Mac Whirr afferrò per il collo l’altro stivale nel corso delle sue sdrucciolate dia un’estremità all’altra del pavimento. Aveva la testa bene a posto, ma con tutto questo non riuscì sul momento a trovare l’apertura dello stivale per infilarvi il piede. Le scarpe, che aveva lasciate, sgambettavano da un capo all’altro della camera, urtandosi e capitombolando come due cagnolini. Appena fu in piedi, Mac Whirr lanciò rabbiosamente una pedata contro di loro, ma senza risultato.

Allora si lanciò in un’inquartata, alla maniera di uno schermitore, per raggiungere l’impermeabile, nel quale poi s’introdusse a scosse, vacillando nell’angusto spazio della cabina. Molto gravemente, con le gambe aperte a compasso e il collo teso, cominciò a legarsi sotto il mento i lacci del berretto cerato, con le grosse dita un po’ tremanti. Compiva tutti i movimenti di una donna che si aggiusta la pettinatura davanti allo specchio, con un’attenzione raccolta e vigilante, come se si attendesse, da un momento all’altro, di udir gridare il suo nome attraverso il clamore confuso che improvvisamente aveva invaso la nave. Quel clamore raddoppiò di violenza mentre egli si accingeva ad uscire per far fronte a qualunque evento. Ne aveva le orecchie piene, di quella cosa enorme, fatta dell’ululato del vento, dello scroscio del mare e di quella vibrazione dell’aria, profonda e prolungata, simile al lontano rullìo di un tamburo immenso che battesse la carica della tempesta.

Si tenne un momento sotto la luce della lampada, grosso, informe, goffo nel suo apparecchio di combattimento, attento e congestionato.

— Vi è qualcosa di serio, lì dentro — mormorò.

Appena tentò di aprir la porta, il vento se ne impadronì.

Mac Whirr, che si aggrappava alla maniglia, fu proiettato fuori, trascinato a una specie di battaglia a proposito della chiusura della porta, cui il vento risolutamente si opponeva.

All’ultimo momento, una folata d’aria si slanciò verso la lampada, ne accarezzò la fiamma e la spense.

A prua della nave era tenebra fonda, e in basso si vedevano palpitare un’infinità di bianchi bagliori; sopra la gru di tribordo, un piccolo numero di stelle strane svanivano sopra la distesa in subbuglio, pallide, vacillanti, come se davanti ad esse passassero selvaggi turbini di fumo.

Sulla passerella, un gruppo di uomini indistinti erano affaccendati intorno a qualche lavoro faticoso, nello scarso chiarore che usciva dalle finestre della timoneria, illuminando confusamente i loro crani e le spalle curve. Ma l’oscurità bloccò uno dei vetri; poi l’altro. E le voci di quegli uomini, che egli non poteva più vedere, giungevano a lui come voci di uomini perduti nella tempesta, a brandelli di vociferazioni sbalestrate dal vento, che passando venivano ad aggrapparsi al suo orecchio. Subitamente, Jukes corse al suo fianco, urlando, con la testa china:

— Quarto… fissare… sportelli di timoniera… paura… vetri sfondati.

Poi la voce di Mac Whirr che rimproverava:

— Sopraggiunto…

qualunque

cosa…

avvertito…

chiamarmi.

Jukes arrischiò una spiegazione, a metà soffocata dal tumulto:

— Brezza

leggera…

restato…

passerella…

improvvisamente…

nord-est…

volgerebbe…

pensavo…

certamente… avreste udito.

Avevano raggiunto il riparo della camera di navigazione e potevano finalmente parlare alzando la voce, come persone che litigano.

— Ho mandato l’equipaggio a coprire le maniche a vento.

Fortuna che ero rimasto sul ponte! Non pensavo che vi sareste addormentato e allora… Che avete detto, capitano, che?

— Nulla — gridò il capitano Mac Whirr. — Ho detto: Bene.

— Bontà divina! non sfuggiremo questa volta — urlò Jukes.

— Non avete cambiato rotta? — domandò Mac Whirr a squarciagola.

— No, capitano. Assolutamente no. Il vento ed prende in pieno da prua.