Erano per lo più vecchie foto, e ritraevano in gran parte delle ragazze che, in abiti scomodi e antiquati, con piccoli cappelli posati morbidamente ma in alto sul capo, la destra poggiata su un ombrellino, si volgevano verso lo spettatore eppure lo sfuggivano con lo sguardo. Tra i ritratti maschili, Karl fu colpito in modo particolare da quello di un giovane soldato che, col chepì poggiato su un tavolinetto, i capelli neri e scompigliati, stava eretto, pervaso da un represso riso d'orgoglio. Sulla foto i bottoni della sua uniforme erano stati dorati. Tutte quelle fotografie venivano certamente dall'Europa, lo si sarebbe potuto leggere con esattezza sul retro, ma Karl non voleva toccarle. Anche lui in futuro avrebbe voluto mettere in una sua stanza, come erano sistemate quelle foto, la fotografia dei suoi genitori.
Dopo essersi minuziosamente lavato, operazione che si sforzò di condurre il più silenziosamente possibile per riguardo alla sua vicina, stava appena sdraiandosi sul canapè pregustando il sonno, quando gli parve di sentir bussare leggermente a una porta. Non era possibile stabilire al primo momento di quale porta si trattasse, poteva essere anche un rumore qualsiasi. La cosa non si ripetè subito, e Karl era già quasi addormentato quando successe di nuovo. Adesso non c'erano dubbi che fosse proprio un bussare, e proveniva dalla porta della dattilografa. Karl corse alla porta in punta di piedi e chiese così piano che nessuno nella stanza accanto avrebbe potuto svegliarsi, qualora nonostante tutto dormisse: «Desidera qualcosa?».
Pronta e altrettanto sommessa, venne la risposta: «Non vorrebbe aprire la porta? La chiave è dalla parte sua».
«Mi scusi», disse Karl, «prima debbo vestirmi.» Ci fu una piccola pausa, poi si udì: «Non è necessario. Apra e si metta a letto, io aspetterò un momento».
«Bene», disse Karl e così fece, solo che accese anche la luce. «Sono a letto», disse poi a voce un po' più alta. E dalla stanza buia già entrava la piccola dattilografa, vestita esattamente come era giù in ufficio; evidentemente in tutto quel tempo non aveva pensato di mettersi a dormire. «Mi scusi tanto», disse, chinandosi un po' sul letto di Karl, «e non mi tradisca, la prego. Non la disturberò a lungo, lo so che è molto stanco.»
«Non è poi così grave», disse Karl, «ma forse sarebbe stato meglio che mi fossi vestito.» Doveva restar tutto disteso per rimaner coperto fino al collo, perché non possedeva una camicia da notte.
«Mi tratterrò solo un istante», disse lei e prese una sedia. «Posso sedermi vicino al canapè?» Karl annuì. Allora lei si sedette così vicina che Karl fu costretto ad accostarsi al muro per vederla. Aveva un viso rotondo, regolare, solo la fronte era straordinariamente alta, ma questo forse dipendeva dalla pettinatura, che non le stava molto bene. Il suo vestito era molto lindo e curato. Nella sinistra stringeva un fazzoletto.
«Resterà molto qui?», chiese essa.
«Non è ancora deciso», rispose Karl, «ma penso che rimarrò.»
«Sarebbe una gran bella cosa», disse lei passandosi il fazzoletto sul viso, «qui sono tanto sola.»
«Questo mi sorprende», disse Karl. «La signora capocuoca è molto gentile con lei. Non la tratta affatto come una sottoposta. Pensavo anzi che loro due fossero parenti.»
«No», disse lei, «io mi chiamo Therese Berchtold, sono della Pomerania.» Anche Karl si presentò. Allora lei lo guardò davvero per la prima volta, come se dicendole il proprio nome le fosse divenuto un po' più estraneo. Stettero zitti per un po'. Poi lei disse: «Non creda che sia un'ingrata. Senza la signora capocuoca la mia situazione sarebbe assai peggiore. Prima ero ragazza di cucina qui all'albergo, e rischiavo di essere licenziata perché non ce la facevo, il lavoro era troppo pesante. Qui si esige molto dal personale. Un mese fa una ragazza di cucina è svenuta di fatica ed è rimasta quattordici giorni in ospedale. E io non sono molto forte, in passato ho sofferto molto e per questo sono rimasta un po' indietro nello sviluppo; lei di sicuro non direbbe che ho diciott'anni.
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