E che cosa ha a che fare una coperta di lana in mezzo a tutto questo?
Così protestava il capitano Mac Whirr contro l’impiego delle figure retoriche nel discorso; finì di sbalordire Jukes con un grugnito di disprezzo seguito da qualche parola di violento risentimento.
— Dannazione! Lo caccio a pedate dalla nave, se non sta attento.
E Jukes, incorreggibile, pensò: «Bontà divina! mi hanno cambiato il mio vecchio. È collera vera e propria; la colpa è del tempo! o che altro potrebbe essere? Farebbe montare in bestia un angelo… per non parlar più del santo».
Tutti i Cinesi sul ponte sembravano vicini ad esalare l’ultimo respiro.
Il sole al tramonto, rimpicciolito di diametro, non aveva più che un residuo di splendore rossastro e senza raggi, come se milioni di secoli, trascorsi dal mattino, l’avessero consumato. A nord comparve un alto strato di nuvole, dalla sinistra tinta olivastra; era basso, quasi appoggiato sul mare; la nave, proseguendo la sua rotta, andrebbe sicuramente a battervi contro. Il Nan-Shan avanzava pesantemente, come una creatura esausta che andasse incontro alla morte. Le luci di rame del crepuscolo si spensero lentamente, e la oscurità fece sbocciare allo zenit uno sciame di grandi stelle, vacillanti, oscillanti, come agitate da un bizzarro soffio, e che sembravano vicinissime alla terra.
Alle otto, Jukes entrò nella cabina di guardia per mettere al corrente il giornale di bordo. Copiò accuratamente, secondo le indicazioni degli appunti presi, il numero delle miglia, la rotta della nave, e nella colonna del «vento» scrisse la parola
«calmo» dall’alto al basso della pagina, da mezzogiorno alle otto.
Era esasperato dal rollio monotono ed ostinato della nave.
Il pesante calamaio fuggiva, eludeva la sua penna, si sarebbe detto che fosse animato da qualche spiritello maligno. Nel grande spazio sotto la rubrica «osservazioni», Jukes scrisse:
«Caldo soffocante», poi, messasi fra i denti la estremità del portapenne, come se fosse una pipa, si asciugò la faccia accuratamente.
«Forte maretta trasversale. La nave fatica» scrisse ancora.
« Fatica non è proprio la parola adatta» si disse. Poi di nuovo sul giornale di bordo:
«Tramonto minaccioso con un basso cumulo di nubi a N.
E. Cielo sereno allo zenit».
Levò in alto la penna e, coi gomiti distesi sulla tavola, gettò un’occhiata all’esterno. Nel riquadro della porta aperta, vide un gruppo di stelle esitare, prendere lo slancio, poi volare in alto nel cielo nero; e non restò più al loro posto che una oscurità punteggiata di luci bianche, poiché il mare era nero quanto il cielo, e in lontananza era picchiettato di schiuma. Poi le stelle, che erano scomparse per il rollio della nave, furono ricondotte dall’oscillazione di ritorno che le precipitò in massa verso il mare, ingrandite, come tanti dischetti brillanti di uno splendore mite e chiaro.
Jukes osservò per un istante le grandi stelle fuggenti, poi scrisse: «Ore otto di sera. La maretta aumenta. La nave pena e imbarca acqua. Rinchiusi i coolies per la notte. Il barometro continua ad abbassarsi».
Si arrestò e pensò: «Può darsi che in fondo tutto si risolva in una bolla di sapone». Poi facendo seguito alle sue osservazioni, concluse risolutamente: «Tutte le apparenze dell’avvicinarsi di un tifone».
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