Si sarebbe detto che il mare stesso, condividendo la cordiale indulgenza di Jukes, giudicasse inutile darsi da fare per scuotere dalla sua indifferenza quell’uomo taciturno, che raramente levava gli occhi su esso, e che andava a spasso innocentemente sulle acque, con l’unico scopo bene evidente di provvedere il cibo, le vesti e l’alloggio alle tre persone che aveva lasciate a terra.

Brutti tempi, ne aveva naturalmente conosciuti. Era stato inzuppato, sbattuto, sfiancato come di dovere; ma tutte le sofferenze erano dimenticate il giorno seguente. Sicché, a guardar bene, aveva ragione, nelle sue lettere alla moglie, di parlar sempre di bel tempo.

Ma egli non aveva mai intraveduto la violenza implacabile del mare, il suo enorme furore, il furore selvaggio che passa ma che non si esaurisce mai; la collera e l’impeto appassionati del mare. Sapeva che tutto questo esiste, come noi sappiamo che il delitto e l’abominio esistono. Ne aveva inteso parlare, come un pacifico cittadino sente parlare di battaglie, di carestie, di inondazioni, senza figurarsi in alcun modo il vero significato di questi avvenimenti, sebbene gli sia forse capitato qualche volta di trovarsi immischiato in un tafferuglio, o di essere costretto a saltare il pranzo, o di essere bagnato fino alle ossa sotto un acquazzone.

Il capitano Mac Whirr aveva percorso la superficie degli oceani, come talune persone scivolano durante tutta la vita alla superficie dell’esistenza, per distendersi, infine, tranquilli e composti nella loro tomba; senza aver nulla conosciuto della vita, senza aver mai avuto l’occasione di essere a contatto con le perfidie, le violenze, i terrori che essa porta con sé. Sulla terra, come sugli oceani, esistono esseri così favoriti - o così sdegnati - dal destino e dal mare.

CAPITOLO II.

Nell’osservare l’abbassamento persistente del barometro, il capitano Mac Whirr pensava: «Deve fare in qualche parte un tempaccio poco comune». Questa fu esattamente la sua riflessione. Aveva l’esperienza del brutto tempo medio: il termine «brutto» applicato al tempo non implica un eccessivo disagio per il marinaio. Se qualche autorità incontestabile gli avesse annunciata la fine del mondo in dipendenza di una catastrofe

atmosferica,

egli

avrebbe

associata

quest’informazione alla semplice idea di «cattivo tempo» e mente di più, poiché non aveva alcuna esperienza dei cataclismi, e la credenza non implica necessariamente la comprensione.

La saggezza del suo paese aveva decretato, per mezzo di un atto del Parlamento, che prima di essere giudicato degno di assumere il comando di una nave, bisognava essere stato riconosciuto capace di rispondere a qualche semplice domanda a proposito di tempeste circolari, quali gli uragani, i cicloni e i tifoni; e bisogna credere che Mac Whirr avesse saputo rispondere, poiché si trovava ai comando del Nan-Shan nei mari di Cina durante la stagione dei tifoni. Ma era passato tanto tempo da quell’epoca, ed ora non rammentava più nulla.

Era tuttavia cosciente del malessere che gli cagionava quel calore umidiccio. Uscì sulla passerella, ma non vi trovò alcun sollievo al suo disagio. L’aria sembrava rarefatta.

Boccheggiava come un pesce fuor d’acqua, e finì per credersi seriamente indisposto.

La superficie del mare aveva il lucido cangiante d’una stoffa di seta greggia, e in essa il Nan-Shan tracciava un solco fuggitivo. Il sole, pallido e senza raggi, spandeva un calore di piombo in una luce bizzarramente diffusa. I Cinesi si erano distesi sul ponte. Coi loro visi gialli, smunti ed anemici, parevano tutti ammalati d’itterizia. Due di loro colpirono in particolar modo l’attenzione del capitano Mac Whirr; distesi sotto la passerella, con gli occhi chiusi, avevano l’aspetto di due morti. Tre altri, invece, litigavano aspramente, laggiù a prua; un grosso individuo, seminudo, dalle spalle erculee, era indolentemente appoggiato sull’argano, mentre un altro, seduto sul ponte, con le ginocchia rilevate e la testa china da una parte in un atteggiamento di fanciulletta, si rifaceva languidamente il codino. Il fumo lottava penosamente per uscire dal fumaiuolo, e, invece di disperdersi lontano, si spandeva come una nuvola, ammorbando l’aria di zolfo e facendo piovere un pulviscolo sudicio sui ponti.

— Che diavolo fate lì, Jukes? — domandò il capitano Mac Whirr.

Quest’apostrofe insolita fece sussultare Jukes come una stilettata sotto la quinta costola. Con un gomitolo di spago ai piedi, un pezzo di tela sulle ginocchia, lavorava vigorosamente di ago, seduto su una scranna bassa che s’era fatta portare sulla passerella.