche l'uniforme di generale d'armata, con le spalline di bambagia gialla come lo zafferano e con un berretto di panno scuro, ornato di un bel nastro di tela incerata e rilucente, che, veduto da lontano, pareva proprio un gallone d'argento.

Venuto il tempo delle vacanze, Leoncino fu condotto a villeggiare in casa di un suo zio, ricco possidente di campagna.

 Questo zio aveva una nidiata di cinque figlioli, tutti bambinetti fra i sette e gli undici anni. Figuratevi la contentezza di Leoncino quando si trovò in mezzo a quegli altri cinque monelli.

Com'è naturale, pensarono subito, tutti d'accordo, di fare i soldati. Arnolfo, il più piccolo dei cugini, nominato trombettiere di reggimento, andava avanti al corpo d'esercito, sonando la tromba con la bocca. Raffaello, il più alto di tutti, faceva da cavalleria, per cui era obbligato a camminare sempre di trotto o di galoppo e qualche volta anche a nitrire e tirare i calci, a uso cavallo: Asdrubale e Gigino rappresentavano il grosso della fanteria. Tonino guidava i carri dell'ambulanza, strascinandosi dietro il carretto dell'ortolano per caricarci su, dopo la battaglia, i morti e i feriti, e Leoncino... Leoncino poi, come potete immaginarvelo, era il comandante generale e marciava sempre alla testa della grande armata.

 

 

 

II.

 

Tutte le mattine che Dio mandava in terra, i sei ragazzi, dopo aver preso con sé il pane e il companatico per fare il rancio, si mettevano in marcia armati di tutto punto, avviandosi a combattere qualche gran battaglia nel vicino bosco distante forse un chilometro dalla villa.

Arrivati a mezza strada, facevano alto in mezzo a un prato, e lì, sdraiati sull'erba, mangiavano, o, per dir meglio, divoravano il rancio, mentre uno di loro, s'intende bene, rimaneva a far da sentinella avanzata in fondo al prato, per dare il grido d'allarme nel caso che i nemici fossero sbucati fuori all'improvviso.

Ma l'uso della sentinella avanzata durò poco, e vi dirò il perché. Una mattina toccò a far da sentinella al trombettiere Arnolfo, un ragazzino che non aveva ancora sett'anni finiti. Arnolfo, ubbidiente ai regolamenti e alla disciplina militare, si rassegnò a fare una mezz'ora di sentinella: ma appena smontato, corse subito in mezzo ai compagni, per farsi dare la sua parte di rancio. E lascio pensare a voi come restò, quando si accorse che i suoi compagni avevano mangiato tutto, diluviato tutto, spolverato tutto: fino i minuzzoli di pane, fin le cortecce del cacio, fin le bucce del salame! Il povero figliolo, che aveva una fame che la vedeva proprio cogli occhi, trovandosi così barbaramente burlato, cominciò a piangere e strillare; e il suo strillare fu così acuto e ostinato, che in tutta la storia militare, dalla presa di Gerico fino a noi, non c'è l'esempio d'un altro trombettiere che abbia strillato tanto, quanto lui.

Da quel giorno in poi, in quel corpo d'armata composto di sei ragazzi, non si trovò più un soldato che volesse fare da sentinella avanzata durante l'ora del rancio. Di fronte a un atto così grave d'insubordinazione, la disciplina militare ci scapitò assai: ma lo stomaco dei soldati ci guadagnò dimolto... e tutti pari.

E le battaglie combattute da questi piccoli eroi, contro chi erano?

Ve lo dico subito. Appena finito il rancio, l'esercito col suo comandante alla testa si rimetteva in marcia, inoltrandosi a passo di carica dentro il bosco. Giunti dinanzi a una grossa quercia, che aveva più di cent'anni, il generale Leoncino schierava le sue truppe in riga di battaglia, e dopo aver caracollato dinanzi a loro, figurando di essere a cavallo, dopo avere colle parole e coi gesti incoraggiati i soldati alla pugna, dava l'ordine di cominciare il fuoco. Allora tutti i soldati, compreso il trombettiere, armati di grossi bastoni principiavano a bastonare furiosamente il tronco della quercia: e nel bollor della mischia si sentiva sempre la voce del generale, che gridava: “Avanti! Coraggio, marmotte!... Serrate le file!...