Forse, per vederci più chiaro, sarà il caso di prendere in esame l'opera e trarre poi le conclusioni a ragion veduta.
Il protagonista è un ragazzo praghese di sedici anni, ex studente ginnasiale. Già questo lo renderebbe molto diverso dai protagonisti dei due altri romanzi kafkiani, entrambi maturi e sistemati in una professione borghese di buon livello: impiegato di banca quello del Processo, agrimensore quello del Castello. Eppure, in qualche modo, sono tre autoritratti — stilizzati quanto si vuole — dello stesso autore, e ne fa fede il loro nome, che inizia sempre con la k, come Kafka: Josef K. (Il processo), K. (Il castello), Karl Rossmann (America). Per di più è trasparente, nel caso di America, la sottolineata origine praghese di Rossmann. Il quale, nel primo capitolo, sta giungendo su un transatlantico a New York. Non certo in viaggio di piacere, ma in un viaggio di punizione e di esilio che fa pensare, da un lato, all'antico tema ebraico dell'esodo (che verrà esplicitamente accennato quando una delle città in cui Karl sarà costretto a «servire» si chiamerà Ramses, come una di quelle in cui gli Ebrei ebbero a patire la schiavitù d'Egitto: si veda Esodo, I, 11-14), dall'altro al fenomeno molto statunitense delle navi che trasportavano dall'Africa gli schiavi neri (e l'autore vi accennerà larvatamente quando alla fine del libro Rossmann, facendosi ingaggiare da una grande impresa teatrale, tacerà il proprio nome dicendo invece di chiamarsi Negro).
Che cosa ha commesso Karl Rossmann per essere bandito dai genitori e dalla patria in così tenera età? Si è lasciato sedurre da una domestica, che è rimasta incinta. (Traparentesi, un caso simile era successo a un cugino di Kafka, mentre un altro venne mandato — o andò di testa sua — in America. In modo più normale approdarono nel nuovo mondo altri due cugini: figli di zio Heinrich, mentre i primi due erano figli di zio Philipp.) Quando sentiremo raccontare, dallo zio del romanzo, Jakob, questa squallida avventura di vampirismo ancillare, tre cose ci colpiranno: l'indelicatezza di spiattellare certe miserie, presente il giovane «colpevole», di fronte a un pubblico di persone anche autorevoli; la sproporzione tra la colpa (se colpa fu, anziché — come verrebbe da pensare — un'aggressione e violenza subita contro voglia dall'ingenuo Karl); e il sesso sentito e rappresentato come degradazione, sopraffazione, egoismo allo stato puro, quasi peccato originale: un marchio d'infamia che, per parlar solo di questo romanzo (ma in Kafka è una nota frequente) ritroveremo in due personaggi come Klara Pollunder e Brunelda.
Giunto a New York, Karl resta impressionato dal traffico caotico e in qualche modo surreale delle navi e dei battelli in movimento nel porto; e dalla Statua della Libertà, che invece d'una fiaccola impugna alta una spada (giustizia inesorabile o aggressività?). Molto kafkiano, fin dall'inizio, lo smarrirsi del ragazzo tra i corridoi della nave, autentico labirinto generatore di confusione e di angoscia; e di tipo chapliniano (Chaplin ci verrà in mente spesso, leggendo queste pagine dove la vita americana ha le accelerazioni disperanti di una comica da film muto) la perdita dell'ombrello e della valigia, affidati a uno sconosciuto al momento dello sbarco. Segue l'incontro col fochista, in una cabina claustrofobica che ricorda luoghi consimili del Processo o della Tana. Nella simpatia filiale, devota, tenera, pietosa, perfino un tantinello ambigua di Karl per quell'omaccione ingenuo e maltrattato si sono lette varie motivazioni: una preferenza di tipo marxista per le classi subalterne, infinitamente più schiette e amabili di quelle dominanti; una Charitas di tipo chassidico o addirittura evangelico per quei puri bambini che sono gli umili e gli oppressi; lo struggente desiderio di una figura paterna che non assomigli a quel padre punitivo e inesorabile che Karl ha lasciato in Europa e di cui conserverà solo (finché gli verrà rubata) una fotografia che lo ritrae insieme con la madre. Accettabile che sia l'una o l'altra interpretazione (o, come credo, tutte e tre), balza agli occhi, in questo rapporto, l'amore combattivo per la giustizia che Karl nutre in sé e di cui dà prova, riuscendoci subito simpatico. Avendo infatti appreso che il fochista è soggetto alle persecuzioni del capomacchinista Schubal, Karl difende il suo nuovo amico al cospetto delle autorità della nave, radunate nella cabina del capitano.
È lì che Karl s'imbatte in suo zio, venuto a rilevarlo. È una persona facoltosa e vivace, anche se non privo di durezze, che fa gran festa al nipote e se lo porta nella sua ricchissima casa di plutocrate e di supermanager, facendogli conoscere la vita americana al massimo delle sue possibilità avveniristiche. Dopo lo straziante addio al fochista, assistiamo all'inserimento di Karl nell'America già babelica e fantascientifica di quegli «anni Dieci». Una visione dall'alto delle strade di New York ingorgate dal traffico sa più di un film come Metropolis (1927) di Fritz Lang che di realistico documentario d'epoca, così come la sofisticatissima scrivania di zio Jakob, descritta con la minuzia di un iperrealista, sa più di «oggetto spaziale» che di mobilia sia pure d'avanguardia.
Per un poco Karl ristagna, beato, in una vita da miliardario, tra visite ai posti di lavoro dove zio Jakob costruisce il suo impero, sonatine su un bellissimo pianoforte, lezioni d'inglese (che l'intelligente Karl impara subito assai bene), addestramento all'equitazione, uno sport che gli dà modo di conoscere il giovane dandy mister Mack.
Ma conosce anche due amici intimi e coetanei dello zio: il bonario Pollunder e l'alquanto sarcastico e sinistro Green. È da Pollunder che parte un'iniziativa fatale: invitare Karl nella sua villa per presentarlo a sua figlia Klara. Lo zio non gradisce la proposta, ritiene che Karl debba dedicarsi tutto alle sue lezioni e non lasciarsi distrarre. Ma alle insistenze di Pollunder e visto che Karl non si oppone, cede controvoglia. Pollunder e Karl partono subito, attraversando una caotica ma affascinante New York il cui traffico è complicato da uno sciopero dei metalmeccanici.
Nella villa di Pollunder, quella sera, tornano potenziati alcuni temi già emersi fin dal primo capitolo. Quello del sesso come crudeltà e degradazione, quando Klara si dimostra una ninfomane sadica, che arriva a maltrattare fisicamente Rossmann e che dorme già, in casa del padre, col proprio fidanzato, il cavallerizzo Mack; quello del labirinto, quando Karl vaga per scale e corridoi e cappelle segrete di quella villa da romanzo gotico trasportato nell'età dei motori; e quella della cacciata dall'Eden, quando il diabolico Green, fattosi trovare già presente in villa, comunica a Karl che lo zio lo ha bandito per sempre dalla sua presenza, avendo considerato un'offesa la sua sordità al proprio desiderio di non accettare l'invito di Pollunder. Karl incassa con lo stile d'un cavaliere di re Artù, dimostrando una maturità commovente: e inizia la sua odissea nel mondo dell'esilio e dell'asservimento. Così, persa la bonaria figura paterna del fochista e quella prestigiosa e affettuosa dello zio, egli è un orfano il cui vero padre è un lontano e minaccioso ricordo al di là dell'oceano.
In un albergacelo fuori New York, questo Pinocchio senza Geppetto trova subito, pronte, le controfigure del Gatto e della Volpe, cioè due vagabondi acchiappacitrulli: l'astuto francese Delamarche e il servile, facchinesco irlandese Robinson. I due se lo trascinano dietro verso chissà quali destini da romanzo picaresco spagnolo o da On the road (1957) della futura «beat generation» impersonata da Kerouac. La vista di New York, alle loro spalle, da lontano, o quella della strada statale percorsa da un traffico quasi comico nella sua irruenza fluviale (par già di vedere certe sequenze del Trafic di Tati, che è del 1971) sono l'ultimo addio a un mostro di megalopoli futurista che pare estendere le sue pulsazioni, attraverso la rete viaria e autostradale, a tutto un Paese che vive nella più congestionata assurdità. (Anche qui par di trovarsi di fronte allo stupore dei due sovietici Il'f e Petrov, che nel Paese di Dio, nel 1936, vedono l'America come inferno capitalista, memori come sono della loro Russia rivoluzionaria ma tuttora profondamente contadina; eppure non riescono a nascondere il loro ammirato sbalordimento dinanzi a quella molochiana strapotenza vitale.) Andato a prendere un po' di cibo in un colossale albergo di lusso nei dintorni della già citata Ramses (d'obbligo un'altra reminiscenza: Grand Hotel, un fortunatissimo film del 1932), al ritorno Karl scopre che i due vagabondi gli hanno manomesso la valigia. Aiutato da un angelo sotto forma d'inserviente d'albergo, Karl lascia i due malviventi (che gli hanno fatto sparire l'unica foto dei suoi genitori, cosa che rende simbolicamente totale la suo orfanezza) e accetta l'offerta di una generosa, materna capocuoco, la viennese Grete Mitzelbach, facendosi assumere come liftboy in quel mastodonte di albergo che si chiama Hotel Occidental. Là si fa subito un'altra amica (sororale e sottomessa quanto Grete è protettiva e matura), cioè la segretaria della capocuoco, la piccola Therese Berchtold, una pomerana. Con queste soccorrevoli creature Kafka bilancia le altre donne di segno negativo, oscuro, animalesco, che — come si è detto — in molte opere di Kafka e anche in questa fanno le loro conturbanti apparizioni. Durissima è la fatica di un inserviente all'ascensore, in quell'albergo.
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