e voltandosi al guardaboschi, gli disse:
“Come è bella! Me la vuoi vendere?”.
“Vendere? Che le pare! Piuttosto gliela regalo.”
“Davvero?”
“E gliela regalo volentieri: tanto più che starà meglio in casa di lor signori, che in questa stanzuccia umida e senza luce, dove c'è il caso che, una volta o l'altra, me la mangino i topi.”
“Dunque la posso prendere?”
“La prenda pure: ma che la vuole portare da sé alla villa?”
“Sicuro che la voglio portare da me. La villa dello zio è così vicina!”
“Guà: faccia lei.”
Leoncino, con l'aiuto del guardaboschi, si caricò sulle spalle la volpe, ripeté i suoi ringraziamenti, e se ne andò.
X.
Intanto i cinque cugini, appena alzati da letto, domandarono subito di Leoncino: ma Leoncino non c'era.
Aspettarono un quarto d'ora, mezz'ora, un'ora, e Leoncino non tornava: e già cominciavano a mettersi in pensiero, quand'ecco che finalmente Leoncino tornò.
“Dove sei stato finora?”, gli domandarono tutti insieme.
“Sono andato a fare un giro per questi dintorni; e sapete perché? Per vedere se avevo la fortuna d'incontrare la volpe.”
“La volpe non c'è più: è sparita da un pezzo”, disse Raffaello.
“Come lo sai?”
“Sono cinque giorni che non s'è fatta più rivedere, e tutte le galline hanno già ripreso a dormire i loro sonni tranquilli.”
“E se la incontravi davvero?”, disse Arnolfo.
“Se la incontravo? Tanto peggio per lei. Che avete paura, voialtri, della volpe?”
“Noi, sì: dopo che abbiamo visto quelle povere galline sbranate e poi lasciate per i campi...”
“A me poi”, disse Leoncino, “la volpe non mi fa paura.”
“Guarda un po' quanto coraggio hai messo fuori tutt'a un tratto: o chi te l'ha prestato?”, disse Arnolfo ridendo.
“Arnolfo, non ricominciare!... se no, ci guastiamo davvero. Dunque si va o non si va?”
“Dove?”
“A far la nostra passeggiata militare e il solito rancio.”
“Eccoci pronti!”
“Però, come vostro caporale, voglio che oggi il rancio si debba fare lì, al principio del bosco, dov'è quella foltissima macchia, che si chiama... aiutatemi a dirlo.”
“La macchia di Tentennino”, urlarono i cinque ragazzi.
“Bravi! la macchia di Tentennino. Dunque sacco in spalla, e via!”
Dopo venti minuti di marcia forzata, erano già arrivati in vicinanza della macchia: quando, tutt'a un tratto, il caporal Leoncino, fermandosi e voltandosi ai soldati, gridò loro con voce sommessa:
“Alto! e fermi tutti!...”
“Che cos'è stato?...”
“Guardate là, fra le frasche della macchia! non lo vedete quel brutto muso, che sbuca fuori?”
“Altro se lo vediamo! Quella è una volpe!...”
“È una volpe davvero!...”
“Per me, torno subito indietro”, disse Arnolfo impaurito.
“Anche noi, anche noi!”, dissero gli altri fratelli.
“Dunque avete paura?...”, gridò Leoncino. “Marmotte! tornate pure indietro, ma io vado avanti!”
“Leoncino, da' retta a noi, torna indietro anche tu”, dicevano i ragazzi, raccomandandosi e allontanandosi a passo di carica.
XI.
Quando furono alla distanza di quattrocento metri si voltarono a guardare, e videro Leoncino, presso la macchia, che tirava bastonate a destra e sinistra, urlando come un tacchino spaventato.
Questa lotta disperata durò un buon quarto d'ora. Alla fine il valoroso caporale, appoggiatosi il bastone sulla spalla a uso fucile, tutto glorioso e trionfante tornò indietro a raggiungere i suoi compagni, i quali gli si affollarono subito dintorno, ansiosi di domandargli:
“Dunque? Come è andata a finire?”.
“Bene.”
“Ti ha graffiato? ti ha morso?”
“Si è provata due volte a prendermi il bastone coi denti per inghiottirlo.”
“L'hai ammazzata?”
“Mi è fuggita sul più bello... ma è fuggita in uno stato da far pietà... se campa fino a domani è un miracolo.”
A questo racconto, i cinque ragazzi si erano tanto riscaldati, che non potendo più frenare il loro entusiasmo, saltarono al collo del cugino, lo abbracciarono, gli strinsero la mano, gli fecero mille carezze, Arnolfo volle dargli perfino un gran bacio.
Arrivati a casa, come è facile immaginarselo, andarono di corsa dal babbo per raccontargli la gran prova di coraggio che aveva dato Leoncino, combattendo a corpo a corpo con una terribile volpe che pareva un leone.
Leoncino, sentendo tutte queste lodi, non capiva più nella pelle dalla consolazione: e già si figurava di aver riconquistato il titolo di generale, la sciabola coll'impugnatura dorata, le spalline color dello zafferano e il berretto con quella striscia bianca, che luccicava come un gallone d'argento.
Quand'ecco che sul più bello entrò in sala la serva, annunziando che c'era Tonio, il guardaboschi, il quale desiderava di vedere il signor Leoncino.
“Fatelo passar qui” disse lo zio Giandomenico.
E di fatti il guardaboschi si presentò, tenendo il suo cappello in mano e portando sulla spalla una volpe impagliata, piena di ammaccature e ridotta in cattivissimo stato.
“Che cosa vuoi, Michele?”, domandò lo zio.
“Dirò, padrone lustrissimo: stamani ho regalato questa volpe al sor Leoncino, che l'ha presa col dire che l'avrebbe portata alla villa... ma viceversa poi, l'ho ritrovata per caso nascosta nella macchia di Tentennino...”
“Dove?”, gridarono i ragazzi a una voce. “Nella macchia di Tentennino?...”
E nel dir così, si scambiarono fra loro un'occhiata sbarazzina e maligna, che tradotta in lingua parlata voleva dire: "Ora abbiamo capito tutto!...".
Il povero caporal Leoncino, vedendosi oramai scoperto, diventò di tutti i colori, come i segnali delle strade ferrate.
“E guardi, padron lustrissimo”, continuò il guardaboschi, “come me l'hanno conciata questa povera bestia!... Se sapessi chi s'è preso il divertimento di bastonarla a questo modo, pover'a lui!...”
Leoncino, che aveva le lacrime in pelle in pelle, uscì di corsa dalla stanza e andò a rinchiudersi in camera.
Venuta la sera, disse allo zio che voleva tornarsene subito a casa sua, dal suo babbo e dalla sua mamma. Lo zio Giandomenico si provò a sconsigliarlo e a farlo restare ancora per qualche giorno: ma non ci fu verso.
Mentre era sul punto di salire in tranvai, i suoi cugini (sempre un po' monelli), lo baciarono e gli dissero addio: ma intanto gli bisbigliarono in un orecchio:
“Continua a combattere con le volpi impagliate: ma ricordati qualche volta il proverbio che dice: "Chi non ha coraggio, non vada alla guerra"”.
L'avvocatino difensore
dei ragazzi svogliati e senza amor proprio
Il suo nome era Tommaso: ma, in casa e fuori di casa, lo chiamavano Masino.
Masino aveva tutti i difetti, che può avere un giovinetto della sua età, fra gli undici e i dodici anni: disubbidiente, goloso, pigro, dormiglione, nemico dell'acqua per lavarsi le mani e il viso, coperto di frittelle e di strappi in tutti i vestiti che portava addosso, spacciatore di bugie all'ingrosso e al minuto, ciarliero, impertinente, rispondiero e avversario implacabile dei libri e della scuola.
La mamma lo sgridava: il babbo lo rimproverava: il maestro lo puniva, i compagni di scuola lo canzonavano della sua buaggine; ma il nostro Masino non se ne faceva né in qua, né in là.
“Quando avranno detto ben bene, si cheteranno!” E con queste parole, accompagnate da una spallucciata o da una scrollatina di capo, rimetteva l'animo in pace.
Un giorno, per altro, si ficcò in testa di essere perseguitato ingiustamente, e tenne fra sé e sé questo curioso ragionamento:
"Tutti mi sgridano... tutti l'hanno con me!... E la ragione? Alla fin de' conti, io faccio quel che debbono fare tutti i ragazzi. La colpa, dunque, non è mia. La colpa è della mamma, la quale non si cheta mai; la colpa è del babbo, che urla sempre... la colpa è del maestro, che ha bisogno di farmi scomparire tutti i giorni dinanzi a' miei compagni di scuola. Oh che bella cosa se i babbi e le mamme qualche volta si correggessero della loro smania di brontolare!... Oh! che bella cosa se i maestri si persuadessero che dai ragazzi si può pretendere tutt'al più che vadano a scuola... Ma pretendere che vadano a scuola e che studino, mi pare una bella esigenza! Due cose a un tempo, chi è che possa farle?".
Batti oggi e batti domani con questi ragionamenti, Masino ebbe finalmente una bellissima idea, e disse tutto contento:
“Se mi facessi il difensore dei ragazzi come me? Se scrivessi un libro per dare una buona lezione ai babbi e alle mamme, e per correggere questi signori maestri, che sono peggio di tutti? Io non ho mai imparato a scrivere, ma ho sempre sentito dire che si scrive come si parla. Io parlo bene, dunque debbo sapere scrivere!... E pensare che il babbo e la mamma si ostinano a mandarmi a scuola! Un momento: e che cosa potrei scrivere? una Commedia col titolo I brontoloni?... Per la commedia, non toccherebbe a me a dirlo, ci ho avuto sempre molta vocazione. Anche la mamma, quando invento qualche bugia, dice sempre che somiglio al Bugiardo di Goldoni. Dunque, se somiglio al Goldoni, vuol dire che le commedie le so fare anch'io. E poi, quando ho fatto la Commedia, chi me la recita? E se per disgrazia me la fischiano? E il caso c'è, perché i babbi e le mamme, con la scusa di condurre noialtri ragazzi al teatro, vanno sempre alla commedia e alla farsa: e loro mi fischierebbero dicerto. O non sarebbe più liscia se scrivessi invece un bel raccontino, da mettersi sui giornali? Così mi salverei dal pericolo dei fischi, e se mi scappasse qualche sproposito, nessuno ci guarderebbe, perché il babbo dice sempre che i giornali sono pieni di spropositi e di notizie false.
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