Il mondo tedesco è l’altro da sé, il Nord, il mito del Nord. Una pattuglia di scrittori siciliani si è mostrata sensibile a questo fascino. De Roberto lo ha teorizzato nel dramma della sua controfigura nell’Ermanno Raeli, anticipando il dualismo tra linea paterna e linea materna del principe di Salina nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Ma si pensi almeno a un autore come Rosso di San Secondo, cresciuto sotto l’ala di Pirandello, e a Borgese.

La Germania e la sua cultura accreditano un bisogno d’ordine nel magma del furore isolano, nello stesso tempo contribuiscono a un allargamento degli orizzonti, mettono a contatto con la filosofia tedesca ma anche con le correnti dell’irrazionalismo e dell’avanguardia sullo scorcio del secolo: mentre in Italia vige il classicismo umanistico a egemonia cattolica. Prima di partire alla volta di Bonn esplora a Girgenti, su incarico del suo professore dell’Università romana, il filologo Ernesto Monaci, la biblioteca Lucchesi-Palli, alla ricerca di antichi manoscritti. Il resoconto che di quel tentativo fa, in una lettera al Monaci del 1899, ha punte esilaranti: i manoscritti per la verità ci sono, di qualche interesse, ma conservati in una maniera pietosa. Al suo primo ingresso in biblioteca incontra, seduti a un tavolo polveroso, cinque preti della vicina cattedrale e tre carabinieri dell’attigua caserma, tutti intenti non a compulsare volumi ma a «divorare un’insalata di cocomeri e pomidori». Il bibliotecario è uno di questa compagnia, per il quale il giovane studioso è «una bestia rara e insieme molesta». Infatti quei libri nel loro lungo sonno non conoscono di solito altri visitatori che i topi e gli scarafaggi... Si ricordi che la morte e resurrezione di Mattia Pascal avvengono analogamente in biblioteca, tra libri e topi.

È in gioco il rapporto con la propria cultura, gloriosa ma decaduta. Un passaggio su cui non si rifletterà mai abbastanza. Verga è arrivato sino a Milano, Capuana e De Roberto hanno preferito stazionare a Roma, Pirandello si spinge da battistrada sino a Bonn. Studente e innamorato, percepisce il suo disagio esistenziale. Per un certo periodo un modello di identificazione diventa il coltissimo Goethe, con le sue tempeste giovanili e con la visione universalistica della maturità. Goethe è sceso al Sud, si è esaltato della Sicilia e l’ha giudicata «la chiave di tutto»; ha concepito nel suo lungo viaggio italiano le Elegie romane. Pirandello prontamente le traduce in tedesco e, per perfezionare il parallelismo, concepisce a sua volta le Elegie renane. Un confronto audace, che ai suoi predecessori non sarebbe mai venuto in testa.

La frequentazione e la laurea a Bonn con una tesi scritta in lingua tedesca attestano già da sole la dimensione intellettuale e colta, superiore allo standard, conseguita da Pirandello. Non si dimentichi che, rientrato in Italia, dopo la tragedia dell’allagamento della zolfara, troverà i mezzi di sopravvivenza nell’insegnamento universitario; sicuramente un vestito che gli sta stretto, ma senza questa piattaforma e questo bagaglio sarebbe impensabile la stesura del trattato sull’Umorismo e la sperimentazione della sua opera, in specie degli ultimi romanzi e del suo teatro.

Quale opera debba nascere, all’inizio e per molto tempo, nemmeno l’interessato avrebbe potuto pronosticarlo. Parte da lontano, dal retroterra della versificazione poetica, quella più nobilitata dalla tradizione del canone letterario italiano e quella più vicina all’urgenza sentimentale dell’autobiografia. Ed esordisce con due raccolte di versi, Mal giocondo e Pasqua di Gea, che rivelano non un talento poetico, che anzi è francamente scarso, ma una miscela di sentimenti e di idee, una situazione di conflitto, un bisogno tormentoso di venir fuori da un bozzolo. Che è ancora una condizione generica da piccolo intellettuale di provincia.

Invece lo scrittore prende davvero il volo, sviluppa il culto della ricerca nel laboratorio alchimistico, ritrova il percorso a lui congeniale, per concorso sfavorevole ma scatenante dei fatti biografici e storici, per quello che alla fine, pur analizzabile nelle componenti genetiche, rimane pur sempre un miracolo. Pirandello, superata l’impasse, dà vita a una produzione letteraria sterminata, un labirinto dell’invenzione creativa, senza limitazione dei generi istituzionali: nel romanzo, nella novellistica, nel teatro.

Un fiume in piena scorre tra argini cedevoli, un demone detta le parole per un’ispirazione che non dà tregua, ai limiti della coazione. La vita diventa una rincorsa della scrittura, che la rappresenta, la decifra, la sostituisce. Il dramma pirandelliano è in prima istanza questa oscura ossessione, per cui o si viveo si racconta la vita, in un racconto tendenzialmente infinitesimale, che lascia tuttavia teso e depresso. Si aggiunga all’opera letteraria, di proporzioni quanto mai ampie, il complemento del ricchissimo epistolario, che ha un compito più immediato di rispecchiamento della cronaca e quasi provvede alla saldatura dei vuoti residui.

È chiaro che i modelli e la concorrenza hanno importanza. Ma in questo senso i maestri veristi, ormai fuori stagione, sono un riferimento orgoglioso, da cui prendere distanza per rivendicare una genealogia ma anche un’originalità. Si veda in questo senso il discorso tenuto nel 1920 al Teatro Bellini di Catania in occasione dell’ottantesimo compleanno di Verga, poi replicato con varianti alla Reale Accademia d’Italia nel 1931. È qui che Pirandello, nella circostanza ufficiale, cerca una collocazione storico-letteraria e disegna il tracciato di due linee fondamentali, due famiglie spirituali: da una parte gli scrittori che puntano a uno “stile di cose”, dall’altra quelli che aderiscono invece a uno “stile di parole”. La distinzione è approssimativa, e non senza equivoci, ma funzionale. Nel primo campo ci sono gli autori sodali e corregionali che ormai conosciamo, nell’altro, al di là dei falsi schermi, uno soprattutto, nella contemporaneità: Gabriele D’Annunzio, il letterato della competizione in atto, lo scrittore di successo irresistibile, nell’arte e nella società.