Ma Karl è un soldatino coraggioso, nella sua divisa piena di bottoni, e regge stupendamente, pur godendo pochissimo sonno nel dormitorio comune dove la luce accesa di continuo e le zuffe o partite a carte e a dadi dei giovani colleghi non danno quasi un attimo di pace. Viene in mente, per quel fresco protagonista immerso come groom nell'ambiente di un albergo di lusso tutto ricchi uomini di affari e bellissime donne ingioiellate, un'altra opera della letteratura tedesca che forse subì l'influsso di questo romanzo: il Felix Krull di Thomas Mann, grande ammiratore dell'«umorista religioso» Kafka.

Le prospettive sono buone: domani l'umile Karl Rossmann, aiutato dall'influente Grete, potrebbe far carriera. Ma il diavolo — come nel Paradiso terrestre — ci mette la coda, e tutto va all'aria. Una malaugurata visita di Robinson, ubriaco fradicio, che costringe Karl a scaricarlo nella camerata dei liftboys lasciando incustodito l'ascensore in un momento particolarmente delicato, gli fa ancora una volta «infrangere la Legge». Interrogato dal capocameriere furioso, accusato con particolare astio dall'ottuso e crudele portiere capo, Karl viene licenziato in tronco, nonostante che Grete (di cui il capocameriere è innamorato) interceda per lui. Un altro Eden che gli si chiude alle spalle. Il ragazzo — anche ora di un grandissimo controllo e di un lucido coraggio che ne fanno un piccolo Lohengrin o Parzival sperduto in mezzo ai lestrigoni, ai demoni, ai cretini, ai bruti — porta via in tassì, senza detestarlo, quell'ubriacone di Robinson, responsabile della sua nuova disgrazia.

La tappa successiva è la città di Ramses, dove Delamarche abita con Robinson ai piani alti dì una casa che sta tra il grattacielo e l'alveare. Karl tenta la fuga, inseguito da un poliziotto che sembra uscito da una vecchia comica. Ma Delamarche lo riacciuffa e se lo riporta a casa. Padrona e dea di quello squallido appartamento in cui regnano sporcizia e disordine è Bruneida, un'obesa cantante lirica che ha piantato il sempre devotissimo marito industriale e la propria villa per mettersi con Delamarche, il quale la venera in ginocchio. E la più ributtante delle creature femminili di Kafka, qualcosa tra Venere preistorica tutta poppe e deretano, Messalina in edizione luna-park, diva isterica da palcoscenico di terz'ordine, battona da trivio o da porto con arie di gran signora (la scena del suo bagno è un piccolo capolavoro). Fin fi i servizi più umili li aveva prestati Robinson. Ma ora, picchiato a sangue all'Hotel Occidental, a Robinson non par vero di atteggiarsi a invalido per passar la mano a Karl.

Intanto i due devono stare sul terrazzo per ore come una coppia di cani o di gatti indesiderati. Di lì assistono a una scena di comizio rionale che dà, dell'America «democratica» di allora, un quadro di grottesca ma anche simpatica cialtronaggine. E di notte, mentre i due amanti in casa dormono, Karl dialoga sottovoce con uno studente-lavoratore che, sul terrazzo vicino, studia per far carriera e nelle pause gli prospetta quanto sia duro affermarsi negli Stati Uniti. Karl lo ha già capito, sa che tanta efficienza avveniristica viene pagata con uno sfruttamento e una fatica da ricordare quelli dei costruttori delle piramidi. Ma non è mai stato lagnoso opieno di sé. Umile senza essere mai strisciante, è disposto a sgobbare senza risparmio, dedicando tutte le proprie energie all'impresa o al padrone che un giorno lo assumeranno, quando — egli spera — sarà riuscito ad affrancarsi da Delamarche e soci. Ma ci vorrà del tempo. Un suo tentativo di fuga è finito in un atroce pestaggio da parte del francese.

Seguono i due frammenti che pubblichiamo. Nel primo si vede come Karl, accompagnato da Robinson, procura la colazione ai «padroni», e lo fa con tanta grazia e abilità che Brunelda si dice molto contenta di lui; nel secondo restano soli lui e la donna. Una Brunelda incredibilmente intimidita e come rimpicciolita viene da lui spinta in una sedia a rotelle (ma che diavolo le è capitato?) per le strade della città, fra curiosi che cercano di sapere di chi si tratti, fino a un misero vicoletto dove li accoglie — gentile con lei, scorbutico con lui — il gerente di una certa «impresa numero 25» che si distingue per untume e squallore.

Fin qui non solo il racconto fila liscio e compatto che è una gioia seguirlo, ma vola anche molto alto nel cielo dell'originalità poetica, della scrittura, dell'invenzione. Anche quando si sfiora il patetico e il lacrimoso, se ne resta sempre fuori grazie a un umorismo grottesco che non ci permette di adagiarci mai nel sentimentale e per l'esattezza scandita e crudele con cui viene descritta ogni situazione, ogni gesto, ogni reazione interna ed esteriore. Si veda a questo proposito la scena della piccola Therese e di sua madre, due poverelle scacciate da tutti e costrette a peregrinare in una notte di neve sino alla morte della prima.

Kafka, in questi primi sette capitoli, più i due frammenti, è di un'alacrità poetica frizzante. Non solo il lettore, ma si sente che lo stesso autore prova una fervida gioia a vedere e a far vedere, a sentire e a far sentire quel mondo che, magari, gli ricorda le avventurose peripezie dei romanzi di Dickens (e infatti a proposito di America egli parla di «romanzo dickensiano») o che trae tanti spunti da un libro come L'America ieri e oggi (1912) di Arthur Holitscher, ma che tuttavia egli reinventa e trasfigura e fa lievitare informe che possono ricordare certe caratteristiche del discorso surrealista o espressionista, ma che soprattutto si possono definire in un modo solo: kafkiane.

Non occorre la testimonianza di Max Brod, secondo il quale Kafka «lavorava a quest'opera con piacere sempre rinnovato». Lo sentiamo noi stessi e, a ogni capoverso, a ogni riga.

Ma, a parer mio, il capitolo finale (naturalmente della parte giunta fino a noi), cioè «Il teatro naturale di Oklahoma», tradisce una certa stanchezza. Karl, riemergendo da non si sa quali avventure in cui si è sbarazzato del losco terzetto Delamarche- Brunelda-Robinson, si lascia attirare da un manifesto che promette l'ingaggio a chiunque si presenti, nell'ippodromo di Clayton, perfar parte del gran teatro di Oklahoma. Una reviviscenza di genio kafkiano si ha all'inizio, con lo spettacolo di quegli anglofoni da fiera che, ritti su alti piedistalli, fanno da richiamo agli indecisi stonando mica male nelle loro lunghe trombe. Ma ciò che segue (l'esame, l'assunzione, il banchetto, la partenza in treno verso le future rappresentazioni nel cuore degli States) sembra frutto di appannamento, quasi Kafka avesse perso amore alla materia. Lo stesso fatto che riemerga l'ex liftboy Giacomo, il più sbiadito tra i personaggi dell'Hotel Occidental, non sembra promettere molto.

Eppure sulla continuazione e la fine del romanzo ciascuno di noi inevitabilmente s'interroga e fa le sue ipotesi.