Nell’uscire, dovette farsi da parte per lasciar passare il capitano Mac Whirr, che superò la soglia senza pronunciare una parola né fare un gesto.
— Chiudete la porta, Jukes, per favore! — gridò dall’interno.
Jukes si volse per spingerla, mormorando ironicamente:
— Pare che abbia paura di prender freddo.
Era il suo turno di riposo; aspirava a comunicare coi suoi simili; perciò disse allegramente al luogotenente, mentre gli passava davanti:
— Dopo tutto, la faccenda non ha l’aria così cattiva, vero?
Il luogotenente passeggiava su e giù per la passerella, ora ruzzolando a piccoli passi, ora superando penosamente il pendio instabile del ponte. Al suono della voce di Jukes si arrestò di netto, lo guardò fissamente, ma non rispose.
— Bene! eccone una discreta! — esclamò Jukes che, per ben accogliere l’ondata, s’inchinò fino quasi a toccare il tavolato con una mano.
Questa volta al luogotenente emise dal fondo della gola un suono di natura poco cordiale.
Era un ometto anziano e meschino, coi denti guasti, e col volto glabro. L’avevano imbarcato a Shangai il giorno stesso dell’accidente che aveva privato il Nan-Shan del luogotenente condotto dall’Inghilterra. Quel disgraziato aveva trovato il mezzo (in una maniera che il capitano non era mai riuscito a comprendere) di cadere in una chiatta da carbone vuota accostata lungo il bordo, sicché avevano dovuto mandarlo all’ospedale con una commozione cerebrale e varie fratture.
Jukes non fu scoraggiato dal grugnito ostile.
— I Cinesi devono divertirsi laggiù — disse. — È una fortuna per loro che questo guscio abbia il rollio più dolce di tutte le navi sulle quali io abbia mai navigato. Attenzione!
Quella non era cattiva!
— Attendete solamente — brontolò il luogotenente.
Col naso affilato, rosso alla punta, con le labbra sottili e serrate, aveva sempre l’aria di rodersi internamente di rabbia e il suo modo di parlare era così laconico da rasentare l’insolenza. Quando non era di servizio, passava tutto il tempo nella sua cabina, con la porta chiusa; vi si teneva così tranquillo che si sarebbe potuto credere che cadesse addormentato appena chiusosi dentro. Ma l’uomo incaricato di svegliarlo per il quarto di guardia, lo trovava invariabilmente con gli occhi spalancati, disteso quant’era lungo sulla cuccetta, la testa affondata in un guanciale sudicio, donde lanciava sguardi fulminanti. Non scriveva mai lettere, non sembrava attendere notizie da nessuna parte; una volta l’avevano udito parlare di Hartlepool, ma con un’estrema amarezza, e unicamente a proposito dei prezzi esorbitanti di una certa pensione.
Era uno di quegli uomini come se ne raccolgono in tutti i porti del mondo all’ora del bisogno. Essi non mancano di competenza, ma sono disperatamente a corto di danaro; e il loro aspetto, che pure non attesta alcun vizio, rivela il fallimento irrimediabile della loro vita. Vengono a bordo in un caso d’urgenza; non hanno attaccamento per alcuna nave, che sono per loro tutte egualmente indifferenti; hanno appena rapporti occasionali coi loro camerati, ai quali nulla rivelano della loro vita, poi, bruscamente, decidono di andarsene, e questo sempre nel momento più inopportuno. Se la svignano senza una parola d’addio, in qualche porto abbandonato dal cielo e scendono a terra portando con se una miserabile valigia legata con una corda, come una cassetta, e con l’aria di scuotere dai piedi la polvere della nave che abbandonano.
— Attendete solo un poco — riprese, volgendo a Jukes la schiena curva, che seguiva il movimento dell’enorme ondata.
— Allora pensate che stiamo per aver caldo? — domandò Jukes con un interesse infantile.
— Se penso che… Penso nulla! Non mi ci prenderete! —
ribatté vivamente il piccolo luogotenente con un misto di fierezza, di disprezzo e di astuzia, come se sventasse una trappola nella benevola domanda di Jukes. — No! no!
Nessuno di voi qui mi metterà nel sacco, se me n’accorgo —
borbottò.
Jukes classificò senz’altro il luogotenente nella categoria degli sciocchi villani e deplorò nuovamente il capitombolo del povero James Allen nella chiatta da carbone. L’oscurità lontana del cielo, a prua della nave, sembrava una seconda notte veduta attraverso la notte luminosa della terra: notte senza stelle negli abissi di tenebre oltre l’universo creato, la cui sconcertante tranquillità fosse rivelata dallo squarciarsi della rutilante sfera di cui la nostra terra forma il nucleo.
— Qualunque cosa si prepari — disse Jukes — vi filiamo sopra direttamente.
— Siete voi che l’avete detto — osservò il luogotenente, volgendo sempre le spalle a Jukes.
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