Il dramma si conclude: nello sforzo di inventare «nuovi fiori», un nuovo linguaggio poetico, accadde che non era il poeta a evocare le immagini ma le immagini a impadronirsi di lui: «La mémoire poétique, jadis source infinie de jouissances, est devenue un arsenal inépuisable d’instruments de supplices»19. L’alchimia della parola diventava orgia incontrollabile della fantasia.

Rimane da avvertire il lettore che se Rimbaud utilizzò i testi di Quincey e di Baudelaire, non è affatto provata una sua reale e sistematica frequentazione della droga. Non voglio dire che non ne abbia sperimentati talvolta qualità e pericoli. Ma, come per Baudelaire, è improbabile che la sua striminzita borsa, anche se rifornita da Verlaine, gli offrisse molte possibilità. Di sicuro c’è che anche la droga, in Baudelaire e in lui, è simbolo di «rêve» e fantasia. E una fantasia eccitata oltre misura si rivelava perniciosa.

Sempre uguale era la verifica: «Io! io che mi sono detto mago o angelo, dispensato da ogni morale, sono qui steso al suolo, con un dovere da cercare, e la realtà rugosa da stringere! Bifolco!».

La «stagione» poetica di Rimbaud era conclusa. Ogni altro suo gesto, dello scrittore o dell’uomo, sarà ripetizione dell’inattuabile progetto di fabbricare, almeno per sé, il mondo nuovo. Così con le Illuminations, la cui meravigliosa «prosa» poetica egli andò distillando sempre più rarefatta e lucida, scintillante e impenetrabile. Tentava nel frattempo nuove vie di uscita dall’occidente, non solo ancora a Londra con Germain Nouveau, in Germania, in Italia e in Austria, forse in Svezia e in Danimarca, ma a Batavia con l’armata coloniale olandese, fino alla partenza per l’Egitto e Cipro.

Trascurerò qui, per la difficoltà del problema e perché credo di averne sufficientemente parlato, la intricatissima questione della precedenza cronologica della Saison en Enfer sulle Illuminations, per me definitivamente chiusa ma per altri tuttora aperta o da risolvere in modo affatto diverso20. Dirò soltanto delle due ipotesi. Essendo sicuri che i Derniers Vers risalgono in gran parte al 1872, e che la Saison en Enfer fu scritta tra l’aprile e l’agosto del 1873, le Illuminations, il cui manoscritto ci è giunto miracolosamente attraverso peripezie non ben note, possono essere state composte o prima o dopo la Saison en Enfer. Se sono precedenti alla Saison en Enfer, a quale periodo della sua vita si intende attribuirle? Per lungo tempo editori poco scrupolosi pubblicarono le Illuminations mescolate ai Derniers Vers; ma da un lato i manoscritti non lo consentono, dall’altro per la storia del «petit poème en prose» in Francia – nato con Baudelaire nella forma definitiva, realizzato e imposto da Rimbaud21 – è impossibile che egli avesse contemporaneamente concretizzato due forme poetiche tanto lontane, e dalle esigenze così dissimili, senza una progressiva e lenta maturazione. La fase intermedia infatti esiste: i frammenti dei Déserts de l’Amour e le prose evangeliche, che testimoniano un travaglio di avvicinamento alla nuova espressione. Consideriamo inoltre un documento da tutti trascurato, la lettera di Rimbaud a Delahaye da Laïtou, Roche, del maggio 1873 (si ignora il giorno esatto), in cui dice: «Je travaille [...] assez régulièrement; je fais de petites histoires en prose [sottolineo], titre général: Livre païen, ou Livre nègre». Si sa che il Livre païen o nègre era un primo abbozzo del tentativo anticristiano, di cui rimangono tracce numerose nella Saison en Enfer22, e per cui a buon diritto Rimbaud indicò la Saison en Enfer datata «avril-août 1873». Poi aggiungeva nel poscritto, sempre a Delahaye: «Mon sort dépend de ce livre pour lequel une demi-douzaine d’histoires atroces sont encore à inventer... Je ne t’envoie pas d’histoires, quoique j’en aie déjà trois...». Quali erano, queste piccole «storie» in prosa?

A me pare che il ragionamento – sfuggito per esempio a Chadwick che ha di recente pubblicato numerose pagine con l’intenzione di confermare la precedenza cronologica delle Illuminations23 – sia quasi elementare. Se nel maggio del 1873 Rimbaud aveva scritto tre «prose», e intendeva «inventarne» ancora una mezza dozzina, ciò significa che per scrivere gli altri trentanove componimenti che formano le Illuminations la critica può dargli il tempo massimo di una quarantina di giorni: né bisogna dimenticare che il 24 maggio Rimbaud ritrovò Verlaine a Bouillon, ripartì poi per l’Inghilterra, e che il 4 luglio si riacutizzava una crisi che doveva esplodere il 9 con il colpo di pistola cui seguirono i giorni angosciosi del processo: Rimbaud rientrò a Roche solo il 20 luglio, e per finire Une Saison en Enfer, non per continuare le Illuminations. Quaranta giorni, e così agitati, sono veramente troppo pochi per una operazione poetica radicale rispetto anche al precedente immediato di Baudelaire. Ma, si può obbiettare, è possibile che le Illuminations, già scritte, fossero state tralasciate, o abbandonate a Londra dal poeta, che avrebbe cominciato a scrivere altre storie in prosa. Veramente? E quali altre storie in prosa? Dalla lettera a Delahaye spira un’aria di novità rispetto alle opere in versi, e la coscienza del poeta doveva ben avvertirlo che la «prosa» era appunto assoluta novità rispetto al «verso». Anche oggettivamente parlando, avendo già scritto le piccole storie in prosa che compongono le Illuminations, quali piccole storie in prosa poteva «inventare» che non solo non potessero, ma dovessero semplicemente aggiungersi a quelle già scritte? Senza tener conto che per colui che abbia una esperienza anche elementare della scrittura poetica – e certi studiosi ne hanno pochissima – è impossibile pensare che Rimbaud, trovata (in senso trobadorico) la forma delle Illuminations, l’abbandoni per ricominciare daccapo senza che un fatto, una circostanza, un qualcosa determini una vera e propria conversione. Ma nella vita di Rimbaud, in quel periodo, non c’è nulla che possa giustificare una conversione e una «rinuncia» alle Illuminations già scritte. Oltre a tutto, Chadwick e gli altri sarebbero costretti – se leggessero l’italiano – a spiegare non solo il silenzio di Rimbaud dopo la Saison en Enfer, ma anche un «silenzio» dopo le Illuminations, scritte e abbandonate, e prima di scrivere e abbandonare la Saison en Enfer. Saremmo in piena fantacritica.

Ben si conviene perciò, e salvo prove contrarie e non ulteriori congetture di cui in verità siamo anche troppo provvisti, considerare le Illuminations posteriori alla Saison en Enfer. Data la premessa, alcune conseguenze sono inevitabili. La prima è che la Saison en Enfer, abbandonata nelle cantine del tipografo belga e di cui il poeta ebbe solo poche copie d’autore, non può significare – anche se al momento in cui cominciò a scriverla lo pensò – un mitico abbandono della poesia, ma la scelta di una nuova poesia; e questa scelta era ripensamento, riesame, rielaborazione, come sempre, della condizione di lui poeta. Salvo che questa volta il bilancio è risolutivo. Non più fiori, acqua fluente, sete, fuoco, torture infernali, esclamazioni, bestemmie, invocazioni, «auberges» verdi o castelli, speranze e sogni, e nemmeno satire o imprecazioni politiche, ma puramente e semplicemente fiori artici, ghiaccio, assenza di sete, freddo, immagini che in modo dichiarato ed esplicito «non esistono», lamenti di orfanelli, pesanti verbi al passato remoto – e poi cristalli, rocce, il sepolcro per un «poësque» seppellimento prematuro, luci livide, orologi che non suonano, aria immobile, noia – solo rare e calde lacrime – e un diluvio placato, una saggezza superflua perché disdegnata da tutti, un esilio, una filigrana di taciturnità morente e, su tutto, la confessione risoluta, veramente virile: «Ho rimescolato il mio sangue. Il dovere mi è condonato. Bisogna che non pensi neppure più, a quello.