Sono realmente d’oltretomba, e senza commissioni». È una lunga «Ronda siberiana» attorno alle grandi possibilità annientate dalla solitudine. E le democrazie? Un paesaggio immondo di mostruosi sfruttamenti industriali e militari. E l’amore? Il saccheggio desolato di una masturbazione o la fuga, al mattino, tra le prostitute di periferia. E la «magia» borghese? Com’è possibile sottomettersi ancora, se è chiaro che sarà seguita dallo sterminio del pianeta, e «non sarà certo effetto di leggenda»? Quanto alla giovinezza, il piccolo bambino che soffocava di maledizioni in riva a un ruscello ha ora un coro di melodie notturne. Rimbaud fa il saldo: c’è solo da vendere tutto ciò che ancora non è stato venduto. Rimane Génie, a splendere alla fine delle Illuminations, perfetta creatura immanente che è il genio dell’umanità, ovvero il genio fanciullo e poeta, fecondo al di là delle «novelle sventure». Poi, basta.
Sarebbe troppo lungo indicare al lettore, in un testo la cui esegesi non è nemmeno sempre possibile, una chiave che d’altronde Rimbaud (come dice in Parade) ha meditatamente sottratto. Qual è la ragione di questa «chiusura»? Il poeta respinto da una società ha giocato la carta dell’oscurità impenetrabile: un modo per essere finalmente ascoltato. Lo sarebbe stato altrettanto in un contesto limpido? C’è da scommettere di no, e opporre a una stregoneria politica una stregoneria poetica non fu forse alternativa incauta. Rimane il fatto di un quasi fatale svolgimento verso questa conclusione non tanto esoterica quanto sintomo di una precoce senescenza lirica. In una poesia dei Derniers Vers, Fêtes de la Faim, Rimbaud sembra costretto a mangiare pietre e ciottoli, maledicendo lo stomaco che si torce di fame e di sventura. Nel quinto paragrafo di Enfance è definitivamente rinchiuso in un sepolcro, circondato dallo spessore del globo, ed è il suo ultimo e irrinunciabile «salotto». Per questo non si può parlare, propriamente, di una rinuncia poetica di Rimbaud. Non aveva più nulla da aggiungere, come se fosse stata la poesia, oggetto ormai superfluo nella sua evoluzione esistenziale, a staccarsi da lui.
Così accadde che la lirica dell’Ottocento francese, dopo lunga parabola, allorché volle impegnarsi nella lotta con la realtà, e non volendo disperdersi in fantasmagorie verbali ed estetizzanti, fu costretta – per la prima volta ma non per l’ultima – a scomparire per mancanza di parole autentiche.
L’uomo Rimbaud sopravvisse ancora per parecchi, anche se non molti, anni. Ma cosa divenne e come visse? Fino al 1875 persistette un interesse per la poesia, se nella lettera del 14 ottobre di quell’anno rivela ancora, in pochi versi contorti, l’umorismo antico; ma già faceva progetti pratici, informandosi sul «bachot ès sciences». Poi, il 17 novembre 1878, mandò ai suoi una lettera in cui raccontava il passaggio del Gottardo, a piedi, con vena giornalistica. Null’altro. Cioè, nelle numerosissime lettere che rimangono del periodo successivo, fino a quella del 20 luglio 1891, non c’è non solo il più piccolo accenno alla letteratura ma nemmeno la minima cadenza dello scrittore. Sono lettere di un impressionante realismo, fatto di cose e tormenti esotici, di deserti e desolazioni. La sua vita? In Africa cercò indubbiamente con metodi leciti e illeciti – ma là la distinzione era precaria – di accumulare danaro, e in parte vi riuscì. Non ebbe mai una vita privata, e la favoletta di un amore indigeno è fin troppo smentita da un biglietto autografo a Franzoj in cui si legge: «Cher Monsieur Franzoj, Excusez-moi, mais j’ai renvoyé cette femme sans rémission... J’ai eu assez long temps cette mascarade devant moi...»24. Morì come si sa a Marsiglia, alle dieci del 10 novembre 1891, per diffuso processo canceroso causato da una sinovite trascurata e dalla sifilide, malattia assai diffusa e virulenta in Africa. Aveva trentasette anni.
Non seppe mai, o non volle sapere, che dal 1883 i Poètes Maudits di Verlaine avevano cominciato a diffondere la sua fama. L’agonia e la morte passarono però inosservate e l’undici dicembre 1891 lo stesso Izambard ignorava che l’antico allievo era sepolto da un mese. Cominciò poi il «Mito» di Rimbaud, già indagato da Etiemble, ovvero la strana e non sempre onesta storia di infinite leggende secondo una sterminata schiera di eruditi, critici e professori. Ma tenuto conto che non è ancora scoccato il centenario della Saison en Enfer, si può anche dire che tanto travaglio non è stato, in fin dei conti, eccessivo, e auguriamoci sia utile almeno per cominciare ad occuparci – meglio tardi che mai – di Rimbaud il poeta.
GIANNI NICOLETTI
9 gennaio 1972
1 Cfr. R. Étiemble, Rimbaud, Gallimard 1950, p. 81.
2 Qu’est-ce pour nous, mon cœur..., poesia probabilmente inserita per errore tra i Derniers Vers, e che appartiene al periodo precedente.
3 Nella lettera a Izambard del 13 maggio 1871.
4 Intitolato anche Le Cœur volé o Le Cœur du Pitre.
5 L’idea di un «ascolto» della poesia, cioè di un rapporto tra poeta e pubblico, è molto frequente nella letteratura romantica francese.
6 Cfr.
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