A sentir Brod, attraverso il teatro di Oklahoma il giovane Rossmann «avrebbe ritrovato, come per magia paradisiaca, una professione, la libertà, un sostegno, e persino la patria e i genitori». Niente male, come prospettiva. Ma era davvero questo il traguardo che Kafka vedeva all'orizzonte di quello che chiamava il suo «romanzo americano»? Una nota dei Diari (del30settembre 1915, quando cioè quello che possediamo di questo romanzo era già tutto composto), suona: «Rossmann e K. (= il protagonista del Processo, l'innocente e il colpevole, alla fine entrambi uccisi, senza alcuna differenza, per punirli: l'innocente con mano più leggera, più spinto da parte che ammazzato». La differenza dalla soluzione riferita da Brod è vistosa, direi quasi antitetica.

Del resto è credibile che quel gran baraccone ciarlatanesco del teatro di Oklahoma possa fornire epifanie e parusie così celestiali? Mi viene in mente, ancora una volta, Pinocchio, col quale scopro che America ha strane cuginanze. Quest'impresa teatrale, così in sintonia con l'americanismo di certi spettacoli-monstre come quelli organizzati da Barnum o da Buffalo Bill, non assomiglia all'arruolamento indiscriminato e adulatorio con cui nel romanzo di Collodi i ragazzi vengono avviati al Paese dei Balocchi, col bel vantaggio che alla fine quei poveretti ne ricaveranno? Ma se anche, nonostante premesse così inquietanti, Rossmann dovesse in ultimo trovare tutto quel ben di Dio di cui parla Brod, non sarebbe un lieto fine deludente, proprio come quello di Pinocchio, spogliato della sua simpatica e tormentata burattinitàper trasformarsi in un banale «ragazzinoper bene»? A una conclusione così kitsch (non in se stessa, ma in relazione al libro che dovrebbe sigillare) si può giungere soltanto qualora si insista a vedere in America il più sereno e ottimista dei romanzi kafkiani; o addirittura, senza alcun comparativo, un libro risolutamente sereno e ottimista. Ho già accennato a quanto può suggerire un tale errore di valutazione. Ma è pur sempre un equivoco. Certo, nel Processo e nel Castello l'atmosfera è più cupa, grigia, asfissiante. Il primo, poi, ha un finale univocamente tragico, che recide ogni speranza a chi vagheggiasse una soluzione di giustizia o almeno di clemenza verso il povero protagonista. Quanto al Castello, non sappiamo come Kafka lo avrebbe concluso. Ma stavolta Max Brod non può prometterci più che una morte dignitosa con qualche parziale, anzi minima soddisfazione per l'agrimensore K.

E tuttavia, a ben guardare, la storia di Karl Rossmann (e il clima — cosà importantissima, anzi decisiva — in cui tale storia è immersa) non la cede di molto, sul piano dell'angoscia, agli altri due romanzi. Non è una novità sostenere che il tormentone e l'assurdità di certe comiche (appunto di Chaplin, ma anche di Buster Keaton, per citare solo due cospicui esempi) nonostante l'ilarità che provocano, ci lasciano dentro un prurito di insoddisfazione, di vergogna, di sommessa disperazione che a volte scambieremmo volentieri col senso di pulizia e di benessere etico scaturente da una bella catarsi tragica, anche se lastricata di cadaveri.

Karl Rossmann è candido, è simpatico, è cavalleresco, è innocente? Ragione di più per soffrire e per sentirsi offesi nel nostro senso di giustizia quando lo vediamo così ripetutamente punito e deluso, sbeffeggiato e sfruttato, schiavizzato e percosso da un popolo di uomini e di donne (per lo più adulti, quindi nelle vesti di padri e di madri snaturati) che pare studiarle tutte per rendergli impossibile una vita già diffìcile in partenza. Scacciato dal Paradiso della famiglia, per di più per un fallo che in realtà era stato una violenza da lui patita, illuso e poi respinto nel buio e nella miseria dallo zio per una colpa ancora più cervellotica e inesistente, licenziato dai padriorchi dell'Hotel Occidental per una mancanza che nasce da un suo atto di carità, trattato peggio di un cane da Delamarche e dai suoi complici, terrorizzato dallo studente con prospettive di lavoro semplicemente infernali; c'è da credere che quegli «omini di burro» che lo allettano cerimoniosamente a seguirlo nel Paese dei Balocchi, voglio dire nel gran teatro naturale di Oklahoma, non gli riserveranno l'ennesima e forse ultima buggeratura? O che in un'America vista come un'impressionante Babele collettivistica e meccanica, dove tutto sembra funzionare come per magia, ma a patto di perdere la propria personalità e di annullarsi, come la più anonima e ben oleata delle rotelle, nell'immenso macchinario dell'efficientismo e del profitto, possa dargli i tesori spirituali (libertà, sostegno, genitori) di cui parla Brod e che sono troppo legati a una «cultura dell'anima» per poter attecchire in un simile terreno? D'accordo, il teatro di Oklahoma può essere una metafora, anzi lo è di certo. Ma un artista come Kafka le sa scegliere, le sue metafore. Come non si può cavar sangue da una rapa, così è incongruo e stridente che una baraonda di baracconi dove il sensazionalismo e il business sembrano gli unici valori perseguiti e perseguibili sia la metafora pertinente d'una conquista di valori che si tingono di assoluto e di eterno. Una forma di martirio (e anche il non dar più notizia di sé, il risultare «disperso», può essere un martirio, forse il più sottilmente doloroso): ecco ciò che forse aspettava Karl Rossmann, questo «puro folle», questo «puer aeternus», questo sublime e insieme dimesso innocente che Kafka ci ha fatto conoscere.

Forse l'autore, che s'identificava coi suoi personaggi e aveva una sensibilità morbosa, non se l'è più sentita di «torturare» una creatura così amabile e indifesa, alla quale avrà spesso sussurrato, tornando bambino come tutti, credo, i lettori di America: «Attento, Karl! Non cascarci: è una trappola! Scappa! Reagisci! Difenditi!». Nei due romanzi successivi o già iniziati questa situazione non si sarebbe ripetuta più. Josef K, l'agrimensore, lo stesso Gregor Samsa della Metamorfosi non sono né adolescenti né così puri. Anzi, chissà che cos'hanno da rimproverarsi, di poco nobile, nella loro vita precedente. Quelli, Kafka li avrebbe «torturati» con minori rimorsi. E così a Karl Rossmann fece il dono di lasciarlo sul treno che lo portava nel cuore dell'America., avendo ancora in sé qualche speranza. Ma il lettore attento noterà che il tono convince poco o non convince affatto. E, magari, ringrazierà il cielo che il romanzo si sia interrotto a quel punto.

 

ITALO ALIGHIERO CHIUSANO

Questo ebook appartiene a luciana monghesci - 92138 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 9/23/2014 5:49:51 PM con numero d'ordine 937552

Il fuochista

 

 

Quando il sedicenne Karl Rossmann, mandato in America dai suoi poveri genitori perché una cameriera l'aveva sedotto e aveva avuto un figlio da lui, entrò nel porto di New York sulla nave che aveva rallentato, vide la statua della Libertà tanto a lungo contemplata, come se attorno ad essa la luce del sole si fosse improvvisamente fatta più intensa. Il braccio con la spada svettava alto come se si fosse alzato allora, e attorno alla sua figura aleggiava libera l'aria.

«Com'è alta!», si disse, e giacché non pensava minimamente a muoversi fu spinto via via contro il parapetto dalla folla sempre più folta di facchini che gli passavano accanto.

Un giovanotto con cui aveva fatto una superficiale conoscenza durante il viaggio gli disse passando: «Non ha ancora voglia di scendere?». «Io sono pronto», disse Karl e lo guardò ridendo, e un po' per spavalderia, e un po' perché era un ragazzo robusto si mise la valigia in spalla. Ma guardando il suo conoscente che già si allontanava con gli altri facendo lievemente oscillare il bastoncino, si accorse costernato di aver dimenticato giù nella nave il suo ombrello. Pregò in tutta fretta il conoscente, che non parve molto entusiasta, di aspettare per cortesia qualche istante accanto alla sua valigia, diede un'ultima occhiata al luogo per raccapezzarsi al ritorno e si allontanò di corsa. Di sotto trovò con disappunto che un passaggio il quale gli avrebbe di molto accorciato il percorso, era stato chiuso, il che verosimilmente aveva a che vedere con lo sbarco dei passeggeri, e dovette faticosamente cercare delle scale che scendessero fino in basso attraverso corridoi che piegavano in continuazione, una cabina vuota con una scrivania deserta, sinché non si fu davvero perso del tutto, dato che aveva fatto quel percorso una volta o due soltanto, e sempre in numerosa compagnia. Nel suo sgomento, e poiché non incontrava nessuno e sopra di sé udiva soltanto il continuo scalpiccio di migliaia di piedi, e di lontano percepiva l'ultimo ansito delle macchine già spente, senza riflettere si mise a bussare a una porticina davanti alla quale si era fermato nel suo girovagare.

«È aperto», gridarono da dentro, e con vero sollievo Karl aprì la porta.