Alla baionetta!”.

Quando i soldati, stanchi trafelati, non ne potevano proprio più, allora buttavano via i bastoni e la battaglia era finita.

E la quercia?... La povera quercia si lasciava tutti i giorni bastonare, senza mai rivoltarsi, senza mai mandar fuori una mezza parola di lamento: solo di tanto in tanto scoteva malinconicamente i suoi rami coperti di foglie, quasi volesse dire:

“Poveri ragazzi! Lasciamoli fare! Hanno così poco giudizio!...”.

 

 

III.

 

Un giorno, per altro, avvenne un caso orribile e spaventoso; ed ecco come andò.

Il piccolo esercito, secondo il solito, si avanzava a marcia forzata dentro il bosco, in cerca del solito nemico. Quando, tutt'a un tratto, il general Leoncino, che camminava fieramente avanti una ventina di passi, si fermò esterrefatto, e cacciando un grido acutissimo di terrore, si dette a scappare verso casa.

La sua fuga fu così precipitosa e disordinata, che per la strada perse gli sproni di latta e il berretto di generale, col gallone che pareva d'argento.

Che cos'era mai accaduto di strano?...

Quando Leoncino arrivò alla villa, era ansante, boccheggiante e tutto paonazzo in viso come un cocomero troppo maturo.

E per l'appunto la prima persona, in cui s'imbatté, fu lo zio.

Conoscete, per caso, lo zio di Leoncino? Lo dovete conoscere di certo, perché chi lo sa quante volte lo avete incontrato per la strada: ma ora forse non ve lo rammentate più.

Figuratevi, dunque, un omone lungo lungo, grosso grosso, con un faccione largo come la luna, e con un nasone tutto pieno di nasini, da parere un grappolo d'uva.

Di nome si chiama Giandomenico: ma tutti nel paese lo conoscono col soprannome di Nasobello.

Vedendolo la prima volta e giudicandolo dalla fisonomia burbera e accigliata, c'è da scambiarlo per un orco, per un tiranno, per un mangia-bambini, e invece... Invece è una bonissima pasta d'uomo, burlone, allegro, di buon'umore, tutt'amore per i figliuoli e tutto premure e attenzioni per il suo nipotino.

Tant'è vero che appena gli capitò davanti Leoncino scalmanato e impaurito a quel modo, il sangue gli fece un gran rimescolone e gridò subito:

“Che cos'è stato? Perché hai il viso così acceso?... Dove sono rimasti i tuoi cugini?...”.

Il ragazzo stintignava a rispondere: pareva quasi che si vergognasse.

“Dunque?...”, insisté lo zio, alzando sempre più la voce.

“Ecco... dirò... una bestia così brutta...”

“Quale bestia?...”

“Io...”

“Come? tu sei una bestia?...”

“Io, no: quell'altra... che ho trovata nel bosco...”

“Non capisco nulla: ma spiegati, per carità!... Dov'hai lasciato i tuoi cugini?...”

“Fra poco verranno...”

“Eccoci qui! eccoci qui!”, gridarono di fuori cinque voci argentine e squillanti, come tanti campanelli.

E nel tempo stesso entrarono in sala i cinque ragazzi, che si buttavano via dalle matte risate.

Il babbo, che non sapeva il motivo di questo gran buon'umore, disse allora con accento risentito:

“Finitela una volta! Si potrebbe sapere almeno di chi ridete?”.

“Si ride di lui!...” E, accennando Leoncino, dettero in una risata più forte.

“Del nostro coraggioso generale!” E qui una risata più lunga.

“Povero generale, che paura che ha avuta! Diamogli subito un bicchier d'acqua!” E qui una risatona così sguaiata, che non finiva più.

E Leoncino?...

 

 

IV.

 

Leoncino aveva perduto la voce. Stava ritto in mezzo alla sala, con la testa bassa, col mento conficcato nello stomaco, e di tanto in tanto dava dell'occhiatacce ai suoi compagni, come dire: "Quando saremo fuori di qui, faremo i conti e me la pagherete!...".

“Dunque, si può sapere che cos'è accaduto?”, domandò il babbo.

“Te lo racconterò io”, disse Raffaello, quello che faceva da cavalleria.

“No: io!”, gridò Gigino, il rappresentante la fanteria.

“Nossignori, tocca a me”, strillò Arnolfo, il trombettiere. “Io sono il più piccino di tutti; dunque ho più diritto degli altri.”

“Lasciate parlare Arnolfo”, disse il babbo, “e zitti tutti!”

Il piccolo trombettiere, non sapendo lì per lì trovar subito la parola per dar principio al suo racconto, cominciò a fare con la bocca mille versi e a gesticolare con le mani: alla fine poi, trovata la parola, prese a dire come seguitando un racconto:

“Sicché dunque, quando il nostro generale ci disse: "Avanti!" noi tutti si rispose: "Andiamo!".

“Andiamo? Ma dove volevate andare?”, domandò il babbo.

“O che non lo sai? S'andava a far la guerra...”

“La guerra contro chi?”

“La guerra contro Cartagine.”

“E chi è questa Cartagine?”

“È una grossa quercia, che rimane a metà del bosco.”

“E perché la chiamate Cartagine?”

“Bella forza! Perché noi siamo i Romani e andiamo sempre a bastonarla.”

“Ora ho capito tutto!”, disse il babbo. “Prosegui pure il racconto.”

“Sicché dunque, quando si fu per i campi, sarebbe toccato a me a camminare avanti, ma siccome Leoncino è un prepotente per la ragione che ha la sciabola dorata e la striscia bianca al berretto, allora mi saltò addosso col dire: "Il Generale sono io, e tu devi venire dietro a me". Ma questa l'è una riffa; ne convieni, babbo? Scusa, babbino, te che te ne intendi, quando si fa la guerra, chi è che va avanti, il generale o quello che sona la tromba? Io dico che quello che sona la tromba gli è sempre il primo di tutti... ne convieni?... Se no la guerra sarebbe una bella ingiustizia.”

“Via! via! via!”, gridò il babbo. “Non ci perdiamo in tante lungaggini.”

“Mi spiccio in due parole. Sicché dunque, lui, secondo il solito, volle andare avanti, e noi tutti dietro a passo di corsa. Quando tutt'a un tratto, che è che non è, il nostro Generale in capo si ferma... fa due salti indietro, e cacciando un urlo che pareva il fischio del vapore, si mette a scappare. E come scappava!... Se tu avessi visto come scappava!... Ti ricordi, babbo, del gatto del nostro ortolano, quando gli si faceva vedere la frusta? Tale e quale.”

“E la cagione di questo spavento?”

“Figurati! Aveva visto fra l'erba una tartaruga!”

 

 

V.

 

Il signor Giandomenico, udito il racconto, sentiva anch'esso una gran voglia di ridere: ma invece, atteggiandosi a giudice severo e inesorabile, si voltò verso i suoi figliuoli, gridando in tono di comando militare:

“Soldati! In riga di battaglia!”.

A questo comando, i ragazzi si posero tutti in fila, rimanendo immobili e col loro fucilino di legno appoggiato sulle spalle.

Allora il signor Giandomenico riprese:

“Visto e considerato che un generale d'armata, il quale si mette a fuggire perché ha paura di una tartaruga, non è degno di comandare uno dei primi eserciti d'Europa (i soldati chinarono il capo in segno di ringraziamento) ordiniamo e vogliamo che il generale Leoncino si dimetta subito dal supremo grado che ha tenuto finora e prenda invece gli scevroni di caporale. Il prode Raffaello, comandante di tutta la cavalleria, è incaricato di farsi consegnare da Leoncino la sua spada d'onore.”

Raffaello, senza mettere tempo in mezzo, andò subito in fondo alla stanza: e movendosi di là e camminando un po' di trotto e un po' di galoppo, si presentò dinanzi al povero Generale, e fece l'atto di chiedergli la spada.

Leoncino non disse una mezza parola: ma seguitava a tentennare il capo, come fanno i chinesi di gesso. Alla fine, visto che non c'era scampo, cominciò adagio adagio a sfibbiarsi la spada dalla cintola: e sfibbiata che l'ebbe, figurò di consegnarla in mano a Raffaello, ossia al comandante della cavalleria.

Ma invece di consegnargliela, gliela batté sulle dita. E pare che gliela battesse piuttosto forte, perché l'altro si risentì tutto inviperito, e ne nacque un combattimento a corpo a corpo fra la cavalleria e il generale. E chi lo sa come questo combattimento sarebbe finito, se il signor Giandomenico non ci fosse entrato di mezzo con le buone maniere, dando, cioè, un bellissimo scappellotto al generale e pigliando per un orecchio la cavalleria. E così persuase i due guerreggianti a sospendere le ostilità e a firmare lì su due piedi un trattato di pace.

E la pace fu firmata.

Ma il povero Leoncino non sapeva rassegnarsi a quest'atto d'umiliazione; e giorno e notte si lambiccava sempre il cervello per trovare il modo di dare qualche splendida prova di coraggio, tanto da riguadagnarsi il grado e la spada di generale. Cerca oggi, cerca domani, finalmente gli parve di vedersi balenare dinanzi agli occhi una bell'idea.

Quella sera andò a letto tutto contento: e prima di addormentarsi diceva dentro di sé: "Domani o doman l'altro sarò generale daccapo... e allora, guai a Raffaello... Per vendicarmi di lui, ordinerò subito che la Cavalleria debba camminare sempre a piedi!...”.

 Eppure è così: i ragazzi vendicativi spesse volte sono anche ridicoli nelle loro vendette!

 

 

VI.

 

Indovinate un po', ragazzi, quale fu la bellissima idea (dico bellissima, per modo di dire) che balenò alla mente di Leoncino, per dare una gran prova del suo coraggio e per riguadagnarsi il grado di generale?

Fu quella di sfidare i suoi cugini a chi avesse fatto il salto più alto e più pericoloso.