Sarà possibile?

Il testo che permette di capire la Saison en Enfer è una delle tre cosiddette «proses évangéliques», scritte certamente prima del luglio 1873, che comincia con le parole «Beth-Saïda, la piscine des cinq galeries». Interpretazione del Capo V, 1-9, del Vangelo secondo San Giovanni, dove si parla di Betsaide, la piscina probatica, scritta su un foglietto sul rovescio del quale vi è una minuta della Saison en Enfer, fu utilizzata dalla sorella di Rimbaud, Isabelle, e dal marito Paterne Berrichon, per cattolicizzare la stessa Saison en Enfer, leggendo invece che «Beth-Saïda, la piscine des cinq galeries», «Cette saison [sottolineo], la piscine des cinq galeries», e facendone un prologo alla Saison en Enfer, benché questa, stampata dall’autore, ne risulti priva. Se però Berrichon aveva nella fattispecie torto, è esatto pensare che la prosa «evangelica» è la prefigurazione della Saison en Enfer. In essa, aspra critica al Cristo come le altre due, Gesù compie la sua prima «azione grave», cioè il primo miracolo: «Jésus entra aussitôt après l’heure du midi... Le divin maître se tenait contre une colonne» mentre il demonio rideva e rinnegava; d’un tratto, il Paralitico si alzò e «fu con passo singolarmente sicuro» che i Dannati lo videro «percorrere il portico e sparire nella città». – Che intende dire? Intende che la prosa evangelica, rispetto al Vangelo, non è parafrastica ma antifrastica; e che secondo Rimbaud il Paralitico esce perché Gesù è entrato. Gesù è veramente il «divino maestro»; ma la presenza di un Dio in quel luogo di disperazione, commenta Étiemble, «met le comble àl’écoeurement»12; e il Paralitico se ne va, cioè (forse) va a essere Paralitico «dans la Ville».

Alla luce di questo meccanismo antitetico – Rimbaud crede nel potere del cristianesimo ma vuole uscirne – la Saison en Enfer, che per tanti motivi (i Dannati, il Demonio, il peccato, gli «éclairs d’enfer») è legata a Beth-Saïda, trova la sua completa spiegazione. La piscina probatica, che i fulmini stanno per trasformare in luogo di tormento, è l’anticamera dell’inferno. Dopo l’esperienza di Bruxelles Rimbaud ha avuto paura: «sur mon lit d’hôpital, l’odeur de l’encens m’est revenue si puissante... Je reconnais là ma sale éducation d’enfance». Ha perciò deciso di liberarsi dal cristianesimo. A questo scopo egli giuoca l’unica carta possibile, la carta di una sua irresponsabilità di fronte al cristianesimo. Polemico e asociale, getta di colpo la maschera di una «civiltà» e si dichiara figlio dei celtici galli, privo di antenati di fama, predatore e lebbroso, sempre nemico della Chiesa: «Je ne me vois jamais dans les conseils du Christ; ni dans les conseils des Seigneurs, représentants du Christ». Così dichiara il suo «cattivo sangue», e con la cattiveria si rende libero. Talvolta – dice – ebbe la tentazione di inserirsi nella società borghese, di «mettersi nella politica», di «affittarsi», di adorare una qualche «bestia», di «spezzare» un certo numero di cuori, di mentire, «camminare nel sangue»; ma è sempre stato dalla parte degli infelici, del «forçat intraitable», e si è sempre ritrovato solo, privo dell’affetto di una donna, di un qualsiasi compagno. Perciò l’unica salvezza consiste nel dichiararsi – e nell’essere – al di fuori della civiltà dei preti, dei professori e dei padroni. Quanto ha patito, nel battesimo! Da ora in poi sarà il «vero negro»; «le plus malin est de quitter ce continent» e di entrare nel «vero regno dei figli di Cam», che stanno al di fuori del battesimo. Finalmente, con L’impossible comincia a uscire dall’inferno, con Matin risorge la speranza, con Adieu tutto è chiaro: ha cercato di inventare nuovi fiori e nuovi linguaggi; «Eh bien! je dois enterrer mon imagination et mes souvenirs». Solo così potrà possedere la verità in un’anima e un corpo – in sé medesimo – liberato da ogni antico amore menzognero. La soluzione è tragicamente solipsista.

Rimangono da capire i due Délires. Il primo è dedicato a Verlaine, e ne possiamo lasciare il commento agli specialisti in critica biografica. Quanto al secondo, la famosa Alchimie du Verbe, è ancora spiegabile con Baudelaire e i Paradis artificiels, il Poème du Haschisch in particolare, e con speciale riguardo per il terzo capitolo intitolato Le Théâtre de Séraphin13, ed è poco credibile che Rimbaud non li avesse letti. Con l’ausilio di questo testo il racconto dell’Alchimie risulta chiaro, dalle «molte vite» che la droga, moltiplicando le sensazioni, sembra offrire al soggetto, alle «allucinazioni semplici», all’amore per le «peintures idiotes, dessus de portes, décors, toiles de saltimbanques», che trovano un preciso riscontro in Baudelaire14. Perfino la battuta «j’expliquai mes sophismes magiques avec l’hallucination des mots» ha una probabile fonte nelle osservazioni sulla «sorcellerie évocatoire» dell’arida grammatica per cui, durante l’esaltazione artificiale, le parole risuscitano, rivestite di carne e ossa15. Né Rimbaud ignora Un Mangeur d’Opium, che dopo Musset Baudelaire aveva pubblicato sulla «Revue contemporaine» del 15 e del 31 gennaio 1860, e che nel sesto capitolo, Le Génie enfant, approfondisce quanto le «étranges rêveries» dell’adulto debbano alle reminiscenze infantili. È perciò sulla traccia di uno dei motivi più tenaci del romanticismo, quello che identifica genio poetico e fanciullo, che Rimbaud operò: immergendosi nella ispirazione per ritrovare la propria natura primitiva, e avvicinandosi così – spiega il testo di QuinceyBaudelaire – alla condizione dell’animale che, «par sa joie insouciante», è una specie di rappresentazione dell’infanzia dell’uomo16. Con la preziosa scorta di questi consigli, e sempre nell’intento di liberarsi dal linguaggio occidentale, Rimbaud aveva tentato di «restaurare» la propria infanzia.

Ma ecco risorgere la difficoltà cui aveva alluso sia nella «lettre du voyant» sia, in modo indiretto e ancora informe, nel Bateau ivre. Per manifestare una esperienza primordiale, per essere puro dal battesimo, vero negro, libero dalla civiltà e dal suo linguaggio, egli aveva bisogno di «sregolare» il linguaggio medesimo, «d’inventer un verbe poétique accessible, un jour ou l’autre, à tous les sens». Gli studiosi si sono tormentati a lungo sull’interpretazione da dare a questa frase. Mi sembra evidente, ancora una volta, che Rimbaud avesse capito uno «sregolamento» di sensi come «sregolamento» dei significati, inventando – o meglio perfezionando una invenzione romantica – la parola ambigua o polisensa, «dato che non si può avere un moltiplicarsi di “sensazioni” cui non corrisponda una parallela moltiplicazione semantica, e inversamente non una moltiplicazione semantica senza il moltiplicarsi delle sensazioni»17. E qui troviamo nuovamente una misteriosa minaccia alla salute: «Je tombais dans des sommeils de plusieurs jours, et, levé, je continuais les rêves les plus tristes». Sempre nel Théâtre de Séraphin è detto che l’ebbrezza della droga è un «immenso sogno» che «governa l’uomo», soggiogandolo: «Il a voulu faire l’ange, il est devenu une bête»18; e nel quarto capitolo di Un Mangeur d’Opium, intitolato Tortures de l’Opium, la descrizione di un progressivo annullamento della facoltà umana è assai affine a quanto racconta Rimbaud.