Figuratevi che bel giudizio!

“Io”, disse subito Arnolfo, “scommetto di saltare gli ultimi cinque scalini della scala di casa.”

“Bella bravura davvero!”, replicò Leoncino, con una spallucciata di disprezzo. “Quello è un salto che lo farebbe anche una pulce.”

“E io scommetto di saltare dalla finestra del fienile”, disse Raffaello.

“E noi, se vuoi scommettere, facciamo con te a chi salta meglio la gora del mulino”, dissero Gigino e Asdrubale, i due soldati di fanteria.

“Io poi scommetto di saltare una buccia di fico”, disse ridendo Tonino, capitano d'ambulanza e nel tempo stesso ragazzino pacifico e tranquillo, che faceva tutte le sue cose con flemma, senza riscaldarsi mai di nulla; prova ne sia che non s'era nemmeno accorto di quella memorabile scena, in cui il suo Generale in capo, dopo essere stato degradato, aveva dovuto consegnare la sciabola in presenza a tutta la soldatesca.

Quando ognuno dei ragazzi ebbe detta la sua, Leoncino si fece avanti e domandò con aria baldanzosa di sfida:

“Chi di voi si sente il coraggio di saltare giù nell'orto dalla terrazza del primo piano?”.

“Io no davvero: c'è da rompersi una gamba”, rispose uno dei ragazzi.

“Nemmen'io; c'è da spaccarsi la testa”, rispose un altro.

“Della testa me ne importerebbe poco”, soggiunse Arnolfo ma il male gli è che ci sarebbe da strapparsi i calzoni, e per l'appunto oggi ho i calzoncini nuovi!”

Leoncino sorrise allora d'un risolino maligno e canzonatore e dopo aver dato un'occhiata di compassione a' suoi cugini, disse con aria di smargiasso:

“Dunque voialtri quel salto non avete il coraggio di farlo? Eppure io lo farò, e quando l'avrò fatto, vedremo se continuerete a mettermi in ridicolo... e poi, perché? perché l'altro giorno all'improvviso ebbi paura di una tartaruga. Dicerto, gua', se avessi saputo che era una tartaruga, non sarei scappato.”

“O per chi l'avevi presa?”, domandò Arnolfo ridendo. “L'avevi forse presa per un elefante?...”

“Non dico un elefante... però, quella brutta bestia, a vederla lì fra l'erba, mi fece una certa impressione... un certo non so che... Ma questo, siamo giusti, non vuol dire che in quel momento non avessi coraggio...”

“Tutt'altro” replicò Arnolfo col solito risolino “vuol dire solamente che avesti paura!...”

“Paura io? per tua regola, a coraggio, vi rivendo quanti siete.”

“Canta, canta, canarino!”

“Arnolfo, non offendere!”

“Io non t'ho offeso.”

“Mi hai detto canarino.”

“Canarino non è un'offesa: canarino gli è un uccellino con le penne gialle.”

“Ma io le penne gialle non ce l'ho!”, gridò Leoncino,  iscaldandosi.

“Se non le hai, le potresti avere.”

A quest'ultima uscita di Arnolfo, tutti i suoi fratelli dettero in un solennissimo scoppio di risa.

 

 

VII.

 

Allora Leoncino, lasciandosi vincere dalla bizza, fece l'atto di volersi avventare contro il suo piccolo avversario: ma Raffaello, svelto come uno scoiattolo, lo abbracciò subito a mezza vita, e tenendolo fermo, cominciò a dirgli con una certa cantilena burlesca:

“La si calmi, sor Generale, via, la si calmi! La sia bonino!”.

E tutti gli altri ragazzi a ripetere in coro con la medesima cantilena:

“La si calmi, sor Generale, la si calmi! La sia bonino!...”.

E lì tanto dissero e tanto fecero che Leoncino, dimenticandosi tutta la bizza che aveva addosso, cominciò a ridere anche lui.

Poi, voltandosi verso Arnolfo, gli domandò:

“Mi dici perché te la prendi sempre con me?”.

“Io me la prendo con te? Neanche per sogno. Eppoi, anche se me la prendessi con te, credilo, ci sarebbe la sua brava ragione.”

“Perché?”

“Perché, volere o volare, fosti tu che mi mangiasti la colazione quella mattina che feci da sentinella avanzata. E me ne ricorderò sempre!... ma oramai t'ho bell'e perdonato e non ci penso più. Però tutte le volte che quella colazione mi torna in mente, sento sempre una certa vogliolina... o come chi dicesse, una tentazione di ricattarmi... ma oramai ti ho bell'e perdonato e non ci penso più! E per l'appunto, che fame avevo quel giorno! Una fame da lupi!... Abbi pazienza, Leoncino, se te lo dico: ma quella celia fu una gran brutta celia e me la rammenterò sempre fin che campo... Meno male che oramai t'ho bell'e perdonato e non ci penso più!...”

“Basta, basta!” interruppe Raffaello, che cominciava ad annoiarsi. “Andiamo piuttosto a vedere questo gran salto dalla terrazza?”

“Sì, sì, vogliamo il salto, vogliamo il salto!” gridarono tutti.

Leoncino, a dir la verità, se ne sarebbe tirato indietro volentieri; ma dopo essersi vantato tanto, non poteva più scansare la prova. Il suo amor proprio non gliel'avrebbe permesso!!! Perché bisogna sapere che c'è un amor proprio anche per i ragazzi: molte volte è un amor proprio falso, un amor proprio grullo e malinteso (come nel caso di Leoncino che, per amor proprio, si metteva al rischio di rompersi il collo); ma i ragazzi hanno avuto sempre il brutto vizio di voler ragionare su tutte le cose a modo loro, e questa è stata sempre una gran disgrazia per loro e per le loro famiglie.

 

 

VIII.

 

Leoncino esitò un minuto... due minuti... poi, fatto un animo risoluto, si mosse per andare sulla terrazza: non era per altro entrato nell'uscio di casa, che si trovò davanti lo zio Giandomenico, il quale domandò a lui e a quell'altre birbe:

“Dove andate con tanta fretta?”.

“Si va su in terrazza.”

“In terrazza? A far che cosa?”

“A... a... a prendere una boccata d'aria.”

“Non è vero, sai, babbo!”, disse subito Arnolfo, “non si va a prendere una boccata d'aria: ma si va in terrazza, perché Leoncino, per far vedere che ha più coraggio di noi, ha scommesso di montare sul parapetto della terrazza e di saltare giù nell'orto.”

“È proprio vero che hai fatto questa scommessa?” disse allora lo zio, rivolgendosi al nipote. “Tu dunque credi che il coraggio, il vero coraggio, consista nell'affrontare senza alcun bisogno, i più grandi pericoli? nel saltare per semplice passatempo dai primi piani? nel montar ritti sulla soglia delle finestre? nel camminare in cima ai tetti? nel correre all'impazzata sulle spallette dei fiumi? nell'arrampicarsi in vetta agli alberi? nell'andare a bagnarsi dove l'acqua è più alta, senza saper nuotare?... No, carino mio, no: queste non son prove di coraggio: queste sono temerità imperdonabili, queste sono bravure da matti, che provano solamente la grande spensieratezza e il pochissimo giudizio di voialtri ragazzi!”

A questa parlantina fatta co' fiocchi, il povero Leoncino restò così confuso, che non trovava il verso né di rispondere, né di guardare in faccia lo zio.

Intanto, tutto afflitto e mortificato, andava pensando dentro di sé:

"E io che speravo di aver trovato il modo di riguadagnarmi il grado di comandante!... mentre è proprio un miracolo se oggi non ho perduto anche gli scevroni di caporale!...".

Ma non si dette per vinto! Anzi, il giorno dopo, ricominciò a stillarsi il cervello per trovare qualche nuovo ammennicolo, che valesse a dare una prova di quel coraggio, che egli non aveva, ma che avrebbe voluto avere.

Ora bisogna sapere che, dall'oggi al domani, era capitata appunto nei dintorni di quella campagna una grossa volpe.

Questa famelica bestia, spavento e flagello di tutti i pollai, non solo mangiava i galli, le chiocce, le pollastre e le galline vecchie, ma, occorrendo, divorava allegramente anche i pulcini e i galletti di primo canto, senza nessun riguardo alla loro tenera età.

 

 

IX.

 

Sentendo parlar tanto di quella volpe, Leoncino domandò al guardaboschi dello zio:

“Dimmi, Tonio, come sono grosse le volpi?”.

“Le volpi” rispose il guardaboschi “somigliano molto ai cani; con questa differenza, che hanno la coda assai più grossa, un codone che pare una spazzola. Non le ha mai vedute, lei, le volpi?”

“Mai.”

“Vuol vederne una?”

“Una volpe viva?...”

“No, morta. La trovai cinque anni fa nel bosco, l'ammazzai con una schioppettata, e poi la volli impagliare... ossia, riempire da me: ma non lo dico per vantazione, l'è impagliata così bene, che c'è da scambiarla per una volpe viva. Se lei vuol vederla, venga a casa mia e potrà levarsi questa curiosità.”

“Quando posso venire?”

“Anche domattina.”

“A che ora?”

“Di prima levata, avanti che io vada al bosco.”

Leoncino non intese a sordo. La mattina dopo si alzò di bonissim'ora e senza dir nulla ai suoi cugini, che erano sempre a letto, andò difilato a casa del guardaboschi.

Quando fu là, l'amico Tonio lo condusse in una stanzuccia terrena che serviva per le legna: e in un angolo di questo bugigattolo c'era una bella volpe accovacciata con la testa alta e minacciosa, con gli occhi di vetro, che parevano vivi e veri, e con la bocca aperta in atto di ringhiare e di mostrare rabbiosamente i denti.

Alla vista di quella volpe, Leoncino ebbe, come chi dicesse, una specie d'ispirazione improvvisa...