A ben guardare, all’interno di questa mitologia tra nascita e morte si consuma la parabola di Pirandello, uno scrittore che ha dedicato migliaia e migliaia di pagine per dar voce a una missione di cui si sentiva portatore, una parabola che realizza una sua circolarità pur nella divaricazione dei termini estremi. Altrove, nella Berlino negli anni Trenta, conversando con un perplesso Ejzenštejn, in questa rigenerazione da leggenda dell’artista ha tentato persino la scorciatoia di una filologia fantastica sul suo cognome: Pirandello, ossia, secondo un’etimologia greca di palese forzatura, che però rimane un sintomo interessante, Angelo di fuoco, con riferimento a un’energia purificatrice e distruttrice e, di nuovo, ritorno al Caos.
Non siamo fuori dell’opera. Siamo invece nella placenta. Si tenga conto che gli altri scrittori siciliani, Capuana, Verga, De Roberto, i predecessori assurti a fama, non dispongono delle risorse di questa leggenda dell’artista, che Pirandello alimenta, pur mantenendosi alieno da ogni spettacolarità alla D’Annunzio, il coetaneo e concorrente diretto. Pirandello non si trova in posizione di capostipite, ma vanta una differenza radicale. Palermo, luogo storico del potere, è stata capitale europea con la Corte di Federico II e con la poesia trobadorica siciliana. Catania diventa miracolosamente capitale letteraria nel secondo Ottocento grazie al drappello verista. Girgenti è lontana da entrambe queste realtà, è isolata da tutto, vive del fasto greco dei suoi straordinari templi dorici e di un carico negativo della contemporaneità, una morsa che la attanaglia.
Un’indagine psicanalitica, che per difetto ed elusione delle testimonianze sarebbe spericolata, ci fornirebbe informazioni non estrinseche e non retoriche sul rapporto di tutti questi scrittori con la famiglia, e in particolare sulle difficoltà incontrate da ciascuno di essi col padre, nella dipendenza gerarchica. Nel caso di Pirandello possediamo qualche dato più esplicito. Secondo il biografo Gaspare Giudice, il padre di Luigi, Stefano, fu di princìpi antiborbonici e risorgimentali, come del resto il ramo della moglie Ricci Gramitto, un garibaldino sì, ma un garibaldino alla Bixio, quel Bixio che a Bronte entra in chiesa a cavallo e non esita ad abbattere la giumenta che gli nitrisce sotto gli sproni. Più o meno, è quello stesso personaggio che osa sparare contro la campana molesta, in polemica contro la propaganda dei preti nella novella La Madonnina. Sempre secondo Giudice, per il suo lavoro nella gestione della zolfara Stefano si scontrò con un mafioso di turno, che lo voleva taglieggiare: un tale Cola Camizzi. Si noti per inciso che nella novella L’altro figlio il bestiale capo brigante che terrorizza le campagne in Sicilia, dopo che Garibaldi ha svuotato le carceri, e che uccide il marito della protagonista, si chiama appunto, per memoria e forse per vendetta, Cola Camizzi. Ma, in questo intrico, rimane il sospetto che l’oscuro dell’“altro figlio” sia intimamente collegato al dramma, alla favola del Figlio cambiato. Quella dello scrittore, Pirandello e non solo, è una storia ideale da figlio cambiato.
Ecco la Sicilia di Pirandello: Girgenti bianca e allucinata sulla collina, i templi in fila sul crinale, la voragine della zolfara. Un altro mondo, rispetto a quello dei catanesi. Il mare sullo sfondo è quello azzurro degli dèi, ma la zolfara chiama alla Sicilia dell’interno, al dramma della condizione dei minatori, all’inferno di una nuova fase storica, quella industriale, e sia pure di un’industria quanto mai povera, e delle prime rivendicazioni operaie. Verga si è affacciato sul burrone della cava una volta soltanto e ne è scaturito il capolavoro di Rosso Malpelo. Ma per Pirandello la zolfara è una culla, una scuola di vita, la sorgente del sostentamento economico. Se non coltivasse il suo mito alternativo, Pirandello finirebbe come il genitore, dominato dalla tutela ferrea dei personali interessi economici. Luigi ricava il suo profitto, lo sviluppo concreto del suo futuro, dai proventi della zolfara, ma è abbastanza sensibile per capire che non può che schierarsi dall’altra parte. Se no, non sarebbe lo scrittore che è e che diventa. Ovviamente, è uno scrittore dissociato, in rotta col padre padrone e con se stesso. Si vedano novelle come Il «fumo», Ciàula scopre la luna e naturalmente la rappresentazione di questa problematica storica nel romanzo I vecchi e i giovani. La zolfara da questo momento acquista nobiltà letteraria, è l’Università in cui, su quella scia, si formano numerosi scrittori siciliani del Novecento.
Proprio l’Università introduce un’altra differenza nel caso Pirandello. All’inizio, l’evasione si rende praticabile attraverso lo studio. Il giovane si iscrive prima all’Università di Palermo, poi decide di lasciare l’isola, passa a quella di Roma; quindi, dopo un contrasto con l’autorità accademica, va a studiare a Bonn, dove si laureerà con una tesi di filologia romanza, in lingua tedesca, ma dedicata significativamente ai suoni e agli sviluppi di suoni del dialetto materno di Girgenti.
L’incontro con il mondo tedesco è decisivo. È una tappa fondamentale del processo di conoscenza di se stesso. Una fuga, primo tempo di un viaggio che ha, sull’altra corsia, il ritorno. Pirandello fuggirà continuamente, ma tornerà sempre, con il corpo e soprattutto nello spirito.
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