. . . . .
[L’Uomo ha risollevato il capo libero e fiero!
E l’improvviso raggio della bellezza antica
fa palpitare il dio nell’altare della carne!
Lieto per il bene presente, esangue per il male sofferto,
l’Uomo vuol tutto sondare, – e sapere! Il pensiero,
puledro così a lungo, così a lungo frenato,
balza dalla sua mente, conoscerà il Perché!...
Che libero si slanci, e l’Uomo avrà la Fede!
– Perché il cielo muto e lo spazio impenetrabile?
Perché le stelle d’oro, fitte come la sabbia?
Se si salisse più in alto, che vedremmo lassù?
Forse un Pastore guida lo sterminato gregge
dei mondi ruotanti nell’orrore dello spazio?
E tutti quei pianeti, che il vasto etere avvolge,
vibrano agli accenti di una voce eterna?
– E l’Uomo, può vedere? può forse dire: Io Credo?
La voce del pensiero è forse più di un sogno?
Se l’Uomo nasce così presto ed ha vita così breve,
da dove dunque viene? Precipita negli Oceani
dei Germi, dei Feti, degli Embrioni, in fondo
all’immenso Crogiuolo da cui Madre Natura
lo resusciterà, vivente creatura,
per amare nella rosa e crescere nel grano?...
Non lo possiamo sapere! – Siamo oppressi
da un manto d’ignoranza e di anguste chimere!
Scimmie umane cadute dalla vulva materna,
la nostra ragione opaca ci cela l’infinito!
Vogliamo guardare: – il Dubbio ci punisce!
Il dubbio, lugubre uccello, ci percuote con la sua ala...
– E l’orizzonte fugge in una fuga eterna!...
. . . . . . . .
I cieli son aperti! I misteri son morti
dinanzi all’Uomo che, eretto, incrocia le sue forti braccia
nell’immenso splendore dell’opulenta natura!
Egli canta... e il bosco canta, mentre il fiume
mormora un inno di letizia che sale verso la luce!...
– È la Redenzione! è l’amore! è l’amore!...]
. . . . . . . .
IV
O splendor della carne! o splendor ideale!
o primavera d’amore, aurora trionfale
in cui, curvando ai loro piedi Dèi ed Eroi,
Callipigia la bianca ed il piccolo Eros,
coperti da una neve di rose, sfioreranno
le donne e i fiori schiusi sotto ai lor piedi!
– O grande Arianna, che singhiozzi sulla riva
vedendo fuggir lontano in mezzo ai flutti,
bianca nel sole, la vela di Teseo,
soave vergine fanciulla che una notte ha spezzato,
placati! Sul suo carro d’oro adorno di neri grappoli,
Lisio, condotto per i campi frigi
da tigri lascive e da fulve pantere,
lungo i fiumi azzurri arrossa i cupi muschi.
– Giove taurino, sul suo dorso, culla come una bimba
il corpo nudo d’Europa, che stringe col candido braccio
il nerboruto collo del Dio, fremente nell’onda.
Egli volge lentamente verso di lei il suo sguardo vago;
ella abbandona la sua pallida guancia in fiore
sulla fronte di Zeus; i suoi occhi sono chiusi; muore
in un bacio divino, e il flutto mormorante
fiorisce la sua chioma della sua schiuma d’oro.
– Fra l’oleandro e il loto chiacchierino
scivola con amore il gran Cigno sognante
abbracciando la Leda fra il candore delle sue ali;
– e mentre passa Cipride, misteriosamente bella,
che, inarcando le splendide rotondità delle sue reni,
ostenta fieramente l’oro dei suoi larghi seni,
ed il suo niveo ventre ornato di muschio nero,
– Eracle, il Domatore, che trionfalmente
avvolge il suo corpo imponente con la pelle di un leone,
con fronte terribile e dolce, s’avanza all’orizzonte.
Sotto il vago chiarore della luna d’estate,
ritta ed ignuda, assorta nel suo dorato pallore
macchiato dall’onda greve delle sue chiome azzurre,
nell’oscura radura stellata di muschio,
la Driade contempla il cielo silenzioso...
– La candida Selene lascia ondeggiare il velo,
trepidante, sui piedi del bell’Endimione,
e dentro un raggio pallido gli manda un dolce bacio...
– Piange lontano la Fonte in una lunga estasi...
È la Ninfa che sogna, un gomito sul vaso,
il bel giovane bianco che la sua onda ha avvolto.
– Un soffio d’amore è passato nella notte
e dentro ai boschi sacri, nell’orrore dei grandi alberi
maestosamente eretti, i cupi Marmi,
gli Dei, sulla cui fronte fa il suo nido il Fringuello,
– gli Dei ascoltano l’Uomo ed il Mondo infinito!
Maggio 1870
Ophélie 1
I
Sur l’onde calme et noire où dorment les étoiles
La blanche Ophélie flotte comme un grand lys,
Flotte très lentement, couchée en ses longs voiles...
– On entend dans les bois lointains des hallalis.
Voici plus de mille ans2 que la triste Ophélie
Passe, fantôme blanc, sur le long fleuve noir.
Voici plus de mille ans que sa douce folie
Murmure sa romance à la brise du soir.
Le vent baise ses seins et déploie en corolle
Ses grands voiles bercés mollement par les eaux;
Les saules frissonnants pleurent sur son épaule,
Sur son grand front rêveur s’inclinent les roseaux.
Les nénuphars froissés soupirent autour d’elle;
Elle éveille parfois; dans un aune qui dort,
Quelque nid, d’où s’échappe un petit frisson d’aile:
– Un chant mystérieux tombe des astres d’or3.
II
Ô pâle Ophélie! belle comme la neige!
Oui, tu mourus, enfant, par un fleuve emporté!
– C’est que les vents tombant des grands monts de Norwège
T’avaient parlé tout bas de l’âpre liberté;
C’est qu’un souffle, tordant ta grande chevelure,
À ton esprit rêveur portait d’étranges bruits;
Que ton cœur écoutait le chant de la Nature
Dans les plaintes de l’arbre et les soupirs des nuits;
C’est que la voix des mers folles, immense râle,
Brisait ton sein d’enfant, trop humain et trop doux;
C’est qu’un matin d’avril, un beau cavalier pâle4,
Un pauvre fou, s’assit muet à tes genoux!
Ciel! Amour! Liberté! Quel rêve, ô pauvre Folle!
Tu te fondais à lui comme une neige au feu:
Tes grandes visions étranglaient ta parole
– Et l’Infini terrible effara ton œil bleu!
III
– Et le Poète dit qu’aux rayons des étoiles
Tu viens chercher, la nuit, les fleurs que tu cueillis5;
Et qu’il a vu sur l’eau, couchée en ses longs voiles,
La blanche Ophélie flotter, comme un grand lys.
15 mai 1870
1 Anche questa poesia fu spedita a Banville nel maggio 1870. Per la composizione R. si è ispirato alla Voie lactée, nelle Cariatidi di Banville, in cui Shakespeare veniva celebrato attraverso un’evocazione di Ofelia e Giulietta. Forse R. conosceva anche il quadro del pittore preraffaellita inglese Millais, in cui Ofelia è rappresentata galleggiante sulle acque di un ruscello, circondata da giunchi, arbusti e cascate di fiori. Ma qui diventa un personaggio simbolico, la rivendicazione stessa della libertà individuale.
2 Plus de mille ans: simbolicamente Ofelia rappresenta le sofferenze dell’umanità.
3 Astres d’or: troveremo spesso in R. l’idea pitagorica dell’armonia delle sfere.
4 Un beau cavalier pâle: è Amleto, che nell’omonima tragedia di Shakespeare si siede appoggiando la testa sulle ginocchia di Ofelia per ascoltare la rappresentazione dei commedianti.
5 Les fleurs que tu cueillis: Ofelia è caduta nell’acqua mentre cercava di appendere ad un salice delle corone di fiori da lei intrecciate.
Ofelia
I
Sull’acqua calma e nera, dove dormono le stelle,
come un gran giglio ondeggia la bianca Ofelia,
ondeggia lentamente, stesa fra i lunghi veli...
– Dalle selve lontane s’odono grida di caccia.
Son più di mille anni che la triste Ofelia
passa, bianco fantasma, sul lungo fiume nero.
Son più di mille anni che la sua dolce follia
mormora una romanza alla brezza della sera.
Il vento bacia i suoi seni e dischiude a corolla
i grandi veli cullati mollemente dalle acque;
i salici frusciando piangono sulla sua spalla,
sull’ampia fronte sognante si chinano le canne.
Le ninfee sfiorate le sospirano intorno;
ella risveglia a volte, nel sonno di un ontano,
un nido da cui sfugge un piccolo fremer d’ali:
– un canto misterioso scende dagli astri d’oro.
II
O pallida Ofelia, bella come la neve!
Tu moristi fanciulla, da un fiume rapita!
– I venti che precipitano dai monti di Norvegia
ti avevano parlato dell’aspra libertà;
e un soffio, sconvolgendo le tue folte chiome,
all’animo sognante portava strani fruscii;
il tuo cuore ascoltava il canto della Natura
nei gemiti delle fronde, nei sospiri delle notti;
l’urlo dei mari in furia, come un immenso rantolo,
spezzava il tuo seno acerbo, troppo dolce ed umano;
ed un mattin d’aprile, un bel cavaliere pallido,
un povero folle, si sedette muto ai tuoi ginocchi!
Cielo! Amore! Libertà! Qual sogno, mia povera folle!
Tu ti scioglievi a lui come la neve al sole:
le tue grandi visioni ti strozzavan la parola
– e l’Infinito tremendo smarrì il tuo sguardo azzurro!
III
– Ed il poeta dice che ai raggi delle stelle
vieni a cercar, di notte, i fiori che cogliesti;
e d’aver visto sull’acqua, distesa fra i lunghi veli,
la bianca Ofelia ondeggiare come un gran giglio.
15 maggio 1870
Bal des pendus1
Au gibet noir, manchot aimable,
Dansent, dansent les paladins,
Les maigres paladins du diable,
Les squelettes de Saladins2.
Messire Belzébuth tire par la cravate
Ses petits pantins noirs grimaçant sur le ciel,
Et, leur claquant au front un revers de savate,
Les fait danser, danser aux sons d’un vieux Noël!
Et les pantins choqués enlacent leurs bras grêles:
Comme des orgues noirs, les poitrines à jour
Que serraient autrefois les gentes3 damoiselles,
Se heurtent longuement dans un hideux amour.
Hurrah! les gais danseurs, qui n’avez plus de panse!4
On peut cabrioler, les tréteaux sont si longs!
Hop! qu’on ne sache plus si c’est bataille ou danse!
Belzébuth enragé racle ses violons!
Ô durs talons, jamais on n’use sa sandale!
Presque tous ont quitté la chemise de peau;
Le reste est peu gênant et se voit sans scandale.
Sur les crânes, la neige applique un blanc chapeau:
Le corbeau fait panache à ces têtes fêlées,
Un morceau de chair tremble à leur maigre menton:
On dirait, tournoyant dans les sombres mêlées,
Des preux, raides, heurtant armures de carton.
Hurrah! la bise siffle au grand bal des squelettes!
Le gibet noir mugit comme un orgue de fer!
Les loups vont répondant des forêts violettes:5
À l’horizon, le ciel est d’un rouge d’enfer...
Holà, secouez-moi ces capitans6 funèbres
Qui défilent, sournois, de leurs gros doigts cassés
Un chapelet d’amour sur leurs pâles vertèbres;
Ce n’est pas un moustier7 ici, les trépassés!
Oh! voilà qu’au milieu de la danse macabre
Bondit dans le ciel rouge un grand squelette fou
Emporté par l’élan, comme un cheval se cabre:
Et, se sentant encor la corde raide au cou,
Crispe ses petits doigts sur son fémur qui craque
Avec des cris pareils à des ricanements,
Et, comme un baladin rentre dans la baraque,
Rebondit dans le bal au chant des ossements.
Au gibet noir, manchot aimable,
Dansent, dansent les paladins,
Les maigres paladins du diable,
Les squelettes de Saladins.
1 Per questa poesia, R. si è indubbiamente ricordato della Ballade des pendus di Villon. Ma sembra anche ispirarsi ad un’altra Ballade des pendus, quella di Banville, e ai due brani Bûchers et Tombeaux e Le souper des armures degli Emaux et camées di Gautier. Il Medioevo è visto sotto un profilo macabro, come era di moda nell’Ottocento, ma si può notare una causticità ed un certo compiacimento dell’orrore, tipicamente rimbaldiani.
2 Saladino: soprannome onorifico attribuito ai sultani.
3 Gentes damoiselles: gent è la forma medievale dell’aggettivo gentil, con valore di «nobile».
4 Panse: forma medievale di «ventre».
5 Forêts violettes: R. userà spesso l’aggettivo «violet» riferendosi alle foreste ardennesi.
6 Capitans: voce di origine spagnola che ha il valore negativo di «millantatore», «spaccone».
7 Moustier: forma medievale per «monastère».
Il ballo degli impiccati
Sulla forca nera, grazioso moncherino,
ballano e danzano i paladini,
smunti araldi del demonio,
scheletri di Saladini.
Messer Belzebù tira per la cravatta
i neri burattini che fan sberleffi in cielo,
e, colpendoli in fronte con una suola di ciabatta,
li fa ballare al suono di un canto di Natale!
I fantocci si urtano intrecciando le gracili braccia:
come dei neri organi, i petti traforati,
che stringevano un tempo le dolci damigelle,
si urtano a lungo in un orrido amplesso.
Viva i gai ballerini che non hanno più la pancia!
Potete piroettare, il palco è così vasto!
Su! che nessuno capisca se è lotta oppure danza!
Belzebù furiosamente gratta i suoi violini!
Dure calcagna, voi non usate sandali!
Quasi tutti han gettato la camicia di pelle;
il resto non può turbare e all’occhio dare scandalo.
La neve posa sui crani un bianco cappello:
il corvo fa da pennacchio a queste teste crepate,
un brandello di carne tremola al mento scarno:
par di veder volteggiare in fosche mischie
dei prodi stecchiti, cozzanti in armature di cartone.
Evviva! il vento fischia al gran ballo degli scheletri!
La nera forca mugghia come un organo di ferro!
E i lupi le rispondono dalle foreste viola:
all’orizzonte, il cielo è di un rosso infernale...
Olà, scrollatemi questi funebri spacconi
che sgranano, sornioni, con le grosse dita spezzate,
un rosario d’amore sulle vertebre livide;
ehi, non è un convento questo, trapassati!
Ed ecco che nel bel mezzo della macabra danza
balza nel cielo rosso un gran scheletro pazzo
sospinto dallo slancio, come un cavallo che s’impenna:
e, ancora sentendo la corda tesa al collo,
contrae le magre dita sul femore che scricchiola
con stridori simili a sghignazzate,
poi, come un saltimbanco che torni al carrozzone,
ritorna nella danza al canto delle ossa.
Sulla forca nera, grazioso moncherino,
ballano e danzano i paladini,
smunti araldi del demonio,
scheletri di Saladini.
Le châtiment de Tartufe1
Tisonnant, tisonnant son cœur amoureux sous
Sa chaste robe noire, heureux, la main gantée,
Un jour qu’il s’en allait, effroyablement doux,
Jaune, bavant la foi de sa bouche édentée,
Un jour qu’il s’en allait, “Oremus”2, – un Méchant
Le prit rudement par son oreille benoîte
Et lui jeta des mots affreux, en arrachant
Sa chaste robe noire autour de sa peau moite!
Châtiment!...
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