Levò gli occhi e la sorpresa diede al suo sguardo un’espressione di candore e d’innocenza.

— Sto rammendando alcuni sacchi di quel nuovo lotto di cui ci siamo serviti per caricare il carbone — rispose senza asprezza. — Ne avremo bisogno la prossima volta che faremo carbone, capitano.

— Dove sono andati a finire dunque i vecchi sacchi?

— Ma si sono logorati, capitano.

Il capitano Mac Whirr considerò per un momento il suo secondo con aria indecisa, poi finì col manifestare la cinica e inattesa convinzione che più della metà di quei sacchi erano dovuti passare sopra bordo. «Se fosse solo possibile sapere la verità» diceva; poi si ritirò all’altra estremità della passerella.

Jukes, esasperato da questa uscita ingiustificata, spezzò l’ago al secondo punto, gettò da una parte il lavoro e si levò in piedi, borbottando imprecazioni contro quel maledetto calore.

L’elica faticava; i tre Cinesi, a prua, avevano cessato improvvisamente di litigare, e quello che prima s’intrecciava il codino, ora lasciava vagare lo sguardo cupo sopra le ginocchia che stringeva fra le braccia. Il sole pallido diffondeva un bagliore debole e come malaticcio. Le ondate si accentuavano, si precipitavano senza posa e la nave cadeva pesantemente nelle molli e profonde cavità del mare. Jukes vacillò.

— Vorrei sapere donde viene questa noiosa maretta —

disse ad alita voce ritrovando l’equilibrio.

— Nord-est — grugnì il positivo Mac Whirr, appoggiato alla ringhiera della passerella. — Deve fare laggiù un tempaccio poco comune. Andate a guardare il barometro.

Quando Jukes uscì dalla cabina di guardia, la sua fisionomia aveva un’espressione preoccupata. Si aggrappò alla ringhiera della passerella e guardò il largo fissamente.

Nella camera dei fuochisti la temperatura aveva raggiunto i 48 gradi centigradi. Voci irritate salivano attraverso l’abbaino, insieme con uno strepito di ferramenta: clamori rudi ed aspri, misti a raschiamenti e stridori metallici corrucciati, come se uomini dalle membra di ferro e dalla gola di bronzo si accapigliassero lì sotto.

Il secondo macchinista litigava coi fuochisti perché avevano lasciato cadere la pressione. Era un uomo dal braccio muscoloso come quello di un fabbro, ed era generalmente temuto; ma, quel pomeriggio, i fuochisti rispondevamo con audacia e sbattevano gli sportelli del focolaio con la furia della disperazione. Il chiasso cessò subitamente, ed il secondo macchinista apparve, emergendo dalla sala delle macchine, tutto sporco come uno spazzacamino e bagnato come se uscisse da un pozzo. La sua testa era appena emersa dal boccaporto, che si mise a tempestare contro Jukes, perché non aveva fatto orientare nella giusta direzione le maniche a vento della camera dei fuochisti. Per tutta risposta, Jukes fece con le mani un gesto di protesta conciliante e rassegnato.

— Non c’è vento; che posso farvi? Guardate voi stesso.

Ma l’altro non voleva intendere ragione. I denti gli brillavano ferocemente nel volto annerito. Era ben capace di ristabilire l’ordine laggiù a suon di pugni, diceva. Ma questi marinai d’inferno s’immaginavano forse che si potrebbe mantenere la pressione in quelle dannate caldaie semplicemente picchiando qualche testa? No, per San Giorgio!

Si aveva anche bisogno di ricevere un po’ d’aria. Che fosse scambiato per un maledetto marinaio di ponte, se mentiva! E

anche il capo ne aveva bisogno, che si dimenava davanti al manometro e faceva cose dell’altro mondo nella sala delle macchine, da mezzogiorno.