È lui il bersaglio diretto della polemica pirandelliana, il vincente rispetto a cui è difficilissimo acquisire e conservare una postazione. Diverso il caso di Benedetto Croce, non meno prestigioso e ingombrante con il suo idealismo classicistico, teorico di un sistema che cade a pezzi ma che non lascia spazi, architetto di un canone con inclusioni ed esclusioni che vorrebbero essere definitive.

Pirandello tiene in fastidio le scuole, tutte quante, e affronta la sua avventura da irriducibile solitario, con l’esperienza di chi si è formato nella sperduta Girgenti ma si è guadagnato la strada per Bonn. Ha la sua vocazione artistica, che è l’ultima eredità religiosa di una fede altrimenti perduta. Ha desiderio di novità e un paese alle spalle, da cui è fuggito, ma che letterariamente scopre essere una risorsa preziosa, una miniera con vene inesauribili.

Nel romanzo, incoraggiato dal generoso Capuana, esordisce con L’esclusa, che stenta a pubblicare, ma che gli trasmette la certezza di un salto di qualità rispetto al velleitarismo delle adolescenziali e giovanili prove poetiche, che lo mette in corsa in un territorio aperto e avvincente. In fin dei conti, mentre la lirica è illustre e laureata, permane la nebulosa del grande romanzo che, con l’eccezione unica dei Promessi Sposi, ancora manca alla prosa della nuova Italia. Dopo l’intermezzo del Turno, nel progetto romanzesco, ormai nella dimensione e nella temperatura fredda e calda dell’umorismo, è con Il fu Mattia Pascal che l’autore realizza l’opera in grado di fare la differenza. Il personaggio Pascal, marito infelice e suicida virtuale, parte dalla domestica Miragno e arriva all’altro mondo, con un viaggio di andata e ritorno. C’è un prima e un dopo, ma niente sarà più come prima. È una trovata geniale, che solleverà un ampio dibattito pubblico e darà una proporzionata notorietà al suo autore.

Il problema di fondo è il rapporto con il passato, con la Sicilia, con se stessi. Pirandello se la prende con la sua eredità di pregiudizi e credenze decrepite. Una galleria interminabile di novelle, da coprire il calendario di un anno e la vita stessa, secondo la tradizione orientale delle Mille e una notte, mette a fuoco lo spettacolo di un’esistenza irragionevole, sotto un cielo di carta, disabitato dai numi. La novella La sagra del Signore della Nave è una requisitoria contro la superstizione della religione, contro la violenza di un sacro dissacrato. Il romanzo I vecchi e i giovani, in un recupero delle strutture narrative ottocentesche, fa un bilancio ambizioso delle attese e dei risultati di un Risorgimento tradito, di una Sicilia arcaica e feudale, di una Roma inetta e corrotta.

Custode di una famiglia che, secondo la definizione di Giovanni Macchia, è una stanza della tortura, Pirandello diventa un esploratore degli abissi della personalità, raccogliendo ed esaltando una sua attitudine segreta. Senza gli strumenti di Freud, in anni che pur lo avrebbero permesso, realizza con i mezzi della letteratura e della lingua un’inchiesta prodigiosa sul tema dell’identità.

Con Il fu Mattia Pascal ha visitato l’altro mondo, alla frontiera ha consultato gli spiriti, guarda a questo «mondaccio» con scetticismo e con un cannocchiale rovesciato che lo rimpicciolisce. Nella novella Lontano ha sperimentato non la condizione dell’isolano che va al Nord, ma dell’uomo del Nord, in questo caso un norvegese, che approda e prova a trattenersi in Sicilia, ma non vi resiste, perché la sente estranea. È una controprova utile per una prospettiva del distacco, del lontano da dove. Nel 1932 il critico Emilio Cecchi medita l’idea di ricavare un film dalla trama di questa novella e commette l’imprudenza di desumere dall’argomento una valutazione negativa della cultura meridionale e siciliana. Pirandello replica risentito: «Tutt’altro! Non era, né poteva essere nelle mie intenzioni, di rappresentar barbara o di civiltà inferiore la Sicilia. Altra vita, altro sangue, altra natura, altri costumi, altri bisogni, altra sensibilità, altri sentimenti. È tutto qui».

Avevate capito male. Come dirà più tardi il principe di Salina al funzionario piemontese Chevalley, i siciliani sono in sonno, per colpa del sole e per ragioni storiche, ma rappresentano il sale della terra. Comunque, solo lui ha il diritto di criticarli, con una critica che è una forma rovesciata di adesione viscerale.

Ma Pirandello ci mette una nota impossibile all’aristocratico Tomasi di Lampedusa: come viene fuori anche dal brano citato, la passione per l’altro, per l’identità e dunque per l’alterità. Per l’altro, per l’alienato, per l’alienato sino a divenire alieno, per lo straniero a questa terra; di cui il prototipo è Mattia Pascal, il filosofo matto di filosofia, il morto redivivo.

Il diverso e il suo segreto, attraverso il meccanismo del rovesciamento, una delle leve predilette. Le ragioni degli altri, così difficili da ascoltare, murati come siamo nella cella delle nostre fragili convinzioni. Una galleria di personaggi “diversi” è illustrata dalla lente pirandelliana: Ciàula il mentecatto nella novella che ne porta il nome, Chiarchiaro lo iettatore nella Patente, l’ebreo in Un Goj, il pazzo: il pazzo vero, il pazzo a intermittenza, il pazzo creduto o anche simulato.

Girgenti e dintorni, dintorni che si dilatano senza confini, è una vasta clinica, dove i personaggi, protagonisti o comparse, sceneggiano una rappresentazione assurda dell’esistenza. Lo scrittore si accorge che la sua sfortuna maggiore è la sua fortuna inquietante, che la moglie, Maria Antonietta Portulano, un’altra lucciola caduta nella campagna girgentana, è la sua Musa angosciosa, la statua vivente, la Medusa inguardabile, che lo opprime e da cui pur impara cose proibite. Non è un infortunio e basta. Pirandello non è Scott Fitzgerald davanti alla schizofrenica moglie Zelda. Qui non ci sono trasgressioni, sprechi, mondanità. Tutto invece è cupo e disperato.

Per sua natura riservato, si accanisce a pubblicizzare questa malattia, che è una vergogna.