Tutti i racconti

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Traduzione di Lucio Angelini
Edizione e-book: gennaio 2012
©1995, 2009 Newton Compton editori s.r.l
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-3907-7
www.newtoncompton.com
edizione digitale a cura di geco srl
Virginia Woolf
Tutti i racconti
Introduzione di Eraldo Affinati
Edizione integrale

Il destino assoluto di Virginia Woolf
C'è un momento, nella prestigiosa nonché controversa storia del romanzo, in cui la fiducia comunicativa dello scrittore, la sua speranza di poter, se non testimoniare, almeno alludere alla realtà circostante comincia a venir meno. Gravemente incrinata già nelle ultime opere di Henry James, questa residua illusione rappresentativa resta tuttavia alla base delle esperienze letterarie più importanti della prima metà del Novecento: non tarda infatti ad essere ricollocata nella struttura narrativa di Joyce e a trasformarsi nella maschera memoriale di Proust.
Questi grandi scrittori, che sembrerebbero ammettere una clamorosa sconfitta conoscitiva, realizzano invece, come oggi cominciamo a comprendere, l’ultimo, struggente, manieristico tentativo di sapienza universale che si formò nella lunga risacca del diciannovesimo secolo. Entrambi idearono un mondo parallelo, niente affatto alternativo a quello vero, ma che deve integrarsi ad esso, quasi fosse una specie di arto meccanico. Essi agiscono quando vedono l'amputazione. Non intendono ricostruire: vogliono sorreggere, aiutare, in modo che si possa proseguire la marcia. Possiedono lo spirito del restauratore. I libri da loro composti sono paragonabili a bastoni da passeggio per l'uomo moderno il quale, nonostante i colpi che le certezze dei padri hanno ricevuto, vuole andare avanti lo stesso, seguendo un superstite impulso di sanità, contro il caos del mondo.
Ad essi troppo spesso Virginia Woolf è stata genericamente accomunata, come se il filtro coscienziale da lei sempre adottato per schermare il rapporto con l'esterno fosse sufficiente a motivare il confronto. In realtà, ammessa e non concessa l'adozione di una medesima tecnica stilistica, siamo di fronte a due gesti estetici che traggono origine da caratteri espressivi molto diversi. Se infatti Joyce scardina il romanzo tradizionale per ripristinare le condizioni di possibilità della visione, la Woolf vive lo stesso svuotamento strutturale come un lutto senza rimedio. In lei non sentiamo la sottile consapevolezza di abitare uno spazio magnetico privilegiato: avvertiamo semmai che tale esperienza è una dannazione, in quanto recide i legami con gli altri, trascina nel gorgo. Nell'attenzione che Joyce riserva all'uomo comune Leopold Bloom manca la nostalgia lacerante che la Woolf prova per l'ordinarietà della signora Dalloway. Non a caso il punto terminale della vicenda joyciana s'identifica nella totale verbalità del Finnegans wake, mentre quello woolfiano ci porta alla rarefazione di Between the acts: siamo difronte a due incommensurabili incompiutezze novecentesche. Là c'è un pieno vitale. Qui l’indicazione di un vuoto.
La stessa impronta etico-assolutista di Bloomsbury, il celebre cenacolo in cui la scrittrice londinese andò affinando la propria sensibilità artistica, non deve essere intesa come retroterra filosofico teso a giustificare un ideale di compiaciuta separazione aristocratica, quanto nella prospettiva di chi rivolge il suo interesse verso il pensiero e l’azione, nella maggioranza degli individui così spesso pericolosamente divisi. «Non sono le catastrofi, gli assassini, le morti, le malattie e l'età che ci uccidono», leggiamo in Jacob's Room, «è il modo in cui le persone guardano e ridono, e salgono sugli omnibus».
L'atto autentico immaginato da Virginia Woolf, il momento nel quale si rivela a tutti noi la verità dell'esistenza, non scaturisce da un'illuminazione epifanica al cospetto della realtà, non è frutto di un'intermittenza del cuore. Al contrario, lo stato di grazia interiore, l'emozionante, benché saltuario, mantenimento della promessa di felicità presente nella coscienza di ognuno, non ha bisogno di un agente esterno per manifestarsi. Si tratta di un'esperienza spirituale, una condizione di febbrile lucidità a cui l'uomo giunge nel deserto percettivo, chinato su se stesso nella solitudine assoluta - anche nei confronti della propria anima -come potrebbe essere soltanto una farfalla sul fiore di plastica che non riuscisse a distinguere da quello vero.
Nelle opere della Woolf lo scorrere del tempo è una musica seriale la cui durata non potrà mai essere veramente interrotta, fatta salva la variazione tonale dall'una all'altra sequenza che talune improvvise consapevolezze dei personaggi a volte determinano: è questo il senso dello straordinario trittico che compone To the Lightouse; così si spiegano anche i sei monologhi di Waves, le biografie fantastiche di Orlando e Flush, la storia della famiglia compresa in The years. Se studiamo con attenzione la tipica frase woolfiana, scopriremo che quella da molti ritenuta la più grande scrittrice del Novecento simulava quasi sintatticamente il trascorrere del tempo: una silenziosa rovina che incombe sulla nostra testa nullificando le potenzialità conoscitive di cui disponiamo. Cercava di trasferire nel controllo assiduo e maniacale dello strumento stilistico l'ordine spirituale che la vita le negava. Si capisce in quale modo sostanziale tale ossessione trovasse nella forma romanzesca il campo espressivo di gran lunga più adeguato per poter svilupparsi. Come situare allora la pratica, tutt'altro che estemporanea, del racconto? Dobbiamo assegnare la misura breve della Woolf ai cartoni preparatori dell'opera maggiore? Se invece non fosse così, quale significato andrebbe attribuito a queste prove narrative che praticamente accompagnano l'intera produzione della scrittrice?
Procediamo per gradi. Innanzitutto, da quanto abbiamo già detto, dovremo scartare a priori l'ipotesi che il racconto possa essere il resoconto dell'atto autentico, in quanto tale istante prezioso, nell'impostazione che stiamo esaminando, può essere concepito soltanto all'interno di una durata: se fosse artificialmente isolato - pepita d'oro nel fango sarebbe una rivelazione lirica, cioè qualcosa di molto lontano da chi, come Virginia Woolf, mirava piuttosto a fondere in un tutt'uno prosa e poesia.
Questi racconti sono quintessenze di una poetica tesa a rendere clamorosa l’idea stessa di una successione temporale. Che B venga dopo A, intende dirci l’autrice, sebbene sia vero, non deve essere scontato, in quanto, nella vita dell'uomo, corrisponde ad una dichiarazione di morte. Tutta l'opera di Anton Cechov, in buona sostanza, è una celebrazione di tale sconsolata certezza. Virginia Woolf, rispetto al russo, compie un passo ulteriore: porta sul piano formale il medesimo senso di vanità. Ecco spiegata la ragione per cui i suoi racconti hanno inizi e finali poco enfatizzati, come se fossero parti di un tutto che li sovrasta. Si verìfica così un esito volutamente paradossale: alla brevità del testo non corrisponde l'accorciamento dei fatti narrativi: le tipiche lunghe digressioni woolfiane restano tali anche in uno scenario rappresentativo limitato. Il risultato però non fa pensare a un taglio arbitrario, proveniente dall'esterno: il fatto è che la riflessione coscienziale in cui l'autrice s'impegna viene sentita come un evento decisivo dell'esistenza, l'unica sorgente di senso compiuto. L'ipertrofia descrittiva presente in diversi racconti assume quindi valore poetico.
La protagonista di L'abito nuovo, Mabel, si reca a una festa indossando il suo insoddisfacente completo alla maniera di una corazza che le impedisce di avere un reale rapporto con gli altri invitati; nel corso del ricevimento non accade nulla capace di farla uscire dall'estraneità nella quale sente di vivere. È soltanto la sua dolorosa riflessione («Siamo come mosche che annaspano verso l'orlo del piattino») a far vibrare lo squallore circostante di un'energia nuova. In quel medesimo frangente il lettore cambia posizione d'ascolto: è una frazione di secondo, quasi impercettibile, ma decisiva; come se la sequenza dei fatti venisse riformulata secondo un altro registro.
Oppure prendiamo il racconto intitolato Felicità. Un uomo e una donna sono posti uno di fronte all'altra: non conta tanto la figura fisica, quanto i tempi che rappresentano.
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