Tutto è Bene Quel Che Finisce Bene Read Online
CONTESSA - | Lasciare ora andar via da me mio figlio è come seppellire mio marito una seconda volta.
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BERTRAMO - | E per me, madre, è piangere mio padre un’altra volta, andando via: ma devo sottostare a un ordine del re, al quale sono tanto più soggetto ora che sono sotto sua tutela.
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LAFEU - | Signora, voi troverete nel re un marito, ed un padre voi, signore. Egli, che è sempre sì buono con tutti, non potrà non aver proprio con voi questa virtù: ché anzi, i vostri meriti non che scemarla dove è sì abbondante, riuscirebbero a destarla là dov’essa fosse del tutto mancante.
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CONTESSA - | Che speranze ci sono per il suo male? Il re potrà guarire?
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LAFEU - | Ahimè, signora, ha licenziato i medici, dopo aver inseguito tanto tempo, sotto le loro cure, la speranza, senza ritrarne alfine altro vantaggio che sentirla scemar di giorno in giorno.
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CONTESSA - | (Indicando Elena) Questa giovane donna aveva un padre - ahimè, quanta tristezza in questo “aveva”! - la cui perizia nella scienza medica quasi era pari alla sua onestà; e dico “quasi”, ché se fosse giunta ad eguagliarla in tutto, avrebbe reso la natura umana non più mortale e lasciato la Morte in ozio, per mancanza di lavoro. Che fortuna sarebbe per il re, s’ei fosse ancora vivo! La sua vita avrebbe potuto essere la morte della malattia del re.
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LAFEU - | Che nome aveva, mia signora, l’uomo di cui parlate?
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CONTESSA - | Un nome assai famoso nella sua professione, e a buon diritto: Gerardo di Narbona.
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LAFEU - | Ah, sì, signora, veramente bravo. Ne parlava anche il re, ultimamente, con alta ammirazione e gran rimpianto; era di tal perizia nel suo ramo, che di certo sarebbe ancora in vita se fosse dato all’umano sapere di far baluardo alla mortalità.
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BERTRAMO - | Di che malanno soffre il re, signore?
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LAFEU - | D’un fistola.
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BERTRAMO - | Un male mai sentito.
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LAFEU - | Così vorrei lo fosse per nessuno! E questa nobile madamigella è figlia di Gerardo di Narbona?
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CONTESSA - | La sua unica figlia, mio signore, e rimasta affidata alle mie cure. Su di lei nutro tutte le speranze promesse dalla sua educazione; grazie alla quale rifulgono in lei ancora più i suoi doni di natura; ché laddove virtuose qualità si sposano a una mente ineducata, non si può che apprezzarle con rammarico, e si rivelano bensì virtù in chi le ha, ma anche traditrici. In lei, per contro, sono sublimate, perché sposate a una grande schiettezza: s’ella infatti deriva da natura i sentimenti nobili dell’animo, deriva da se stessa la virtù.
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LEFEU - | Vedo, contessa, che le vostre lodi le strappano le lacrime.
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CONTESSA - | È il miglior sale con cui una vergine può condire le lodi che riceve. Ogni volta che le ritorna al cuore |
| il ricordo del padre, il dolore tiranno viene a suggere vita dalle sue gote. (A Elena che piange in silenzio) Orvia, Elena, basta, ché altrimenti si potrebbe pensar, da chi ti vede, che palesi un dolore non sentito.
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ELENA - | È vero, lo paleso, ma lo sento.
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LAFEU - | Un contenuto compianto dei vivi è un diritto dei morti; ma un dolore eccessivo è nemico del vivere.
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CONTESSA - | Tant’è. Se il vivere non è nemico al duolo, e ne frena l’eccesso, il troppo duolo divien nemico al vivere e l’uccide.
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BERTRAMO - | (Inginocchiandosi alla madre) Madre, vi chiedo, prima di partire il vostro santo augurio.
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LAFEU - | (A parte) Come intendere questo desiderio?([1])
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CONTESSA - | Bertramo, figlio mio, sii benedetto, e possa tu, nei modi e nell’aspetto, mostrarti degno figlio di tuo padre; e possa in te la nobiltà del sangue gareggiare con l’onestà di vita, e la bontà spartirsi la corona col tuo alto lignaggio. Abbi amore per tutti, fede in pochi; non far torto a nessuno. Col nemico ti devi confrontare piuttosto moralmente che di fatto; conservati l’amico sotto chiave con la chiave della tua stessa vita. Lasciati biasimar pel tuo silenzio piuttosto che pel tuo troppo parlare. Scendano sul tuo capo quanti doni vorrà largirti il cielo ed intercederti le mie preghiere. |
| Addio. Signor Lafeu, questo ragazzo ancora troppo acerbo cortigiano, consigliatelo voi, mio buon signore.
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LAFEU - | Non può mancar di ricevere il meglio chi si prodigherà con devozione.
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CONTESSA - | Che Dio lo benedica. Addio, Bertramo,
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| (Esce)
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BERTRAMO - | (Rialzandosi) Vi secondino quanti più bei voti la vostra mente possa formulare. (A Elena) Siate voi di conforto ora a mia madre, vostra signora, e abbiatene assai cura.
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LAFEU - | Vi saluto, graziosa damigella; conservatevi degna della stima goduta dall’insigne vostro padre.
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| (Escono Bertramo e Lafeu)
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ELENA - | Ah, fosse solo questo! Non a mio padre io penso ora piangendo, se pur queste mie lacrime lo onorino più di quelle versate allor per lui… Com’era?… Non me lo ricordo più. Nella memoria mia c’è solo un volto, il volto di Bertramo… Per me è finita. Con Bertramo via, no, no, non vivo più; tanto varrebbe ch’io m’innamorassi d’un astro risplendente, - ché come un astro ei splende su di me -, e pretendessi di farlo mio sposo; e dovessi soltanto accontentarmi di contemplar la sua luce rifratta, come in un’orbita collaterale, senza poter entrare in quella sua. Così trova in se stesso il suo castigo il mio amore ambizioso: la cerbiatta bramosa d’accoppiarsi col leone è destinata a morire d’amore. Così dolce era stato fino ad ora, se pur dolce tortura, poterlo veder sempre, a tutte l’ore, poter stare seduta a disegnare con la mente sul foglio del mio cuore la bella arcata delle sue sopracciglia, il suo occhio di falco, le sue ciocche |
| di riccioli… ah, mio cuore, troppo sensibile a lasciarti imprimere da ogni linea, ogni curva, ogni tratto del suo volto armonioso!… E se n’è andato, e la mia fantasia che l’idolatra deve ora adorar le sue vestigia… Ma chi arriva qui ora?..
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| Entra, dal fondo, PAROLLES
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| Questi è uno che parte insieme a lui; per questo m’è simpatico; anche se so ch’è un vero trappolone, un vanesio ed un fiore di codardo; tuttavia questi vizi congeniali gli si attagliano sì perfettamente da trovar sempre facile indulgenza, mentre in lui la virtù, malgrado le sue vertebre d’acciaio, sembra rabbrividire al vento gelido. È così che vediamo tante volte l’infreddolita saggezza al servizio della sovrabbondante balordaggine!
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PAROLLES - | Salute a voi, leggiadra reginella!
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ELENA - | E a voi, monarca.
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PAROLLES - | Eh, no!
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ELENA - | Nemmeno io!([2])
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PAROLLES - | Meditavate forse sulla verginità?
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ELENA - | Sì, giustappunto. Anzi, voi che avete una patinatura di soldato, vi voglio fare una domanda: l’uomo è nemico della verginità: come si fa noi donne a barricarsi contro di lui?
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PAROLLES - | Chiudendogli la porta.
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ELENA - | Grazie tante, ma lui vi dà l’assalto, e la verginità, ch’è femminile, per valorosa che possa mostrarsi, è sempre debole nella difesa. Istruiteci voi in qualche strategia di resistenza.
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PAROLLES - | Non ce n’è. L’uomo vi cinge d’assedio, vi piazza qualche mina sotterranea, e vi farà scoppiar come un pallone.([3])
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ELENA - | La nostra povera verginità! Dio la salvi da mine sotterranee e da chi ci vuol far saltare in aria! Non c’è nessuna strategia di guerra con la quale le vergini possano far saltare in aria gli uomini?
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PAROLLES - | Eh, una volta che la verginità è messa spalle a terra, tanto più l’uomo può saltare in aria; e poi, per farlo scaricare a terra vi lascerete aprire una tal breccia che addio la vostra bella cittadella! Nella repubblica della natura non v’è cittadinanza alla politica di preservare la verginità. La perdita della verginità è, in natura, un acquisto razionale; e mai vergine venne generata senza che prima la verginità fosse state perduta. Anche voi siete fatta della lega con la quale si coniano le vergini. Per ciascuna verginità perduta se ne possono ritrovare dieci; verginità conservata per sempre è per sempre perduta. Liberatevene. È una compagna troppo freddolosa.
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ELENA - | E invece io vorrei tenerla ancora, a costo di dover morire vergine.
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PAROLLES - | C’è ben poco da dire a voler perorare in sua difesa: |
| essa è contro la legge di natura. A perorar per la verginità, si mette sotto accusa nostra madre: che è chiara prova di disobbedienza. Verginità e suicidio son tutt’uno; la vergine che vuol restare vergine è una che decide d’impiccarsi, e dovrebbe trovare sepoltura ai bordi delle grandi vie maestre, lontano da ogni terra consacrata, come una disperata peccatrice contro natura. La verginità, come il formaggio, genera dei vermi, si consuma da sé fino alla crosta e muore divorando le sue viscere. Inoltre la verginità è stizzosa, ambiziosa, superba, neghittosa e soprattutto intrisa di egoismo, il più proibito fra tutti i peccati dai canoni delle scritture sacre. Badate a non tenervela ben stretta: non potreste che rimanere in perdita. Datela via! Ed in capo ad un anno, garantito, l’avrete raddoppiata: un interesse davvero cospicuo, e per nulla intaccando il capitale. Vi convien liberarvene!
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ELENA - | E che dovrebbe fare allora una, che la vorrebbe perdere a suo gusto?
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PAROLLES - | Vediamo un po’… Eh, sì, trattarla male, magari offrendola a chi non la vuole. È una merce che perde il proprio smalto se lasciata a giacere in magazzino: più ce la tieni, più cala di prezzo. Smerciarla fino a tanto che è vendibile; soddisfar la domanda di mercato a tempo giusto. La verginità, simile ad un anziano cortigiano, porta in testa un cappello fuori moda, un vestiario sontuoso ma impossibile, come i fermagli e gli stuzzicadenti, che non sono più in uso in società.([4]) |
| È meglio un dattero nel vostro porridge che una data sopra la vostra guancia.([5]) E la verginità, la vostra buona vecchia verginità, somiglia tanto a quelle pere vizze di Francia, brutte fuori e dentro acide; eh, sì, perdio, proprio una pera vizza, che un tempo sarà stata anche assai buona, ma adesso è vizza. Che volete farci?
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ELENA - | Quella mia, non ancora… Il tuo padrone troverà mille amori dove va: una gli sarà madre, amante e amica; qualcun’altra sarà la sua fenice,([6]) sua capitana e insieme sua nemica; un’altra la sua dea, la sua sovrana; una, da lui amata ma infedele, sarà la sua umile superbia, e insieme la superba sua umiltà, il suo discorde accordo e la sua armoniosa dissonanza, la sua fede, la sua dolce rovina; con tutto un mondo di nomi e nomignoli, graziosi e pazzi, tenuti a battesino da Cupido bendato… E allora lui… che farà, non lo so… Dio lo protegga! La corte è un tal cosa, ed egli è uno…
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PAROLLES - | Uno che cosa?
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ELENA - | … uno al quale io auguro tutto il bene del mondo. Però peccato…
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PAROLLES - | Peccato che cosa?
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ELENA - | Che gli augùri non abbiano in se stessi corporea consistenza, sì che a noi, che siamo di più umili natali, da meno nobili stelle protetti, sia concesso di offrire ai nostri amici anche gli effetti di quei nostri auguri, e di mostrare loro tutto ciò che, rimanendo chiuso nel pensiero, mai ci procurerà ringraziamenti.
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| Entra un PAGGIO
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PAGGIO - | Monsieur Parolles, vi vuole il padrone.
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| (Esce)
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PAROLLES - | Elena, arrivederci. Se a corte mi ricorderò di te, ci farò volentieri un pensierino.
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ELENA - | Voi siete nato sotto buona stella, monsieur Parolles.
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PAROLLES - | Io? Sì, sotto Marte.
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ELENA - | Proprio come pensavo: sotto Marte.
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PAROLLES - | Perché “sotto”? Intendete “sottoposto”?
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ELENA - | Le guerre v’han tenuto tanto “sotto” che dovevate nascere per forza sotto Marte.
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PAROLLES - | Ah, sì, Marte ascendente.
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ELENA - | Direi piuttosto Marte rientrante.
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PAROLLES - | Perché rientrante?
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ELENA - | Perché nel combattere retrocedete sempre.
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PAROLLES - | È una mia tattica per prendere vantaggio.
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ELENA - | Anche la fuga può recar vantaggio quando a salvar la pelle consigliera è la fifa. E in voi, monsieur, fifa e coraggio sono fusi insieme |
| in maniera davvero prodigiosa nella virtù di metter l’ali ai piedi; ed apprezzo com’essa vi si addice.
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PAROLLES - | Son troppo indaffarato per stare qui a competere d’arguzia con te; ma al mio ritorno sarò un perfetto cortigiano in tutto,([7]) e la mia esperienza servirà ad istruirti alla naturalezza, sì che tu sia matura a ben accogliere quello che ti consiglia un cortigiano ed a capirne il senso e la portata; se poi di tanto non sarai capace, ti uccida la tua ingratitudine,([8]) e ti distrugga la tua ignoranza. Addio. Quando ti resta un po’ di tempo, di’ le tue orazioni; e quando non ne hai, pensa agli amici. Pigliati un buon marito, e con lui pòrtati allo stesso modo che lui con te. E così, ti saluto.
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| (Esce)
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ELENA - | Spesso i rimedi che ascriviamo al cielo stanno in noi stessi. Il fatidico cielo ci lascia piena libertà di agire, e sol fa pigre le nostre intenzioni se pigri siamo noi ad eseguirle. Che potenza è mai questa che attrae l’amore mio a tanta altezza da far ch’io veda cosa di cui il mio occhio mai può dirsi sazio? La natura fa unire e combaciare da pari a pari come nate insieme sostanze fra le quali la fortuna ha aperto spazi immensi. Le grandi imprese son solo impossibili a chi misura fatica ed impegno che sono necessari a realizzarle col metro del raziocinio comune, e ritiene che ciò ch’è già successo non possa più ripetersi nel tempo. Ci fu mai donna innamorata al mondo che, avendo fatto tutto il suo possibile |
| per mostrar quanto vale, non si sia poi conquistato l’amore?… La malattia del re… Forse l’impresa mia potrà fallire, ma le mie intenzioni sono ferme, né mi verranno meno a porla in atto.
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| (Esce) |
SCENA II - Parigi, il palazzo reale.
Fanfara di cornette. Entra il RE DI FRANCIA,
con in mano una lettera, e con CORTIGIANI.
RE - | Fiorentini e senesi sono in guerra. Finora han combattuto a sorti pari, e seguitano a darsele di brutto.
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PRIMO CORTIGIANO - | Così ci viene riferito, sire.
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RE - | E c’è da crederci. Lo dà per certo, d’altronde qui nostro cugino Austria, (Mostra la lettera) e ci avverte altresì che i Fiorentini ci chiederanno aiuti; al qual proposito il nostro caro parente, mi sembra, anticipando ogni nostro giudizio, vorrebbe che opponessimo un rifiuto.
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PRIMO CORTIGIANO - | Il suo affetto per voi e la saggezza di cui v’ha dato spesso prove, sire, perorano per lui il più alto credito.
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RE - | Il suo consiglio infatti ci ha convinti della risposta che dobbiamo dare: e Firenze([9]) s’avrà da noi un “no” prima ancora di farci la richiesta. Ciò non toglie che tutti i nostri nobili che intendano combattere in Toscana possano aver da noi ampia licenza di schierarsi con l’una o l’altra parte.
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SECONDO CORTIGIANO - | Ciò potrà ben servir da addestramento pei nostri nobili, così bramosi di respiri e d’azione all’aria libera. Ma chi arriva?
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PRIMO CORTIGIANO - | È il giovane Bertramo, conte di Rossiglione, mio signore.
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| Entrano BERTRAMO e PAROLLES
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RE - | (A Bertramo, scrutandolo dall’alto in basso) Giovane, tu hai il volto di tuo padre: la prodiga natura, più provvida e studiosa che avventata, t’ha conformato bene. Possa tu derivare da tuo padre anche le belle sue virtù morali. Benvenuto a Parigi.
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BERTRAMO - | Grazie, sire. V’offro la piena mia disposizione.
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RE - | Ah, riaver nelle membra quel vigore di quando ci cimentavamo insieme da amici, nelle prime prove d’armi! Egli s’addentrò poi più pienamente nell’arte militare di quel tempo, alla scuola dei più grandi strateghi, e ci rimase a lungo; ma l’età, questa infernale perfida nemica, scese furtiva poi sui nostri corpi, e ci ridusse entrambi fuori d’uso. Mi reca proprio gran sollievo al cuore parlare di quell’ottima persona che fu tuo padre: egli ebbe, in giovinezza, quello spirito, vivido, frizzante che possiamo bensì ben osservare nella giovane nobiltà di adesso; ma costoro s’esercitano invano nell’arte dell’arguzia: i lor motteggi non saranno notati da nessuno e si ritorceranno su di loro fino a quando non si decideranno a nasconder la loro leggerezza col merito, sul campo dell’onore.([10]) |
| Cortigiano perfetto, erano in lui fierezza ed ardimento completamente scevri tuttavia da rudezza o alterigia; e s’era in lui di queste qualche volta alcuna traccia, n’erano motivo persone del suo rango, e il suo onore, in quei casi, clessidra di se stesso, conosceva l’esatto modo e tempo in cui dar voce al biasimo, e la lingua si faceva obbediente alla sua mano. Gli inferiori trattava come pari, chinando al lor livello la sua altezza, e, umiliato dall’umile lor lode, s’inorgogliva della sua umiltà. Un tal uomo potrebbe esser modello a questi nostri più giovani tempi, e, ben seguito, ci farebbe accorgere quanto siano involuti e in declino.
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BERTRAMO - | Vedo, maestà, che in voi la sua memoria splende più viva e ricca che sopra la sua tomba; il suo epitaffio non lo dipinge là altrettanto vero quanto questi regali vostri accenti.
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RE - | Potessi averlo ancora qui con me! Diceva sempre (mi par di sentirlo: le sue parole, sempre sì sagaci, non le versava solo negli orecchi, le innestava negli animi degli altri perché crescessero e fruttificassero), diceva sempre, quando l’umor triste lo prendeva alla fine e come seguito dei momenti di gran spensieratezza: “Non fatemi più vivere, “quando ad alimentare la mia fiamma “non ci sarà più olio sufficiente; “ch’io non abbia a restare lo stoppino “fumoso in mezzo a più giovani spiriti “i cui vigili sensi hanno a disdegno “tutto che non sia nuovo, “e i cui cervelli altro non san fare “che inventar nuove mode, “che duran meno della stessa moda”. Questo augurio faceva egli a se stesso; e questo è ora il mio, dopo di lui: |
| poiché non posso più portare a casa cera o miele, ch’io possa scomparire rapidamente dal mio alveare, per lasciar posto alle nuove operaie.
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SECONDO CORTIGIANO - | Voi siete amato, sire. E coloro che v’amano di meno sentiranno per primi la mancanza di vostra altezza, se ci mancherete.
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RE - | Certo, occupo un posto. (A Bertramo) Conte, da quanto tempo è deceduto il medico di casa di tuo padre? Era un nome famoso.
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BERTRAMO - | Son circa sei mesi, mio signore.
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RE - | Se fosse ancora vivo, avrei potuto forse far ricorso con migliore speranza alle sue cure… Datemi il braccio… Gli altri m’han consunto a forza di provare e riprovare… Ormai in me natura e malattia baruffano a lor pieno piacimento. Sii benvenuto conte, non mi sei meno caro tu di un figlio.
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BERTRAMO - | Grazie a vostra maestà.
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| (Escono) |
SCENA III - Rossiglione, il palazzo del conte.
Entrano la CONTESSA, RINALDO e IL LAVA([11])
LA CONTESSA - | Ora posso ascoltarvi: che mi dite di questa gentildonna?([12])
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RINALDO - | Mia signora, la mia sollecitudine costante nel soddisfare i vostri desideri spero si trovi scritta nel curriculo dei miei servizi resi fino ad oggi; ché a metterci a vantare noi per primi i nostri meriti, facciamo torto in primo luogo alla nostra modestia, e insozziamo la loro limpidezza.
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CONTESSA - | (Verso il buffone) Che ci sta a fare qui questo gaglioffo? Via, via, messere! È solo per pigrizia che non do credito alle lamentele che sento numerose sul tuo conto; perché so che sei stupido abbastanza da combinare ogni sorta di guai ed abbastanza abile da commettere certe birbonate.([13])
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LAVA - | Non v’è ignoto, signora, ch’io sono un poveraccio.
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CONTESSA - | Bene, Lava.
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LAVA - | Eh, no, non tanto bene ch’io sia povero, anche s’è vero che son molti i ricchi che si dannano; ma se vostra grazia mi dà il permesso di metter su casa, Isbèl ed io (Isbèl è la mia donna) ce la potremo cavare alla meglio.
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CONTESSA - | Ti vuoi ridurre a chieder l’elemosina?
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LAVA - | Comincio intanto a chieder l’elemosina del vostro beneplacito, nel caso.
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CONTESSA - | Quale caso?
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LAVA - | D’Isbèl e mio, signora. La servitù non è ereditaria, e credo che non avrò mai dal cielo la sua benedizione fino a tanto che non avrò una prole dei miei lombi; i figli sono infatti, come dicono, sante benedizioni.
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CONTESSA - | Ma il motivo per il quale t’induci a prender moglie?
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LAVA - | Lo richiedono i poveri miei lombi, signora; mi ci pungola la carne, e se il diavolo pungola, signora, non c’è niente da fare, ci si va.
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CONTESSA - | Tutti qui i motivi che sa addurmi vossignoria?
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LAVA - | Oh, in coscienza, signora, ce n’è altri, ed altrettanto sacri.
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CONTESSA - | Può conoscerli il mondo dei mortali?
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LAVA - | Signora, sono stato un peccatore come voi, come tutti in carne e sangue, e mi sposo perché possa pentirmi.
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CONTESSA - | Ti pentirai di esserti sposato prima di tutti gli altri tuoi peccati.
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LAVA - | Non ho amici, signora; e spero bene poterne avere in grazia di mia moglie.
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CONTESSA - | Gli amici che ti fa “in grazia sua”, brutto furfante, sono tuoi nemici.
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LAVA - | Vedo, signora, che in fatto di amici non ne capite molto: quei furfanti faranno al posto mio quello ch’io sono ormai stufo di fare. Chi ara la mia terra al posto mio fa risparmiare fatica ai miei buoi e lascia poi a me tutto il raccolto. Se mi tiene per becco, è lui il mio bracciante tuttofare; chi diverte mia moglie fa un servizio a pro della mia carne e del mio sangue; e chi della mia carne e del mio sangue si dà premura, vuol dire che l’ama; e chi ama la mia carne e il mio sangue vuol dire ch’è mio amico: ergo chi fa l’amore con mia moglie mi fornisce una prova d’amicizia. Se tutti gli uomini fossero paghi e soddisfatti di quello che sono, il matrimonio non avrebbe rischi. Il giovin Cotoletta puritano ed il vecchio papista Mangiapesce,([14]) per divisi che siano i loro cuori in quanto alla lor fede religiosa, |
| in quanto a comprendonio son tutt’uno: potrebbero scornarsi l’un con l’altro come due cervi dello stesso branco.
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CONTESSA - | Quando la smetterai, grossa canaglia, d’essere uno sboccato maldicente?
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LAVA - | Sono un profeta, signora, un profeta che dice il vero senza mezzi termini: “Io vi ricanterò qui la ballata “che l’uomo sempre vera ha ritrovata: “i matrimoni il fato li procura, “ma il cucù cantò sempre per natura”.([15])
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CONTESSA - | Adesso va’; ne riparliamo dopo.
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RINALDO - | Vi piaccia incaricare lui, signora, di dire ad Elena di venir qui, perché è di lei che vi dovrei parlare.
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CONTESSA - | Messere, andate a dire alla mia dama, Elena, intendo, che vorrei parlarle.
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LAVA - | (Cantando) “Lei disse: fu per questa bella faccia “che i Greci andarono a bruciare Troia? “Fu certo un’azionaccia. “Fu ella forse di Priamo la gioia? “Su questo sospirando si fermò “e poi così parlò: “se in mezzo a nove una buona ce n’è, “una buona su dieci sempre c’è.”
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CONTESSA - | Che! Una buona su dieci? Sciagurato, mi stroppi la canzone!
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LAVA - | Non la stroppio, signora, ve la spurgo, dicendo che su dieci almeno una ce n’è di buona. Dio così volesse provvedere di anno in anno il mondo! S’io fossi il loro parroco, con una tale decima di donne non avrei proprio nulla da ridire.([16]) |
| Una su dieci, dice, eh? Che pacchia! Ne nascesse una buona solo ad ogni passaggio di cometa o sol magari ad ogni terremoto, |
| se n’alzerebbe subito la media nell’urna della loro lotteria;([17]) oggigiorno ad un uomo è più facile estrarre dal suo petto il proprio cuore che estrarre da quell’urna quella giusta.
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CONTESSA - | Adesso però va’, messer briccone, a fare quello che t’ho comandato.
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LAVA - | Guarda un po’ come deve andare il mondo! Che un uomo debba esser comandato da una donna, senza che il mondo crolli. L’onestà se non è sol puritana, non fa male a nessuno; basta che si rassegni ad indossare la cotta candida dell’umiltà sulla tonaca nera d’un gran cuore.([18]) Va bene, me ne vado! Dirò ad Elena di venir qui.
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| (Esce)
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CONTESSA - | Bene. Allora sentiamo. Dicevate?
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RINALDO - | Io so, signora, quanto voi amiate questa giovane vostra nobil dama.
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CONTESSA - | Sì, molto, in fede mia, lo posso dire. Suo padre l’ha lasciata a me affidata, e, del resto, pur senza altra cagione, ella, di per se stessa, ha pieno titolo a ricevere quanto affetto trova; merita più di quanto le vien dato, ed io farò che le sia sempre dato più di quanto ella possa domandare.
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RINALDO - | Signora, vi dirò, mi son trovato, non visto, poco fa vicino a lei, più ch’ella, penso, non desiderasse. |
| Era sola e parlava con se stessa ad alta voce, per le proprie orecchie, convinta, giurerei, che nessun altro stesse lì ad udir le sue parole. Il cui tenore, si capiva bene, era l’amore suo per vostro figlio. La Fortuna - ho sentito che diceva -, non è una dea, se ha posto tra noi due tanta disparità di condizioni; nemmeno è un dio Amore, se usa esercitare il suo potere solo tra due che son di pari rango; né Diana è la patrona delle vergini, se lascia che una povera sua adepta venga colta indifesa al primo assalto, senza speranza poi d’esser da lei riscattata. E diceva tutto questo con un amaro accento di dolore quale mai profferire avevo udito dalle labbra di vergine fanciulla; e ho creduto che fosse mio dovere |
| portarvene senz’altro a conoscenza, perché se danno dovesse venirne, voi non foste senz’esserne al corrente.
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CONTESSA - | E bene avete fatto ad informarmene. Tenetelo però solo per voi. Della faccenda m’ero già avveduta per molti segni, ma così oscillanti sulla bilancia del mio sospettare, da non saper se crederlo o non crederlo. Ora andate pei fatti vostri, prego, e grazie per il vostro onesto zelo. Più tardi avrò qualcosa ancor da dirvi.
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| (Esce Rinaldo)
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| È accaduto anche a me, in gioventù; son cose di natura, e noi della natura siamo figlie. Questa spina appartiene giustamente alla rosa dell’età nostra giovane; è nostro sangue, ed è nata con esso. È della realtà della natura segno e sigillo l’amorosa impronta ch’è stampata nell’animo dei giovani. A ricordare i nostri giorni andati, tali erano altresì i peccati nostri, che non erano tali allor per noi.
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| Entra ELENA
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| (A parte) E quel peccato lei, lo vedo bene, ora, ce l’ha nell’occhio.
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ELENA - | Mi volevate parlare, signora?
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CONTESSA - | Tu sai ch’io sono, Elena, una madre per te.
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ELENA - | La mia onorata signora.
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CONTESSA - | No, una madre. Perché non una madre? Quando ho detto “una madre” m’è sembrato che avessi visto un serpe! Che cosa c’è nella parola “madre” da farti trasalire in questo modo? Dico che son tua madre, perché ti annovero fra le creature che ho portate nel grembo. Non di rado si vede l’adozione stare al pari con la paternità, e un’estranea sementa riprodurci un indigeno virgulto. Tu non m’hai fatto gemere di doglie e tuttavia per te ho mostrato sempre le cure d’una madre per la figlia. Ragazza mia, per carità di Dio, ti senti proprio raggelare il sangue al sentir dire che sono tua madre? Che hai? Perché ti cerchia le pupille Iride variopinta, l’inclemente messaggera di pianto? Tanto ti duole d’esser mia figlia?
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ELENA - | Di non esserlo, anzi.
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CONTESSA - | Ma se ti dico che sono tua madre!
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ELENA - | Dovrei chiamare allora mio fratello il conte vostro figlio?… No, signora, dovete perdonare, ma questo non può essere. Il mio nome è umile, il suo chiaro ed illustre; nessuno della mia famiglia è nobile, della sua tutti; egli è il mio padrone, il mio caro signore, ed io sua serva: e tale voglio vivere e morire. Non può essere egli mio fratello.
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CONTESSA - | Né io tua madre?
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ELENA - | Voi, lo siete, sì, e vorrei tanto lo foste davvero, purché il mio signore vostro figlio… non fosse mio fratello! Vorrei, sì, che voi foste la madre sua e mia, nulla più ardentemente chiedo al cielo: vostra figlia, senza esser sua sorella. Non può darsi altrimenti che, essendo tuttavia io figlia vostra, egli non debba essermi fratello?
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CONTESSA - | Sì, Elena, se tu fossi, mia nuora. Dio non voglia che tu sia refrattaria a un tal pensiero!([19]) Tanto ti sconvolgono questi due nomi di “madre” e di “figlia”? Impallidisci ancora? I miei timori scopron la tua passione. Ora m’è chiaro il mistero della tua solitudine, e la fonte delle tue salse lacrime. Ora mi appare del tutto lampante: tu sei innamorata di mio figlio. Fantasiose menzogne con le quali cercassi di negare un sentimento così manifesto non valgono. Pertanto sii sincera, e dimmi che è così, ché le tue guance, vedi?, se lo confessano a vicenda; e i tuoi occhi, che parlano a lor modo, lo vedono mostrato sì palese nel tuo contegno; solo il tuo peccato e una colpevole ostinazione ti legano la lingua a far sospetta ancor la verità. Parla, è così? Se davvero è così, hai ingarbugliato una bella matassa; e se non è, giurami che non è; |
| comunque t’ordino, dinnanzi al cielo che potrà anche servirsi di me per il tuo bene: di’ la verità.
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ELENA - | Perdono, mia signora!
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CONTESSA - | Ami mio figlio?
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ELENA - | Voi non l’amate?
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CONTESSA - | Non tergiversare: il mio amore per lui viene da vincolo a tutti noto. Avanti, su, rivelami il tuo animo, perché le tue reazioni l’hanno già pienamente denunciato.
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ELENA - | Ebbene, sì, confesso qui in ginocchio innanzi al cielo e a voi, che più di voi e solo al ciel secondo, amo perdutamente vostro figlio. La mia gente era povera ma onesta; così il mio amore. Ma non vi adombrate, ché non gli porta danno essere amato da una come me. Non lo perseguo con nessun segno di corteggiamento presuntuoso, né lo vorrei per me fin quando non lo avessi meritato, se pur ancor non so per qual mio merito. Io so di amare invano, e di sperare contro ogni speranza; eppure seguito a riversare dentro questo ingannevole crivello incapace di contenerla tutta la piena straripante del mio amore, sapendo ch’essa se ne va dispersa; così, al pari d’un idolatra indiano, vivo adorando il sole che volge i raggi sopra il suo devoto, ma non per questo sa chi esso sia. Mia signora carissima, non fate che il vostro odio prenda l’armi contro l’amore mio, solo perché amo colui che anche voi amate; ma se voi stessa, il cui maturo onore attesta una virtuosa giovinezza, provaste al vostro tempo una tal fiamma avvivata da casto e puro affetto, |
| sì che la vostra Diana era anche Venere,([20]) abbiate compassione, vi scongiuro, d’una il cui stato non offre altra scelta che prestare e donar nella certezza di non avere mai restituzione; d’una che non va in cerca per trovare |
| quello di cui va in cerca, ma, come nell’enigma della favola,([21]) vive la gioia che la fa morire.
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CONTESSA - | Non avevi intenzione ultimamente di recarti a Parigi?
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ELENA - | Sì, signora.
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CONTESSA - | A far che cosa? Di’ la verità.
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ELENA - | Ve la dirò, signora, innanzi a Dio. Voi sapete che, prima di morire, mio padre mi lasciò delle ricette di prodigiosa e provata efficacia che gli studi e la sperimentazione gli avevano permesso di comporre come rimedi di sovrano effetto; e che mi comandò, per testamento, di custodirle con estrema cura siccome contenenti proprietà superiori alla indicazione esterna.([22]) Tra le altre è indicato uno specifico, di già provata sperimentazione, che può curare il male disperato di cui si dice stia morendo il re.
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CONTESSA - | Era questo il tuo unico motivo per andare a Parigi? Parla franco.
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ELENA - | Sì, signora. |
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